Italian, Stateless Embassies
I Nodi di Netanyahu Vengono al Pettine

Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 14 dicembre 2023 con il titolo Netanyahu’s Chickens Come Home to Roost. Traduzione di Enrico Sanna.

Ovvero, Come gli stati si creano i nemici

Probabilmente conoscete l’espressione “darsi la zappa ai piedi”. In un certo contesto significa che molte delle minacce esterne che gli stati nazionali si trovano ad affrontare sono conseguenza dei loro stessi precedenti interventi e atti di forza. L’attacco terroristico del 7 ottobre di Hamas contro Israele è un esempio classico.

Pochi sanno che se Hamas esiste ed è particolarmente potente è grazie a Israele. Mehdi Hassan e Dina Sayedahmed su Intercept citano le parole del generale Yitzhak Segev, governatore militare a Gaza nei primi anni Ottanta, che al giornalista del New York Times David Shipler dichiara “di avere collaborato a finanziare il movimento islamista palestinese perché facesse da ‘contrappeso’ alle organizzazioni di sinistra OLP e Fatah guidate da Yasser Arafat.” “Il governo israeliano mi dava una certa cifra,” dice Negev, “affinché il governo militare lo passasse alle moschee.”

Avner Cohen, funzionario israeliano a Gaza durante gli anni Settanta e Ottanta, ammette che “Hamas, purtroppo, è opera di Israele”. Lui ha visto il movimento islamista prendere forma, spazzare via i rivali palestinesi laici ed evolversi fino all’attuale Hamas, un gruppo combattente che vuole la distruzione di Israele. Cohen poi aggiunge che

invece di cercare di contenere la crescita islamista a Gaza fin da subito, Israele per anni ha tollerato questi gruppi, arrivando anche a incoraggiarlli come contrappeso delle organizzazioni nazionaliste laiche, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e la sua corrente principale, al Fatah di Yasser Arafat. Israele collaborò con lo sceicco Ahmed Yassin, il chierico paraplegico mezzo cieco che stava mettendo su quello che sarebbe diventato Hamas.

L’antesignana di Hamas, la Mujama al-Islamiya di Yassin, era un’innocua organizzazione dedita perlopiù ad opere di beneficenza e assistenziali a Gaza. L’organizzazione cambiò volto e diventò Hamas negli anni Ottanta, grazie al sostegno israeliano.

Israele vedeva in Mujama al-Islamiya e nella successiva Hamas un male minore rispetto alla Olp; pensava che dividere i palestinesi avrebbe fatto gli interessi dello stato ebraico. Israele bollava l’Olp come organizzazione terroristica, una grossa minaccia per i suoi interessi, ma anche Hamas le era contro per via del suo nazionalismo laico. Ma Israele e Hamas finirono per allearsi contro l’Olp…

A Gaza l’amministrazione israeliana a guida militare vedeva di buon occhio il chierico paraplegico che aveva messo su una rete di scuole, ambulatori, asili e una biblioteca. Lo sceicco Yassin fondò l’organizzazione islamista Mujama al-Islamiya, riconosciuta da Israele come opera assistenziale e, dal 1979, come associazione. Israele appoggiò anche la fondazione dell’università islamica di Gaza, che oggi considera un ricettacolo di attivisti.

(Ironicamente, Hamas è anche una escrescenza dei Fratelli Musulmani, l’associazione fondamentalista appoggiata dagli Stati Uniti per contrastare il nazionalismo laico di nasseristi e baathisti).

Ma Israele, fedele alla strategia del divide et impera, continuò ad offrire supporto a Hamas, anche se in misura minore, anche dopo la sua trasformazione in partito politico e movimento resistenziale antiisraeliano a partire dalla fine degli anni Ottanta.

Nel 1987, quando Hamas fu istituito e divenne partito politico e forza militare di resistenza all’occupazione israeliana, cambiò la politica del governo israeliano, ora meno disposto a dare libertà a Hamas. Ma questo non scoraggiò le autorità israeliane che continuarono a portare avanti la tattica del divide et impera tra i movimenti nazionali islamisti… e il nazionalismo laico… Questa è sempre stata la tattica usata dalle forze coloniali in tutto il mondo, e Israele non fa differenza. Si tratta di politiche, dirette o implicite, finalizzate a dividere la popolazione.

I sostenitori di Israele accusano spesso i palestinesi per aver rifiutato negoziati pacifici e la possibilità di un accordo su due stati, come a Oslo. Quello che non dicono è che fu Benjamin Netanyahu, l’attuale primo ministro, a fare di tutto per far fallire gli accordi di Oslo.

Se Hamas da un lato cercò di sabotare il processo di pace di Oslo (continuando però a prendere i soldi da Israele), l’opposizione più forte veniva dai coloni israeliani fascisti in Cisgiordania. Pur negando di essere stato complice, o anche di aver contribuito alla retorica incendiaria (“sostiene di non aver visto striscioni né sentito slogan”), Netanyahu, allora leader dell’opposizione, era coinvolto attivamente con le forze politiche di estrema destra che non solo demonizzavano l’allora primo ministro, il laburista Yitzhak Rabin, per aver firmato gli accordi di Oslo, ma ne chiedevano la testa.

Nelle settimane precedenti l’assassinio, Netanyahu, allora a capo dell’opposizione, organizzò a Gerusalemme assieme a membri anziani del Likud un raduno di protesta in cui Rabin veniva accusato di essere un “traditore”, “assassino”, “nazista” per l’accordo di pace con i palestinesi firmato quello stesso anno.

A Ra’anana Netanyahu partecipò a una marcia di protesta in testa ai manifestanti che sfilavano con una bara finta.

Tra i principali sostenitori di Netanyahu ci sono molti tra i coloni più estremisti della Cisgiordania oltre che fanatici religiosi ultranazionalisti per i quali la retorica anti-Rabin era la norma. Così Wikipedia a proposito dell’assassinio di Rabin:

Per i nazionalisti conservatori religiosi e i leader del Likud il ritiro dal territorio “israeliano” era un’eresia. Il leader del Likud e futuro primo ministro Benjamin Netanyahu accusò il governo di Rabin di essersi posto “fuori dalla tradizione […] e dai valori ebraici”. La destra rabbinica alleata con il movimento dei coloni proibì la concessione di territorio ai palestinesi, e proibì anche ai soldati delle forze di difesa israeliane di evacuare i coloni ebrei secondo gli accordi. Contro Rabin personalmente, alcuni rabbini invocarono il din rodef sulla base della tradizionale legge ebraica dell’autodifesa, perché a loro dire gli accordi di Oslo mettevano a rischio la vita degli ebrei.

Nei raduni organizzati dal Likud e da altri gruppi di destra Rabin era raffigurato vestito da SS o al centro di un mirino. I manifestanti paragonavano il Partito Laburista ai nazisti e Rabin a Adolph Hitler, e urlavano in coro: “Rabin assassino”, “Rabin traditore”. A luglio del 1995, ad un raduno contro Rabin, Netanyahu guidò un finto funerale con tanto di bara e nodo scorsoio, mentre i manifestanti urlavano in coro “Morte a Rabin”. Il capo della sicurezza interna Carmi Gillon, venuto a conoscenza di un complotto per assassinare Rabin, chiese inutilmente a Netanyahu di abbassare i toni.

Riflettiamo. Il capo dello Shin Bet, i servizi segreti israeliani, dice a Netanyahu che Rabin è seriamente minacciato di morte e gli chiede di abbassare i toni. Netanyahu si rifiuta. Con l’assassinio di Rabin si spegne il processo di pace di Oslo, e subito dopo Netanyahu diventa primo ministro.

Secondo le fonti citate nei link, molti dei funzionari israeliani coinvolti nel sostegno iniziale a Hamas hanno poi definito il fatto un “errore”. Ma anche quando è diventato chiaro che Hamas era un’organizzazione terroristica, Netanyahu (che ultimamente insiste a definire Hamas “parte di un’alleanza del male che comprende gli Hezbollah e l’Iran” e che ha “il chiaro obiettivo di uccidere quanti più ebrei è possibile”) ha continuato per vent’anni a sostenere il governo di Hamas a Gaza.

Secondo Tal Schneider del giornale The Times of Israel, Netanyahu ha, perlomeno tacitamente, trattato Hamas come un “collaboratore” contro Abbas e l’autorità palestinese, nella speranza di indebolire l’idea dei due stati definita a Oslo e sostenuta dall’autorità. Dopo il ritiro militare israeliano, Netanyahu cinicamente appoggiò il governo di Hamas al fine di separare Gaza dalla Cisgiordania: “per evitare che Abbas, o chiunque all’interno dell’autorità governativa palestinese in Cisgiordania, fosse in grado di proporre l’istituzione di uno stato palestinese.” Nel sostegno rientrava anche l’appoggio nascosto al trasferimento di fondi dal Qatar verso Gaza.

Perlopiù la politica israeliana consisteva nel trattare l’Autorità Palestinese come un peso e Hamas come una risorsa da sfruttare…

Secondo varie testimonianze, Netanyahu sostenne qualcosa di simile ad un incontro di una fazione del Likud agli inizi del 2019, quando, secondo testimoni, disse che chi era contro lo stato palestinese doveva appoggiare il trasferimento di fondi a Gaza, perché tenere separate le autorità di Gaza e della Cisgiordania avrebbe evitato la nascita di uno stato palestinese.

Come spiega Tareq Baconi, del Palestinian Policy Network, Netanyahu sperava di azzoppare la più ampia causa palestinese e soffocare qualunque speranza in una soluzione a due stati.

Questa politica raggiunse l’apice nel 2007, quando Hamas, dopo aver vinto le elezioni democratiche l’anno prima, salì al potere, e le autorità israeliane cercarono assieme al governo statunitense di provocare un cambio di regime, dando vita a una guerra civile tra Hamas e Fatah che portò Hamas a prendere il potere sulla Striscia di Gaza. Da allora, le autorità israeliane cominciarono a sostenere apertamente l’idea di Hamas come autorità di governo a Gaza… Israele voleva separare Gaza dal resto della Palestina storica così da poter dimostrare che la Palestina è un’entità statale a maggioranza ebraica. Eliminati dal panorama due milioni di palestinesi, due terzi dei quali rifugiati che chiedono di tornare, Israele potrebbe presentarsi come stato ebraico democratico con una sua forma di apartheid. Per questo lasciò che Hamas continuasse a governare e allo stesso tempo annunciò l’embargo alla Striscia di Gaza perché Hamas era al potere…

Hamas al potere a Gaza diventò la scusa ideale per mantenere separata Gaza dal resto della Palestina… Ma servì anche a intensificare lo sforzo israeliano volto a mantenere divise le dirigenze palestinesi, applicando così la politica del divide et impera all’Autorità Palestinese e a Hamas.

Il modo in cui Israele incanalava il denaro dal Qatar a Gaza (ma anche la politica di Netanyahu che contrappose tra loro i diversi movimenti palestinesi così che nessuno diventasse forte abbastanza da unificare Gaza e Cisgiordania) è descritto in dettaglio in un articolo di India Today:

Netanyahu pensava che l’Autorità Palestinese tornasse utile ad Israele, e che pertanto pertanto non dovesse essere lasciata morire.

Da anni questa è la politica di bilanciamento attuata da Israele con Netanyahu: tenere separati i centri di potere di Gaza e della Cisgiordania. Non permettere all’Autorità Palestinese di rafforzarsi, ma al contempo evitare che collassi, e soprattutto sostenere Hamas…

“Chiunque si opponga alla nascita di uno stato palestinese dovrebbe agevolare il trasferimento di fondi a Gaza, perché tenere separate l’Autorità Palestinese in Cisgiordania e Hamas a Gaza serve ad evitare la nascita di uno stato palestinese.” ~ The Jerusalem Post, da una dichiarazione del primo ministro Netanyahu del 2019.

Tutti questi nodi vengono al pettine il sette ottobre corso: uno stato autoritario che nel tentativo di imporsi alimenta le forze da cui poi viene attaccato.

Si tratta di un fenomeno ricorrente. Un luogo comune diffuso presso gli americani è: “si combattono da millenni e non possiamo farci nulla”. In realtà, la violenza in Medio Oriente è quasi interamente conseguenza di interventi imperialistici occidentali dell’ultimo secolo circa. Il primo passo lo fece T.S. Lawrence quando spinse i nazionalisti arabi a lottare l’Impero Ottomano durante la prima guerra mondiale, con la promessa di uno stato arabo indipendente negli accordi postbellici: una promessa tradita nel momento stesso in cui veniva formulata dal trattato segreto franco-britannico Sykes-Picot, che prevedeva la divisione delle province arabe della Turchia in altrettanti mandati amministrati dai due paesi autori dell’accordo. In particolare la Grande Siria, cuore del previsto stato arabo, fu divisa in due mandati: Siria e Libano amministrati dalla Francia, e Palestina e Cisgiordania amministrate dalla Gran Bretagna. Nel frattempo, la Gran Bretagna incoraggiò e armò l’ondata opposta nazionalista e il Sionismo che, con la Dichiarazione di Balfour, ebbe come effetto un’impennata degli insediamenti in Palestina da parte di ebrei europei.

Sempre la Gran Bretagna appoggiò attivamente l’occupazione della Hegiaz (comprendente le due principali città sante dell’Islam) da parte della famiglia saudita, unificando così gran parte della penisola arabica sotto il regno saudita. La religione ufficiale del regno saudita è il Wahhabismo, una versione profondamente fondamentalista dell’Islam sunnita, a cui aderiscono i Fratelli Musulmani e i Mujaheddin afgani, così come Al Qaeda e l’Isis di oggi.

Come detto, gli Stati Uniti hanno sostenuto il fondamentalismo dei Fratelli Musulmani, da cui discende Hamas, per contrastare in senso religioso la politica di Nasser. I Fratelli Musulmani rovesciarono il governo laico e liberale di Mossadegh in Iran, ponendo le basi per il rovesciamento dello Scià e il trionfo del fondamentalismo una generazione più tardi. Gli Stati Uniti hanno finanziato anche i Mujaheddin, poi evolutisi in Al Qaeda. E in reazione agli attentati dell’undici settembre 2001, avvenuti per mano della loro stessa creatura, hanno invaso l’Iraq, creando così il vuoto da cui sono emersi Al Qaeda in Iraq e l’Isis.

Arriviamo così a Israele e Hamas.

La realtà è evidente. Ogni volta che uno stato cerca di imporre il proprio volere sul resto del mondo, alimenta forze che prima o poi inevitabilmente colpiranno la sua popolazione. Quindi ad ogni atto di ritorsione lo stato invoca più potere nel nome della “lotta al terrorismo”. Che a sua volta crea nuovi nemici all’estero.

È ora di lasciarli perdere.

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Spanish, Stateless Embassies
Activistas de Antifa como los más auténticos defensores de la libertad de expresión

William Gillis. Artículo original:  Antifa Activists As The Truest Defenders Of Free Speech, del 19 de noviembre de 2017. Traducción al español por Vince Cerberus.

Este es el primer ensayo del Simposio de Intercambio Mutuo de noviembre: Libertad de expresión y violencia política

Los anarquistas siempre han prestado mucha atención a los circuitos de retroalimentación. Acciones aparentemente pequeñas, pequeños acuerdos, pequeños males tolerados pueden rápida o inexorablemente generar relaciones de poder sistemáticas y aparentemente omnipotentes. Cosas que, aisladas, no parecen tan malas, pueden conducir a la formación de estados o hacerlos aún más autoritarios. Ciertos acuerdos económicos pueden llevar a que la riqueza concentre progresivamente el poder en manos de unos pocos. Como anarquistas siempre estamos enfocados en los peligros de permitir que alguien obtenga el monopolio de cualquier cosa. Sobre los peligros de incluso los actos interpersonales de dominación más pequeños. Y como radicales nunca nos conformamos con las convenciones establecidas, siempre nos preguntamos dónde falla lo que se considera “sentido común”. Siempre estamos buscando las condiciones límite más allá de las cuales una regla empírica ya no es útil. ¿En qué contextos algunos peligros superan a otros peligros?

El ideal de la libertad de expresión (o, como creo que debería analizarse mejor, la libertad de información) es un ideal de increíble importancia que se extiende mucho más allá de simplemente oponerse a la censura estatal. Es profundamente preocupante ver cómo ese valor se erosiona con la retórica del conflicto en línea. Sin embargo, la libertad de expresión no es un ideal tan claro como algunos piensan; su aplicación o seguimiento es inevitablemente complicado, como admiten sus defensores más estudiados. Un mundo de comunicación abierta y vibrante donde las ideas más precisas lleguen a la cima es un objetivo, no algo que pueda lograrse codificando unas pocas reglas de acción simplistas.

Todos podemos estar de acuerdo en que cortar los cables telegráficos de los generales fascistas que coordinan una invasión violaría su “libertad de expresión” personal, pero también es una acción claramente justificada en la medida en que salva la libertad de expresión de los millones que planean subyugar. Para defender verdaderamente la libertad de expresión en general, a veces debemos negársela a sus enemigos asesinos. Para defender el ideal de un mundo ricamente interconectado donde la información fluya libremente se necesita más que palabras: se requiere acción contra quienes se organizan brutalmente contra él.

Es precisamente mi apertura a ideas contrarias o extremas, mi diligencia a la hora de escuchar a todas las partes, lo que me ha llevado a darme cuenta de las complejidades de la libertad de expresión. En particular, para reconocer situaciones muy extremas en las que el peligro de retroceder en normas sociales ampliamente tolerantes es superado por el peligro de aquellos ideológicamente comprometidos con la dominación y cuyo reclutamiento no se realiza mediante la razón sino mediante demostraciones de fuerza. Siempre hay excepciones a estrategias y heurísticas que de otro modo serían buenas: como anarquistas no confiamos en el Estado ni en su obtuso y peligroso sistema legal y, por lo tanto, es nuestro deber como individuos no escondernos de tales complicaciones. Es nuestra responsabilidad como individuos juzgar y actuar a veces de maneras en las que nunca confiaríamos en que ninguna institución monopolista juzgaría o actuaría. Aunque, por supuesto, debemos tener cuidado y estar atentos de todos modos.

Si bien inevitablemente tengo algunos desacuerdos con algunos de la amplia y diversa gama de activistas que trabajan como antifascistas, valoro el trabajo que los grupos y organizaciones antifa han realizado durante mucho tiempo para salvaguardar nuestro mundo de los peores horrores posibles. Cuando en mi vecindario, hace una década, se erigían esvásticas, se atacaban negocios propiedad de personas de color y los neonazis atacaban brutalmente a la gente, ciertamente no iba a acudir a la policía. Soy anarquista y coherente en mi oposición al autoritarismo del estado policial. Pero también la policía de Portland –como muchos otros departamentos– está infestada de nacionalistas blancos y en general simpatiza con esa escoria. En lugar de eso, envié descripciones a algunos miembros de la comunidad que se habían hartado y formaron un grupo antifa y estaban investigando y exponiendo activamente a estos neonazis. Su trabajo como periodistas y activistas para organizar boicots y resistir físicamente los ataques ayudó a salvar mi vecindario y nunca lo olvidaré. De manera similar a cómo los líderes religiosos en Charlottesville atacados por neonazis nunca olvidarán a los anarquistas del bloque negro que se apresuraron a arriesgar sus cuerpos para salvar sus vidas . Como anarquista (y la abrumadora mayoría de los “antifa” también son anarquistas diligentes que rechazan al Estado como medio ético) he permanecido en los mismos círculos y escuchado lo que han tenido que decir a lo largo de los años a medida que los he escuchado decir que viajaron de ciudad en ciudad, de país en país. Siempre me ha impresionado su erudición, consideración y valentía.

A medida que grupos fascistas y nacionalistas blancos en toda regla han comenzado recientemente a utilizar el ascenso político de Donald Trump para infiltrarse en las protestas o el activismo conservador, la situación se ha vuelto más compleja. Y también se ha vuelto más tenso a medida que “antifa” ha entrado repentinamente en el léxico popular, casi deformado hasta quedar irreconocible. Los nerds de la investigación demasiado matizados que viven en una oscuridad sin elogios que yo conocía han sido presentados abruptamente como matones adoradores de la violencia, o universitarios ingenuos y espumosos que buscan golpear a cualquiera que sea problemático. Esto es, como todos los anarquistas saben, absolutamente incorrecto, aunque estas narrativas caricaturescas y desconectadas claramente promueven las agendas tanto de liberales como de conservadores. Lamentablemente, en algunos aspectos esta narrativa mediática se está convirtiendo en una profecía autocumplida que margina a los grupos antifa de larga data y arroja las cosas en un conflicto mucho más amplio entre los partidarios de Trump (como “nazis”) versus todos y cada uno de los oponentes de Trump (como “antifa”), un un marco sorprendentemente ignorante que sólo beneficia a los entristas fascistas y ayuda a difundir información errónea a través de la paranoia partidista dominante.

Pero claramente existen importantes desafíos éticos y estratégicos que el análisis dominante entre los activistas antifascistas nos presenta al resto de nosotros.

1 Cuando los nazis realizan una marcha con armas de fuego a través de un barrio judío, ¿es realmente sólo una cuestión de discurso abierto?

2 ¿Dónde se traza un límite razonable de “inminencia” o “probabilidad” de una amenaza?

3 ¿Cuántas personas es necesario matar y con qué frecuencia para que nos veamos en guerra?

4 Si un grupo se organiza de manera que un ala trabaje como luchadores callejeros y asesinos y otra ala como portavoces públicos y reclutadores, ¿deberíamos realmente estar obligados a tratarlos como grupos distintos o en qué punto deberíamos verlos como la misma entidad?

Muchas de estas preguntas serían repugnantes si confiáramos en el propio estado leviatán para juzgar tales distinciones. Pero somos anarquistas y, como individuos autónomos, nuestras responsabilidades y capacidades éticas son diferentes. Mientras que las instituciones pueden tener que comportarse como consecuencialistas de las reglas para que su impulso burocrático no las lleve a lugares terribles, las mentes individuales tienen la capacidad –y la responsabilidad– de comportarse a menudo más como consecuencialistas de los actos, capaces de reconocer los matices y el contexto de maneras más detalladas. En lugar de ceñirnos a reglas torpes, podemos examinar el contexto específico de cada posible acción que tenemos ante nosotros.

Estoy de acuerdo con la crítica antifascista dominante al liberalismo y su miopía. Los liberales no comprenden la amenaza que plantea el fascismo: privilegian demasiado la estabilidad percibida de sus instituciones y el statu quo. Codifican códigos de conducta simplistas inspirados en el sistema legal del estado y, naturalmente, los fascistas pueden burlarlos. Los liberales felizmente legitiman a los fascistas a través del debate, sin darse cuenta de que el juego que juegan los fascistas no es el juego de la razón, sino el juego de los llamamientos psicológicos. En la práctica, el fascismo tiene éxito en el debate –en el sentido de movilizar rápidamente a una cantidad suficiente de población para lograr sus objetivos– porque la verdad es compleja, mientras que las narrativas falsas pero simplistas suelen tener más resonancia emocional.

La mayoría de los grupos Antifa de larga data, obvia y explícitamente, no buscan ganar por sí solos la larga guerra contra el fascismo, sino ganar las batallas inmediatas necesarias para nuestra supervivencia. A largo plazo, el fascismo nunca será derrotado con los puños, sino con toda esa mierda como la empatía y la ciencia en las que el fascismo es malo. En última instancia, será derrotado haciendo del mundo un lugar mejor, abordando las dinámicas psicológicas y sociológicas más profundas que hacen posible el fascismo. Sólo ganaremos verdaderamente cuando logremos un mundo de abundancia sin opresión, donde la jerarquía social y los juegos de dominación finalmente se pierdan en la historia. Ese día obviamente está muy lejos. Es importante que sigamos trabajando diligentemente para lograrlo, para seguir haciendo crecer las raíces de un mundo así.

Pero también es importante que sobrevivamos para verlo. No podemos darnos el lujo de privilegiar completamente el futuro sobre el presente, del mismo modo que no podemos darnos el lujo de privilegiar el presente completamente sobre el futuro. Los fascistas que se movilizan en las calles plantean un riesgo existencial relativamente inmediato para muchas comunidades. La situación que enfrentamos ahora, con no sólo una fuerza policial sino un poder ejecutivo profundamente infestado de nacionalistas blancos declarados y que simpatiza con ellos, plantea problemas únicos que no se pueden reducir a las luchas que expulsaron a los matones neonazis de las ciudades estadounidenses en los años 80, 90 y 2000, pero Tampoco podemos darnos el lujo de ignorar la experiencia y los conocimientos de esas luchas.

Gran parte del “debate” sobre la libertad de expresión y los análisis de larga data que se han desarrollado entre los activistas antifascistas que luchan contra el fascismo han estado profundamente desconectados de los peligros de la organización fascista y de la historia del activismo antifascista. Es extraño escuchar a personalidades de los medios conservadores repetir la narrativa: ” ANTIFA es un grupo de matones que se oponen a la libertad de expresión, ellos son los verdaderos fascistas “, que hace una década solo escuchabas a hermanos de metal de mierda molestos porque una banda que les gusta fue expuesta como neonazis y boicoteados. Pero entre los críticos sinceros de las organizaciones antifa en los círculos anarquistas creo que la tensión subyacente no es sólo de filosofía, sino de visiones profundamente diferentes del panorama estratégico.

Los enfoques de Antifa no están ni remotamente diseñados para ganarse los corazones y las mentes de la población en general, sino para evitar que los matones fascistas hagan metástasis en números demostrando una fuerza sin oposición. Simpatizo profundamente con las formas de activismo que no intentan “ganar votos” sino simplemente resolver directamente un problema, incluso si ese problema es sólo la supervivencia momentánea de la civilización. Sin embargo, es cierto que hay un grado en el que la extrema derecha de hoy recluta a través de mecanismos diferentes a los neonazis de los años 80, partiendo de una base mucho más grande y más convencional a la que están intentando radicalizar utilizando la violencia antifascista como un hombre del saco.

Aunque los activistas que realmente realizan trabajo antifascista sobre el terreno son en muchos sentidos epistémicamente privilegiados en comparación con nosotros, que ofrecemos consejos desde la galería del maní, la mejor receta exacta de estrategias para contrarrestar esta actual ola de organización nacionalista blanca claramente sigue siendo una pregunta abierta.

Espero que este Intercambio Mutuo aclare algunas de estas cuestiones complejas y tal vez apague las sospechas tribales que pueden surgir en ausencia de un discurso. Tengo críticas a algunas cosas y algunos acontecimientos bajo el amplio lema de “antifa” (como lo hacen la mayoría de los antifa), pero encuentro sus argumentos en general potentes y persuasivos.

Este es un tema difícil porque para la mayoría de las personas lo que está en juego parece inmenso y, por lo tanto, existe el instinto de evitar cualquier cosa que pueda abrir una grieta retórica a cualquier posible oscuridad horrible que uno sienta que está presionando. Espero que podamos hacerlo mejor, y tal vez encontrar nuestro camino hacia algún tipo de meta-resolución.

Dado que estamos hablando de grupos antifascistas realmente existentes, seguiré en gran medida su ejemplo y me apegaré al uso de “fascista” en el sentido político específico de los antimodernistas y antiglobalistas autoritarios, ampliamente hipernacionalistas, en la tradición de Mussolini, Hitler, Schmitt, Evola y col. en lugar del sentido filosófico abstracto de CUALQUIER autoritarismo extremo, tribalismo o adoración amoral del poder. Seguro que se pueden encontrar grados de “fascismo” en todo, desde las comedias que vemos hasta el diseño de la tienda de comestibles de nuestro vecindario, y ese tipo de conversaciones filosóficas radicales pueden ser esclarecedoras, del mismo modo que también hay lugar para comparaciones entre liberales autoritarios como Hillary Clinton a los fascistas, pero tratemos de seguir con el asedio a los idiotas. En aras de la brevedad, a diferencia de los grupos antifa que tienden a la precisión nerd, también me referiré de manera amplia y coloquial a una variedad de nacionalistas blancos de tradición fascista como “nazis”. No creo que en ese lenguaje se pierda ninguna distinción éticamente importante.

Dividiré mi artículo inicial en cinco partes: 1) Por qué es importante la libertad de expresión. 2) Por qué los fascistas constituyen una amenaza real y apremiante. 3) Una defensa en abstracto de cada uno de los medios más destacados de los activistas antifascistas: informar, boicotear, doxing, defensa física y perturbación física proactiva, así como respuestas a otras críticas más abstractas. 4) Retroalimentación crítica sobre algunas tendencias de la estrategia antifascista en el contexto actual. 5) Un desafío a los críticos sinceros de los actuales activistas antifascistas.

Por qué es importante la libertad de expresión

Aunque espero que esto se lea como una enérgica defensa de Antifa y sus supuestas “violaciones” de la libertad de expresión, quiero comenzar con un artículo que subraye la importancia del ideal de la libertad de expresión.

Quizás lo más repugnante del posicionamiento de la ultraderecha sobre la “libertad de expresión” haya sido la reacción calculada que ha provocado entre la izquierda radical más joven. Si la extrema derecha dice que está a favor de algo, una cierta fracción de la izquierda en línea declarará convulsivamente que eso es malo, prohibido y ajeno al grupo. Este tribalismo reactivo tiene mucho que ver con la forma en que nuestras mediocres tecnologías de la información han enmarcado y dado forma a las normas de comunicación y asociación social en línea. Es difícil saber quién es un “random” en línea o cuál es su postura respecto de cosas importantes, por lo que las personas fetichizan y reaccionan exageradamente ante cualquier significado que puedan encontrar para tratar de eliminar a los trolls y asegurar cierto nivel de acuerdo mutuo productivo en sus círculos o asegurar algo básico, normas sociales.

La “libertad de expresión” ha comenzado a convertirse en nada más que un significado de cierto tipo de troll de Internet que usa la frase como un escudo vacío y, por lo tanto, muchas personas convulsionan para repeler a cualquiera que invoque esa frase ajena al grupo. En el proceso, algunas críticas legítimas a las malas aplicaciones de la “libertad de expresión” se han difundido y aplicado ampliamente. Los memes que señalan las guerras se han vuelto tan malos que en algunos lugares es básicamente obligatorio responder con algo como “muh, congela el melocotón” inmediatamente después de la invocación de la “libertad de expresión” para que no se revele que estás en las garras del estúpido grupo externo.

Esto es improductivo.

El hecho de que los liberales a menudo apliquen mal la “libertad de expresión” para defender la organización neonazi o las manifestaciones de intimidación no significa que podamos permitirnos el lujo de descartar un ideal tan importante o su centralidad. La mala aplicación de la “libertad de expresión” como una especie de legalismo miope que puede ser invocado por matones que se ríen para calmar nuestra resistencia no debería eclipsar el valor subyacente.

Como anarquistas buscamos promover y expandir la libertad. Pero para que las personas tengan capacidad de acción en sus vidas y en su entorno, deben tener un modelo preciso del mundo. La libertad es literalmente imposible en la ignorancia. Si no conoce las consecuencias o el contexto de sus acciones, no se puede decir de manera significativa que las elija. La libertad de información –la versión aún más radical y expansiva de la “libertad de expresión”– consiste en ampliar el acceso a la información, y no sólo a los detalles más escuetos, sino al contexto completo de las cosas. Esto incluye el contexto social, las conversaciones, las valoraciones, el debate de ideas y sí incluso las mentiras. Sin acceso a las perspectivas, los modelos y las experiencias de los demás, nuestra comprensión del mundo sería increíblemente empobrecida e inexacta. La comprensión se logra de manera más eficiente a través de la apertura y la colaboración.

Siempre estamos tentados a aislar ámbitos del discurso o de las ideas y afirmar que algunos discursos no tienen nada que aportar, no tienen valor, pero existe inherentemente el peligro de que pequeñas desviaciones (pequeñas ignorancias elegidas) puedan agravarse hasta que estemos totalmente fuera de lugar. Cuando, por ejemplo, dejamos de escuchar por completo a todos los conservadores, podemos pasar por alto cuán terribles son ciertos males que se están gestando entre sus filas, podemos pasar por alto nuevos enredos en sus análisis que podrían significar la ruina o descarrilarlos en una dirección más productiva. Y extrañaremos cuando, como un reloj roto, terminen tropezando con algunas cosas verdaderas que todos hemos pasado por alto.

El cierre epistémico es muy peligroso y ocurre gradualmente. Una lente legítimamente crítica hacia la prensa capitalista y la propaganda estadounidense puede deformarse y decir que “el holodomor nunca ocurrió. No se puede escuchar a los historiadores burgueses”.

Así como las organizaciones violentas centralizadas siempre corren el riesgo de convertirse en una avalancha desbocada de estados e imperios en toda regla, también las pequeñas desviaciones de la diligencia intelectual pueden salirse de control. A menudo pensamos “oh, es psicológicamente útil creer en alguna mierda mística” o “claro que esto crea una cámara de eco, pero refuerza nuestra amistad” y consideramos que el daño causado es muy pequeño en comparación con el bien. Nuestros cerebros de mono y sus instintos no son completamente racionales, por lo que los afrontamos mediante una irracionalidad supuestamente limitada. Cambiamos parcialmente la búsqueda de precisión intelectual por los impulsos psicológicos que nos brindan el colectivismo, el tribalismo, la burla, etc. Pero estos se perpetúan y refuerzan, erosionan nuestra capacidad de ver cuánto daño estamos haciendo, qué tan lejos nos hemos alejado de la realidad del enfoque en la precisión. Finalmente, la corrupción crece hasta que el reconfortante rugido del grupo se vuelve mucho más poderoso que cualquier curiosidad o miedo a lo desconocido que acecha más allá de las líneas enemigas.

La izquierda siempre ha tenido una infección absolutamente terrible con este tipo de cosas. Es fácil, cuando se tiene claramente razón en cuestiones muy importantes y apremiantes, decidir que el tiempo del análisis ha terminado y contrastar la acción con la diligencia intelectual, sugerir que la investigación es contrarrevolucionaria y exigir que toda teorización rinda frutos inmediatamente, ya sea en términos de fortalecimiento psicológico o medios prácticos. Ha habido décadas en las que la gente hace caso omiso de las cuestiones “abstractas” y declara: “Resolveremos esto a través de la praxis”, cuando lo que eso realmente significa es “Resolveremos esto a través de prueba y error una vez que la mierda llegue al ventilador y podamos En realidad, no tengo tiempo para arduos ensayos y errores”. No es ningún secreto que la izquierda y los medios radicales como el anarquismo tienen una inclinación latente hacia el antiintelectualismo, a pesar de que, al mismo tiempo, a menudo están estancados en referencias insulares a terminología y filósofos esotéricos. Los izquierdistas se organizan colectivamente y los radicales a menudo nos definimos por nuestro activismo; Como consecuencia, siempre habrá una presión de “basta de hablar, actuemos” para despreciar la comunicación y el análisis abstractos o distantes y, ciertamente, el compromiso con cualquiera que sea problemático.

Pero ese “pragmatismo” está fundamentalmente en desacuerdo con el radicalismo, es decir, perseguir las raíces de las cosas. Cuando asumimos que lo que tenemos es “suficientemente bueno”, los puntos ciegos no tardan en empezar a crecer sin control. Durante décadas, los comunistas suscribieron la locura del lysenkoísmo porque los capitalistas occidentales también tenían que estar equivocados acerca de la evolución darwiniana. En los años 90, las locuras antivacunas eran la puta norma entre los anarquistas, rara vez se oponían a ellas porque, ¿qué te vas a poner del lado de las grandes corporaciones?  La lista de situaciones embarazosas para la izquierda es larga y aterradora. Nuestra ceguera voluntaria ha tenido consecuencias, a veces bastante nefastas. ¿Cuántas personas han dejado que su apoyo simplista e instintivo a “los desvalidos” y una cámara de resonancia comunitaria los conduzcan por el camino de apoyar a Israel o Corea del Norte o lo que sea?

¡La apertura y el compromiso son nuestros putos valores! La base misma del anarquismo es el internacionalismo, el posnacionalismo, el globalismo: unir al mundo en la liberación colectiva, en la creación colaborativa de un cosmopolitismo pujante, finalmente libre de los Estados y de las heridas que nos atraviesan y llaman fronteras. Es más que absurdo y exasperante que aquellos dedicados al cierre de fronteras, a la partición y al apartheid de la humanidad, puedan alguna vez ser tomados en serio como idealistas de la “libertad de expresión”. Es aún más irritante que alguien permita que la extrema derecha que quema libros intente apropiarse del manto de la libertad de expresión en línea. El puto objetivo de Internet es disolver las fronteras permanentemente.

Los reaccionarios han logrado reducir las grandes aspiraciones de la libertad de expresión a algo tan estúpido y desconectado como si alguien puede recibir un puñetazo por decir la palabra que empieza con n. Se han alejado de la libertad de información y se han centrado en la libertad de expresión, mucho más miope y, en última instancia, incoherente. En lugar de ver los flujos de información y el procesamiento epistémico eficiente en la sociedad en su conjunto, se han limitado a determinar si alguien puede salirse con la suya y decir lo que quiera sin consecuencias. Lo han hecho en gran parte porque se lo hemos permitido. Hemos permitido que el discurso se derrumbe hasta convertirse en mero legalismo, que exista sólo en relación con el Estado y códigos de conducta simplistas.

Básicamente todo el mundo entiende el argumento en contra de la censura estatal. Si una sola organización ya hiperpoderosa con un casi monopolio de la violencia también logra determinar qué información puede pasar entre las personas, la resistencia a ese estado se vuelve realmente imposible. Puede hacer lo que quiera y no hay forma de detenerlo. Y tal como funciona el sistema legal, incluso una pequeña porción de censura justificada puede ampliarse rápidamente a la censura de cualquier cosa. Esta es la razón por la que incluso los estatistas reconocen la necesidad de asegurarse de que el Estado nunca pueda censurar nada, así como la importancia de impedir que el Estado llegue a tener un verdadero monopolio del 100% de la violencia. En Estados Unidos, ambas preocupaciones están incluso codificadas como las Enmiendas 1 y 2 de su constitución.

Pero pocas personas parecen estar de acuerdo sobre los contornos de la “libertad de expresión” más allá de la prohibición de la censura estatal. La inminente presencia del Estado ha atrofiado tanto nuestra capacidad de hablar de ética, valores y objetivos fuera de él.

¿Es libertad de expresión gritar sobre tu discurso para que no te escuchen? ¿Es libertad de expresión crear un entorno hostil para todas las perspectivas excepto para la mayoría, de modo que cualquiera que se desvíe sea rápidamente acosado? ¿Es libertad de expresión sentirse obligado a darle tiempo a cada ignorante al azar en su canal de noticias para decir lo que quiera? ¿Es libertad de expresión transmitir ciertos unos y ceros que piratean la computadora de alguien?

¿A qué apuntamos exactamente aquí? Incluso hacer esa pregunta suena extraño en estos días porque el objetivo de la libertad de expresión se ha perdido en el código de la libertad de expresión. Esta reducción ha hecho que todo el asunto parezca como niños quejándose en el asiento trasero por un conjunto de reglas arbitrarias. El matón que anuncia con moquedad “este árbol es una base de operaciones, no puedes devolverme el golpe cuando lo toco”. “En realidad no te estoy tocando todavía, sólo estoy organizando hordas de compañeros nazis para lanzar nuestro genocidio en algún momento en el futuro. ¿Por qué vas a andar golpeando a la gente por lo que PODRÍAN hacer después? ¿Estás de acuerdo con golpear a la gente por tener OPINIONES DIFERENTES???”

Si se piensa en la libertad de expresión como un objetivo, como un valor que debe maximizarse en el mundo, en lugar de una especie de ley o contrato, toda la cuestión se vuelve obvia:

Es una buena regla general pecar fuertemente del lado del compromiso y el discurso abierto, para resistir cualquier cosa que pueda convertirse en impedimentos o barreras sistémicas. Pero van a surgir casos en los que una violación a pequeña escala conduzca a avances en la conectividad y el discurso a gran escala.

Alguien puede filtrar los archivos de un político (violando su privacidad) con el fin de salvar la privacidad de todos. Un físico puede tratar de mejorar nuestra comprensión colectiva no tratando de corregir cada una de las cosas raras que llenan su bandeja de entrada, sino asistiendo a una conferencia de sus pares.

De manera similar, uno puede interferir con la organización pública de un grupo dedicado a suprimir la libertad de reunión de todos. Se puede presionar a los editores y a las instituciones para que no presten prestigio y posición social a los nazis al presentarlos. Y uno puede optar por priorizar la interacción con aquellos realmente interesados ​​en participar de manera productiva, en lugar de los obvios estafadores, charlatanes y trolls de la extrema derecha.

Se pueden boicotear las empresas segregacionistas, aunque tanto los activistas que boicotean como los propietarios racistas puedan ser simplificados a la categoría absurdamente reduccionista de “discriminación”. Sin embargo, tal agrupación es obviamente una tontería para cualquiera que tenga un poco de sentido común. Exactamente en la misma línea, aislar, quitar plataformas y expulsar físicamente a los nazis de las calles crea una violación local del ideal de compromiso y conectividad dentro de la humanidad, pero salva al conjunto. De la misma manera que Internet evita de forma orgánica los nodos defectuosos, eliminándolos de la red para salvar el conjunto. O se extirpa un tumor cerebral antes de que pueda cortar demasiadas sinapsis.

Seguro que hay peligros aquí. Siempre hay reducciones y pendientes resbaladizas. Debemos permanecer vigilantes y cautelosos ante los peligros. Son grandes y graves. Es importante contar con normas sociales ampliamente tolerantes y un compromiso amplio. Pero no debemos perder de vista el puto objetivo. No deberíamos renunciar a nuestra responsabilidad ética para tratar de mantener el panorama general en perspectiva. No deberíamos cambiar la vigilancia ética por reglas simplistas.

Quiero ser claro: la histeria conservadora crédula sobre “antifa que quiere atacar la libertad de expresión” está en gran medida llena de mierda, colaboración narrativa directa entre entristas neonazis y demagogos conservadores más interesados ​​en movilizar a la base que en resistir dicho entrismo. Que los neonazis puedan marchar y organizarse sin temor a recibir un puñetazo está bastante lejos de cualquier desliz en las normas culturales que podría conducir al fantasma de que los antifascistas golpeen a cualquiera con quien no estén de acuerdo. Antifa se ha mantenido cuidadosamente en el objetivo durante un siglo, para gran burla de la izquierda en general, que piensa que otras preocupaciones, problemas y enemigos son más apremiantes. Antifa golpeando a los nazis en las calles en los años 80 y 90 nunca condujo a un colapso en las normas del discurso de nuestra civilización, y a pesar de la interminable histeria de los conservadores, ningún grupo Antifa ha atacado a los conservadores comunes y corrientes. Las personas que impulsan con mayor eficacia la guerra civil y la fusión de conservadores y neonazis son los activistas conservadores que en realidad se acostan con los entristas nazis.

Pero lo que realmente plantea una amenaza a la libertad de expresión es la reacción izquierdista a esta narrativa conservadora. Durante décadas, los grupos antifa han adoptado una línea cuidadosamente a favor de la libertad de expresión cuando se trata de medios estatistas: oponiéndose a la legislación sobre crímenes de odio y otros medios de censura. Se dieron cuenta correctamente de que el daño de tales medios estatistas sería mucho mayor que el beneficio. Pero ahora, una generación nueva de izquierdistas que recién ahora se está interesando en “antifa” está comenzando a dejarse incitar por trolls en línea a adoptar posturas de oposición increíblemente poco estratégicas.

No es bueno que los gigantes tecnológicos monopolistas estén sentando precedentes al eliminar personas de Internet. La censura corporativa a gran escala puede no ser censura estatal, pero no es menos incontrolable. Y será mejor que creas que se volverá contra los anarquistas con la aprobación clamorosa de los mismos liberales y conservadores que ahora se quejan de los derechos de los nazis. No es bueno que las leyes o normas de derechos de autor se amplíen dramáticamente para simplemente molestar a unos pocos trolls de extrema derecha. Y cuando los izquierdistas aplauden “expulsar a los trolls rusos de Twitter”, lo que realmente aplauden es la puta nacionalización de Internet: un sueño húmedo de Richard Spencer. Semejante nacionalización sería un retroceso de la victoria más importante que jamás hayamos obtenido los internacionalistas. Las soluciones al dominio de los trolls nazis se parecen a Mastodon (una red social descentralizada de código abierto donde la libertad de asociación desde abajo margina a los nazis) y no a edictos universales de las autoridades superiores.

Obviamente, la mayoría de los anarquistas no fueron tan estúpidos como para aplaudir la censura estatal y corporativa, pero todos nos encontramos con algunos en la izquierda más amplia que estaban entusiasmados con eso. En realidad, se trata de un error peligroso con posibles consecuencias. Izquierdistas tontos movilizados por una comprensión superficial de “antifa” formada como reacción a las narrativas conservadoras. No si los vigilantes anarquistas continúan golpeando a los neonazis que ondean banderas con la esvástica y rompiéndoles sus gafas de fuerza.

Los antifascistas no pueden permitirse el lujo de ceder ante la narrativa de la “libertad de expresión”.

Por qué los fascistas constituyen una amenaza única y apremiante

Es francamente sorprendente y horroroso cómo los demagogos conservadores han logrado difundir la mentira de que los fascistas son irrelevantes y de poco peligro. Internet se ha llenado hasta los topes de comentarios ignorantes que afirman que los nazis son tan marginales que no constituyen una amenaza real. He visto variantes de esto repetidas sin cesar por parte de aburridos “centristas” o “libertarios” con inclinaciones reaccionarias que intentan aparentar estar por encima de la refriega de la política: “Todo el mundo entiende que los nazis son malos, el KKK sólo tiene unos pocos miles miembros, no corren peligro de tomar el poder, en todo caso, la verdadera amenaza es que los SJW sean groseros conmigo en el campus”.

Desde que descubrieron repentinamente la existencia de fascistas y activistas antifascistas, ha habido una amplia epidemia de liberales y conservadores que los utilizan para ganar puntos en sus propias batallas electorales y de guerra cultural, asumiendo todos ellos alegremente que los fascistas literales no representan ninguna amenaza excepto como herramienta retórica.

Permítanme aclarar varios puntos:

1) Hoy en día hay una gran variedad de fascistas y nacionalistas blancos activos. Las listas formales de miembros del “KKK” son casi irrelevantes. Las pandillas supremacistas blancas controlan las cárceles de Estados Unidos y gran parte de sus calles. A su vez, estos grupos suelen estar estrechamente aliados con grupos políticos más superficiales. Además, ha habido décadas de infiltración coordinada de supremacistas blancos en los departamentos de policía de Estados Unidos, lo que les proporciona una cobertura y una influencia institucional increíbles. Vemos esto desde policías que construyen santuarios para los nazis hasta jefes de policía que dirigen sellos discográficos neonazis. Este modelo se repite internacionalmente: la mitad de la policía en Grecia vota por el grupo neonazi Amanecer Dorado. En los últimos años, Internet ha permitido la difusión de análisis reaccionarios estúpidos, ya que el anonimato y la conexión han permitido a racistas secretos establecer contactos y construir comunidades. Dado que muchas personas recopilan “opiniones” sólo como armas en términos psicológicos o sociales, el posicionamiento nervioso de las perspectivas fascistas y nacionalistas blancas ha infestado la cultura chan y gamer en particular. Pero sería un error descartar a estos perdedores como simples poses, ya que exactamente la misma trayectoria de reclutamiento de perdedores/trolls estuvo involucrada en el ascenso del clásico KKK y el Partido Nazi, y la gente de /pol/ ha convertido repetidamente su política en disparos. Los pocos cientos de personas con finanzas personales y sin obligaciones para viajar a un mitin de Richard Spencer no reflejan un pequeño grupo de supremacistas blancos. Más de unas pocas docenas o cientos de anarquistas en un bloque negro determinado son representativos de las decenas de miles de anarquistas activos en Estados Unidos.

2) Un número muy pequeño de personas puede causar un daño inmenso. Dos mil insurgentes activos de Al-Qaeda en Irak pusieron de rodillas al país y al imperio estadounidense. Un número muy pequeño de personas puede mantener a una población mayor viviendo en el terror. Los linchamientos, los incendios de iglesias, los atentados con bombas en mezquitas y las palizas callejeras pueden intimidar a toda una población. Puede que no recuerdes los malos tiempos de los años 80 y 90, como sucedieron en muchas ciudades (el terror infligido por los neonazis puede que no te haya afectado), pero para muchos fue una pesadilla. No es necesario matar a mucha gente para mantener al resto a raya, y aquellos que, aun así, se ponen de pie o actúan impávidos son los primeros en ser atacados. Si bien el terrorismo puede tener un componente afectivo, algunas de las respuestas que genera pueden ser bastante racionales. Si, como persona de color, corres un riesgo no despreciable de ser golpeado hasta sangrar por caminar por tu ciudad con una novia blanca vas a modificar tus acciones. Los matones callejeros fascistas activos tienen un efecto paralizador. Y esto es parte del punto: por qué se presentarán en cada evento de izquierda o desfile del orgullo gay o cualquier cosa que puedan si saben que no tendrán oposición. No tienen que golpear consistentemente a aquellos a quienes se oponen para acobardarlos e intimidarlos de manera efectiva. Durante décadas, los nazis han sido los que temen ondear la esvástica en público. Hoy están tratando de revertir eso: hacer que los neonazis sean intrépidos y los anarquistas/izquierdistas/libertarios/queers/poc/etc tengan miedo de caminar en público. Los gastos generales de los activistas que tienen que tomar precauciones constantemente impedirían y desmovilizarían a la pequeña pero comprometida porción de activistas que actualmente frenan los impulsos reaccionarios/autoritarios de nuestras instituciones. Cuando los neonazis y policías húngaros ganaron las calles a los anarquistas, muchos frentes activistas se vieron profundamente obstaculizados y el gobierno aceleró hacia el autoritarismo.

3) El peligro no es que el 51% de la población estadounidense vote por un LARPer con la esvástica sobre una plataforma explícita de genocidio.  Seguro que casi nadie en Estados Unidos va a votar por un político embadurnado de imágenes del Tercer Reich, pero la gente varía dramáticamente en su análisis de POR QUÉ el racismo y el fascismo son malos. Así como casi nadie apoya explícitamente la “violación”, pero un gran número de hombres afirman felizmente haber tenido relaciones sexuales forzadas con otras personas en contra de su consentimiento sin utilizar ese término, una gran fracción de la población piensa que los blancos están oprimidos y que Estados Unidos debería centrarse en ellos. sobre la blancura. Aproximadamente un tercio de la población encuestada es consistentemente autoritaria, tribalista y conservadora. En muchos aspectos son casi fascistas y están unos pasos por detrás en el reconocimiento de sí mismos. Aunque esas medidas son importantes y deberíamos hacer todo lo posible para evitar que despierten, debemos reconocer que esos reaccionarios constituyen una base poderosa. Por ejemplo, las hordas de personas que gritaban “atómicamente hasta que brillen” después del 11 de septiembre se revelaron como entusiastas del genocidio. Estos matones casi sociópatas son un grupo ecléctico, egocéntrico, estúpido, oportunista y difícil de unificar y movilizar en todo su potencial, pero proporcionan una amplia base de reclutamiento para los fascistas y han demostrado que votarán felizmente a favor y defender violentamente políticas fascistas. Dado un lento avance del fascismo, no hay un momento decisivo en el que podamos esperar que la ética básica prevalezca sobre sus instintos autoritarios y lealtades tribales. El peligro no es que el KKK convenza a cien millones de personas para que se unan a él y luego gane elecciones e instituya un gobierno fascista. Se trata de un hombre de paja construido sobre nociones políticas increíblemente ingenuas. El peligro es que la franja fascista siembra el terror, empuja la ventana overton para hacer aceptables en público el hipernacionalismo y el racismo, y separa gradualmente el poder real del Estado (la policía y sus armas) del aparato legal liberal más reservado que supuestamente limita a ellos. Las pandillas callejeras fascistas explícitas no van a obtener millones de votos en el corto plazo, pero el peligro es que atraerán a miles de reclutas si se les permite parecer poderosas y legítimas y el impacto en el clima de nuestro país sería dramático, severamente impedir el activismo anarquista, izquierdista y libertario, y desatar las inclinaciones autoritarias del Estado. Decenas de millones de personas podrían ser deportadas, arrestadas, acosadas, asaltadas, saltadas a las calles, etc, sin que ningún político enarbolara explícitamente una esvástica o llevara una capucha blanca. Por muy malo que fuera la mierda bajo presidentes liberales imperialistas como Obama, podría volverse muchísimo peor con una vanguardia fascista no reprimida.

Es importante desacreditar una ilusión común: los fascistas nunca desaparecieron mágicamente. Permanecieron en gran número después de la Segunda Guerra Mundial. El fascismo nunca fue derrotado por la persuasión, sino por la fuerza. La mayoría de los millones de personas que llenaron las filas de los movimientos fascistas en la primera mitad del siglo XX se fueron a la tumba todavía creyendo en aspectos del fascismo. Ni siquiera en Estados Unidos hubo una desconversión per se del gran número de nazis americanos. Mire este vídeo de 20.000 estadounidenses asediados en Madison Square y recuerde que muchos de los que se alinearon contra los nazis en la Segunda Guerra Mundial no estaban alineados contra la ideología del nazismo sino contra los extranjeros alemanes. Además, la Guerra Fría mantuvo bastante vivo al fascismo en muchos lugares. Todos sabemos que los gobiernos aliados secuestraron a científicos y burócratas nazis después de la guerra, pero rara vez hubo ningún intento de abordar su ideología. Gran parte del gobierno estadounidense se mostró comprensivo y veía a los nazis simplemente como anticomunistas excesivamente entusiastas. Kissinger incluso tomó medidas para devolver a los nazis al poder en Alemania Occidental con la esperanza de que sirvieran como baluarte contra el comunismo. Y los soviéticos, a su vez, ayudaron a mantener una cultura reaccionaria y autoritaria: el éxito de la actividad fascista moderna en Europa se corresponde casi perfectamente con el viejo telón de acero, siendo mucho más probable que quienes estuvieron bajo el dominio soviético anhelen un retorno a la simplicidad del autoritarismo.

Fue la fuerza la que puso al fascismo en remisión, y ha sido la cultura pop cosmopolita antiautoritaria la que fue capaz de matarlo lentamente a lo largo de generaciones mientras permanecía en remisión. Pero la palabra clave es lentamente. Los valores de la libertad triunfan a largo plazo, pero el fascismo puede hacer metástasis muy rápidamente en el corto plazo si no se lo reprime constante y diligentemente.

Hoy está nuevamente estallando y gran parte de la infraestructura activista antifascista mantenida durante décadas anteriores ha decaído o ha tardado en responder. Mientras los grupos antifa debatían académicamente a finales de 2015 si Donald Trump podía o no ser llamado “fascista”, fascistas reales e innegables han inundado las filas de las protestas contra Trump y las comunidades en línea. Y las subculturas en línea que ya se volvían cada vez más reaccionarias comenzaron a engullir la basura de verdaderos nazis.

Todos los observadores están de acuerdo en que hemos visto un aumento en la organización nacionalista y fascista blanca. Pero quiero expresar esto en términos de algunas de las muertes que esta organización ya ha causado:

• En junio de 2015, Dylann Roof se inspiró en los “hechos de odio” publicados en el Daily Stormer y el Consejo de Ciudadanos Conservadores para asesinar a nueve personas en una iglesia negra en Charleston, Carolina del Sur.

• En julio de 2015, John Russell Houser, un ex propietario de un bar de extrema derecha, mató a tiros a dos personas e hirió a otras nueve antes de suicidarse en un cine de Lafayette, Los Ángeles, donde se proyectaba una película feminista. Houser elogió las acciones de Adolf Hitler en los foros de mensajes en línea.

• En noviembre de 2015, un grupo de clientes habituales de 4chan bien armados asistieron a un campamento de Black Lives Matter en Minneapolis y los acosaron con insultos raciales. Abrieron fuego contra los activistas que intentaban expulsarlos cuando regresaron una segunda noche, hiriendo a cinco.

• En agosto de 2016, un adolescente negro llamado Larnell Bruce fue atropellado por deporte en las afueras de Portland por un miembro supremacista blanco de la Vástago Europeo llamado Russell Courtier.

• El día de la toma de posesión, un manifestante antifascista de Milo Yiannopolous recibió un disparo en el estómago de Elizabeth Hakoana, que acudió a la protesta con su marido, que planeaba “romper cráneos” de los “copos de nieve” en el evento y provocar una reacción para justificar el disparo a alguien (En particular, ese manifestante antifa se negó a ayudar a enviarlos a prisión e insistió en la justicia restaurativa en lugar de la venganza).

• Más tarde, en enero, Alexandre Bisonette, un ferviente partidario de Donald Trump y Marine Le Pen, abrió fuego contra un Centro Cultural Islámico de la ciudad de Quebec, matando a seis personas.

• En febrero, un veterano blanco de la Marina estadounidense, Adam Purinton, de 51 años, mató a un ingeniero indio, hirió a su compañero de trabajo indio y disparó a un hombre que intentaba detener el asesinato en un bar en Olathe, Kansas, mientras gritaba “salgan de mi país.”

• En marzo, James Jackson, suscriptor de los canales de Youtube Alt Right, viajó desde Baltimore a Nueva York con el único propósito de asesinar al azar a una persona negra. Apuñaló a Timothy Caughman y lo mató.

• En mayo, una pelea entre un ex neonazi y sus dos compañeros de habitación neonazis que estaban construyendo bombas para destruir infraestructura civil provocó la muerte de dos de ellos.

• En mayo, Sean Christopher Urbanski, estudiante de la Universidad de Maryland y miembro de grupos de extrema derecha en Facebook, mató a puñaladas al azar al oficial del ejército negro Richard Collins III en Baltimore.

• El autoproclamado nihilista y neonazi Jeremy Christian (antiguo partidario de Sanders, pero racista constante), que había participado en protestas de extrema derecha, apuñaló a tres personas en Portland que intervinieron para decirle que dejara de gritar comentarios racistas a dos jóvenes en un tren ligero, matando instantáneamente a dos.

• En mayo, el supremacista blanco Anthony Robert Hammond atacó a un hombre negro al azar con un machete después de gritar insultos raciales a numerosas personas en Clearlake, California.

• Y, por supuesto, en agosto, James Alex Fields Jr, un admirador de Hitler que trabajó con el grupo fascista y supremacista blanco Vanguard America, aplastó a manifestantes pacíficos, hiriendo a 19 personas y matando a Heather Heyer.

Estos son sólo algunos de los casos más destacados de esa época. No incluye muchos asesinatos brutales entre neonazis o descartados por la policía simplemente como parte de su crimen. Por ejemplo , en mi ciudad natal, los neonazis desollaron a un rival con una lijadora de banda y arrojaron su cuerpo en público en una calle importante de la ciudad. Para obtener una lista mucho más larga y detallada de incidentes ocurridos en 2017, consulte esta publicación llena de ejemplos y citas.

Y vea también estos resúmenes de Snopes e incluso de una organización liberal que desprecia a Antifa. Y, por supuesto, esto no toca la superficie de la interminable historia de fascistas disparando a anarquistas y antifascistas, desde Lin Newborn y Daniel Shersty hasta Luke Querner.

Mientras tanto, ningún antifascista ha matado a nadie ni se ha acercado a ello. La increíble moderación que los antifascistas han mostrado en esta guerra es notable en su contexto.

La “izquierda” –en su mayor parte interpretada en sentido amplio– tal vez pueda atribuirse algunos asesinatos en este tiempo. Si asumimos que la policía y los políticos no son objetivos válidos, entonces en julio de 2016 Micah Xavier Johnson mató a cinco agentes de policía en Dallas y Gavin Eugene Long mató a tres en Baton Rogue, y en junio de este año James T. Hodgkinson disparó a un congresista y otros cuatro. Cada uno de estos fue enormemente publicitado por los principales medios de comunicación (los eternos perros de caza tanto de policías como de políticos), pero las estadísticas dejan el panorama claro:

En los últimos 10 años (2007-2016), extremistas nacionales de todo tipo han matado al menos a 372 personas en Estados Unidos. De esas muertes, aproximadamente el 74% fueron a manos de extremistas de derecha, alrededor del 24% de las víctimas fueron asesinadas por extremistas islámicos nacionales y el [2%] fueron asesinadas por extremistas de izquierda”. fuente ]

No estoy particularmente interesado en defender a la izquierda en general, no soy un fanático de ella y hay comunistas estatistas que adoran regímenes tan horribles y asesinos como los fascistas, pero la disparidad aquí es profunda. Y esa disparidad, por supuesto, persistiría si contabilizáramos los asesinatos a manos de la policía, el ejército o la política estatal. También debemos señalar que los nacionalistas negros responsables de los asesinatos policiales están bastante lejos de Antifa y el anarquismo: son incondicionalmente antinacionalistas. En varios momentos de la historia, los nacionalistas negros y los comunistas estatistas han hecho alianzas con nacionalistas y fascistas blancos, mientras que los anarquistas y antifascistas obviamente preferirían morir primero.

Si hablamos específicamente de antifascistas, entonces, en el mejor de los casos, han dado algunos golpes en manifestaciones repletas de nacionalistas blancos y entristas neonazis. Entre los miles de miembros de la comunidad que se presentaron en Berkeley para una manifestación antifascista organizada, algunos rompieron algunas ventanas y prendieron fuego a una lámpara. Y en una manifestación masiva, un partidario de Trump en silla de ruedas fue empujado por algún rando y se atribuyó la culpa a “antifa”. Mientras tanto, la mayoría de las historias virales de “antifa golpeó a este tipo solo por ser partidario de Trump” quedan inevitablemente desacreditadas cuando se revela que el tipo de la gorra roja es un conocido entrista supremacista blanco que estaba lanzando golpes antes del pequeño fragmento de video publicado en Twitter. Y, sin embargo, las redes sociales están cubiertas de mentiras aún más escandalosas:

1) Que Antifa luchó junto a ISIS en Siria (usando una imagen de voluntarios de Antifa que lucharon contra ISIS y mostraban su liberación del territorio de ISIS y rompieron su cartelera). 2) Que Antifa amenazó con atacar un desfile anual en Portland porque los republicanos marcharían (la única prueba es un correo electrónico anónimo escrito de manera absurda que la antigua organización antifa local Rose City Antifa desestimó). 3) Que Antifa pidió golpear a las mujeres que votaron por Trump (en realidad, una campaña de desinformación /pol/ bastante abierta). 4) Que Antifa pidió el asesinato de mascotas pertenecientes a nacionalistas blancos (expuesto como una campaña de desinformación por parte de grupos antifa, cuando en realidad los neonazis HAN matado en el pasado a las mascotas de activistas antifascistas). Y así sigue y sigue. No se puede seguir el ritmo de las mentiras. Mi joya favorita fue cuando los antifascistas hicieron una pancarta sarcástica y sarcástica exigiendo el dinero que supuestamente les estaba pagando Soros y los blogs conservadores informaron diligentemente sobre la pancarta como si fuera real.

La demonización de Antifa a través de proyecciones febriles se ha convertido en una avalancha que se perpetúa a sí misma. Los reaccionarios inventan todo lo que pueden porque debe estar lo suficientemente cerca del hombre del saco que suponen que es “antifa” y, a su vez, asumen que cualquier tontería que escuchen es cierta.

Estamos en una situación de extrema asimetría. Hay una intensa amenaza por parte de la franja fascista y una intensa demonización de la franja antifascista que solía mantenerlos bajo control.

“Está bien, pero ¿¡qué pasa con los izquierdistas!?? Ves la maldita amenaza de los SJW por todas partes y son mucho más populares y ahora están golpeando a la gente y consiguiendo armas. Puede que no estén matando gente ahora, ¡pero sí eventualmente!”.

Este es un sesgo cognitivo clásico en el que el enemigo cercano te ciega ante el enemigo distante. Seguro que hay muchos más izquierdistas y SJW que neonazis. Pero hay absolutamente cero posibilidades de que los izquierdistas radicales implementen sus objetivos a través de la colaboración con el estado policial. La policía nunca, ni en un millón de años, te arrestará por no ser vegano, pero rutinariamente asesinan a personas por ser negras. El estado policial es de extrema derecha. En general podemos sobrevivir a impuestos más altos y a un estúpido sistema centralizado de atención médica; decenas de millones de personas no sobrevivirán a una política etnonacionalista. Decenas de millones vivirán con miedo bajo las botas de matones fascistas en colaboración con la policía.

La gran mayoría de la izquierda radical en Estados Unidos son compañeros de viaje antiautoritarios de anarquistas que generalmente renuncian al uso de medios estatistas. Son incapaces de organizar medios sistemáticos o institucionales de opresión. No se puede construir una Stasi o una KGB si uno se opone fundamentalmente a cualquier cosa que parezca policía. Hay comunistas estatistas en Estados Unidos, pero su número es mucho menor y están aún más profundamente desconectados de la población.

El peor de los casos es que los comunistas estatales inicien una insurgencia terrorista menor al estilo de Sendero Luminoso y los universitarios de los SJW creen entornos donde la disidencia de líneas ideológicas o normas culturales arbitrarias sea castigada con una condena u ostracismo social despiadado. Eso sería malo, pero ciertamente se podría sobrevivir. No habría decenas de millones de deportaciones forzosas y un régimen de asesinatos callejeros al azar. En su mayoría, algunas personas sentirían que no podrían decir algunas cosas sin arriesgar sus trabajos. Simplemente no hay comparación en términos de sufrimiento humano.

Y, además, seamos claros, si bien hay elementos tóxicos en rincones de la cultura SJW, sin el subsidio de la violencia institucional las normas que son capaces de difundir son en gran medida racionales basadas en argumentos reales sobre el daño a las minorías que realmente resuenan en la gente. Si bien a veces las comunidades pequeñas son capaces de formar cámaras de eco para reforzar alguna línea partidista arbitraria, esas normas tienen poca potencia memética. Pero en las últimas dos décadas, con la explosión de voces de personas anteriormente oprimidas, muchas personas se han convencido de lo que tienen que decir. Cosas como “microagresiones” y “espacios seguros” tienen fundamentos racionales y persuasivos, incluso si también tienen usos indebidos obvios. No debería ser radical señalar que pequeños actos de prejuicio racial menor o falta de comprensión suman efecto. A veces las personas necesitan un respiro donde puedan reunirse con personas con las mismas experiencias, para tener nuevas conversaciones basadas en conocimientos compartidos en lugar de disputar los mismos debates 101 con aquellos que ignoran sus experiencias. La toxicidad ocasional del discurso SJW no es lo que ha impulsado su explosión; dicha toxicidad ocasional es más bien un parásito de su potencia racional subyacente.

Las críticas de los SJW a nuestras normas sociales están ganando en gran parte porque a menudo son críticas anarquistas bastante bien razonadas, aunque más bien desfavorecidas para el consumo liberal. Por supuesto, existen peligros de tribalismo y cámaras de eco, pero en ausencia de un hambre de poder institucional violento, el único daño que esto causa en última instancia es a la propia causa.

Ciertamente, las fallas tóxicas o torpes de la tierra SJW han jugado un papel en la inspiración de amplios movimientos reaccionarios. Pero los fascistas no son simplemente reaccionarios. Mucha gente escucha la palabra “privilegio” y se pone furiosa (“cómo te atreves a decirme que soy un privilegiado, no me conoces, he sufrido mucho, me he ganado lo que tengo” o “privilegio implica que las libertades que tengo no son derechos sino algo que me puedes quitar”). La amplia subcultura reaccionaria engendrada por el gamergate, los MRA, etc., que se presenta como “anti-sjw” es claramente una base de reclutamiento para los fascistas, pero con bastante frecuencia tampoco son fascistas en toda regla. Siempre ha habido reaccionarios furiosos por los avances sociales; eso siempre es peligroso, pero el reclutamiento fascista va más allá.

He escrito extensamente antes sobre la organización fascista, pero, en resumen, el fascismo recluta apelando a las necesidades más baratas de nuestro cerebro de mono. Como una versión más pura y singularmente consciente de autoritarismo/tribalismo, el fascismo prospera prometiendo directamente poder bruto y pertenencia social. El fascismo elimina las complejidades de la agencia, la libertad, el individualismo y la vigilancia intelectual y, en cambio, ofrece simplicidades reconfortantes. En palabras sorprendentemente conscientes de sí mismo de Andrew Anglin del Daily Stormer :

“Nos sentimos castrados. Muchos de nosotros sentimos que nunca hemos tenido poder. Anhelamos poder. Anhelamos el poder. Queremos ser parte de un grupo que nos dé poder. Un grupo que confirmará nuestro valor como hombres. No tenemos identidades. Queremos identidades”.

Para saciar esas necesidades viscerales, los fascistas hacen llamamientos viscerales. Un autoritario puede hablar eternamente sobre cómo va a darte poder, pero un autoritario que visible y visceralmente demuestra poder, ese es el autoritario que reclutará exitosamente.

Los fascistas se burlan intencionadamente del debate; en la mente autoritaria es inherentemente sólo posicionamiento y sólo los tontos toman las ideas en serio. Desde esa perspectiva, el fascista que descarta las normas existentes, que baila de manera flagrante de mala fe, demuestra una especie de fuerza en la honestidad. La única honestidad, en su opinión, es que la verdad y las ideas no importan. El poder importa, el poder a través del engaño y la manipulación (la capacidad de conseguir que alguien te ponga en un escenario, en una posición de respeto, a pesar de tu flagrante deshonestidad) y el poder a través de la fuerza física (la capacidad de marchar abiertamente, en gran número) con armas, con músculos, símbolos de masculinidad, exhibiciones de riqueza, etc. La burla generalizada puede herir a los fascistas al demostrar su impopularidad, pero mientras tengan otros tipos de poder al que recurrir, el fascista puede simplemente decirse a sí mismo: “este es el poder real, esto es lo único que realmente importa, lo que esa gente tiene es falso y vacío, que serán derrocados”. [ fuente ]

Por lo tanto, los fascistas no tienen ninguna lealtad a la verdad; más bien, como sabe muy bien cualquier ciudadano de Internet, están estrechamente alineados con los trolls, no con polemistas de buena fe. De ahí la situación en la que nos encontramos, en la que la extrema derecha es más conocida por crear mentiras y desinformación más rápido de lo que puede ser desacreditado. El fascismo tiene sus raíces fundamentalmente en un antiintelectualismo nihilista donde la verdad se convierte en nada más que un juego de construcción narrativa .

El problema es que, mientras que el terraplanista podría estar feliz de escupir 100 argumentos de que la Tierra no es un globo terráqueo y chupar a unos cuantos miles de paletos que quieren sentirse especiales, como si tuvieran conocimientos secretos reprimidos que los convierten en élite, el fascista también apela a una fantasía de poder. “Todas esas élites con el capital cultural o social que no tienes, te hacen sentir excluido. No tienes que subir la escalera para descubrir terminología y convenciones antirracistas sólo para no ser objeto de burla, y de todos modos probablemente nunca te aceptarán como una mierda genial porque eres un tipo cis blanco, y de todos modos podrías “Tengo que dejar algo de mierda, a la mierda, matémoslos a todos y aplastemos sus caras altivas contra la tierra, enseñémosles que el poder VERDADERO y puro fue lo que importó todo el tiempo”. Hay una gran base reaccionaria en nuestra sociedad, para quienes tales fantasías son absolutamente seductoras. Lo único que impide que una fracción grande y peligrosa de ellos salte a las calles en forma de asedio es la autoconservación. Miedo a las ramificaciones.

Por supuesto, es importante que abordemos la base reaccionaria subyacente, pero el progreso llevará años; mientras tanto, es absolutamente necesario que mantengamos las ramificaciones tan terribles que pocos sociópatas reaccionarios egoístas vean un beneficio neto en unirse a ellos. Esto significa negarles toda pretensión de legitimidad y aceptabilidad en la sociedad civil. Y significa impedirles organizar con éxito espectáculos de fuerza con botas militares, como sus mítines de intimidación.

En defensa del activismo antifascista

Durante décadas, Antifa ha desempeñado un papel específico como vigilantes, como cazadores e investigadores de nazis relativamente solitarios. Sus filas ocasionalmente se engrosaban cuando surgía una infección particularmente notable de fascistas, a medida que los miembros de la comunidad local se unían para resistirlos. Pero lo que ha sucedido en los últimos dos años está completamente fuera de escala.

Es un poco sorprendente ser anarquista en este contexto. Es como presenciar una apasionada conversación nacional sobre alimentos, no bombas o la Cruz Negra Anarquista. Un elemento básico del movimiento anarquista desde hace mucho tiempo, un proyecto de vecindario amigable con franquicia en el que el resto de nosotros no pensamos mucho, ha sido extrañamente puesto en el centro de atención. Literalmente, todo el mundo está luchando por identificarse con él o en contra de él y por redefinirlo en sus narrativas políticas personales.

Trump es central en esta historia reciente y al mismo tiempo casi enteramente vestigial. Es una figura política reflexivamente autoritaria que ha jugado acertadamente con las tendencias nativistas y racistas en su base reaccionaria de manera mucho más explícita que incluso Nixon, pero también es una figura decorativa idiota oportunista que es utilizada y rebotada entre diferentes fuerzas. Si bien el propio Trump causará una cantidad inmensa de daño (como todos los presidentes), los peligros únicos de su presidencia son que servirá como catalizador para las fuerzas fascistas y reaccionarias. ¿Desatará efectivamente a la policía y desencadenará las redadas Palmer de disidentes de este siglo? ¿Instituirá deportaciones masivas y limpieza étnica? Joder, ¿comenzará una guerra que matará a decenas de millones? Estas preguntas flotan en el aire todos los días. Son importantes y apremiantes y debemos estar preparados para resistirlos, pero la política no es una preocupación tradicional de los antifascistas. Ya existe una serie de instituciones activistas, en cierto sentido preparadas para hacer frente a estas posibles atrocidades. Por el contrario, los antifascistas se han centrado en la organización fascista. Para mantener las nueces aparentemente marginales, marginales.

Ahora el muro que mantenía a los fascistas explícitos fuera de la sociedad prácticamente se ha derrumbado y nadie sabe qué vendrá después.

Si bien los antifascistas se están adaptando e innovando, hasta ahora han respondido principalmente intensificando sus medios tradicionales de informar, engañar y perturbar físicamente la organización fascista. Este enfoque láser tiene sus ventajas, pero también claramente tiene sus desventajas. Los grupos antifascistas se formaron para organizar la autodefensa comunitaria contra los nazis, no para ganar una batalla mediática en la corriente principal. Su conjunto de habilidades es el periodismo de investigación, la organización y la resistencia física, no la elaboración de narrativas mediáticas. Como resultado, obviamente no estaban preparados para contrarrestar la abrupta incorporación del fascismo al discurso público, manejar el rápido aumento de personas que se identifican como “antifa”, o contranarrativas que pintan a Antifa como algo malo.

En la raíz de la mala prensa que ha estado recibiendo Antifa y del éxito de los reaccionarios a la hora de difundir mentiras sobre ellos, hay una tensión sobre las “relaciones con los medios” y la divulgación pública que los anarquistas han sentido durante años.

“Preocuparse por si les estamos dando material para sus mentiras es un neuroticismo de tontos. De todos modos, van a inventar noticias falsas: convertir a un fascista que perdió una pelea en un espectador inocente o darle crédito al tipo que se apuñaló y culpó a Antifa. La verdad es que la mayoría de los expertos (de derecha y supuesta izquierda) están felices de caer en estas historias de “viciosos antifa” porque a estos expertos les preocupa más el orden que la justicia. Para ellos, la gente que se pelea en la calle por cuestiones políticas siempre evocará imágenes de otros países en los que no quieren vivir. Les molesta”. [ fuente ]

Su reacción ante esto dependerá en gran medida de si cree que la guerra por la opinión pública es crítica o de importancia central para la lucha contra el fascismo. Creo que el verdadero desafío de la era Trump es que la opinión pública y el juego narrativo de los medios han comenzado a importar de una manera que antes no era cierta cuando se trataba del activismo antifascista. Pero no estoy convencido de que la opinión pública o las narrativas de los medios sean tan importantes como para eclipsar todos los demás temas. Creo que vale la pena evaluar críticamente esa suposición. La mayoría de los estadounidenses crecen adoctrinados en los supuestos de la democracia liberal, moldeando todos nuestros instintos para pensar que ganarse la opinión pública o “una mayoría” es la definición del éxito. A menudo hay mucho bagaje que impide que las personas evalúen o piensen realmente en términos de acción directa: de simplemente lograr que se haga una cosa, independientemente de si eres ampliamente odiado por hacerlo. Gestionar el ferrocarril subterráneo en el sur anterior a la guerra no se trataba ni remotamente de ganarse los corazones y las mentes de la población blanca: se trataba de liberar inmediatamente a los esclavos. Ir en contra de los deseos de la mayoría, no para finalmente persuadirlos, sino para impedir directamente su capacidad de oprimir, es a menudo un medio bastante válido. Hoy nos burlaríamos con razón de quienes condenan el ferrocarril subterráneo por “socavar la lucha por la opinión pública” al violar la ley y contribuir así a los temores de los blancos. Y aquí podríamos hacer una analogía similar cuando se trata de la violencia de los vigilantes contra los dueños de esclavos.

Es importante recordar que los grupos antifascistas existen en gran parte porque los anarquistas no confían en que el Estado responda a los supremacistas blancos (y a los islamistas como ISIS), y quieren perturbar la organización de esos aspirantes a tiranos sin apelar a la cancerosa influencia del Estado como monopolio de la violencia. Gran parte de las disputas históricas entre antifascistas y grupos liberales como el Southern Poverty Law Center se han centrado precisamente en si se puede confiar al Estado leyes sobre “crímenes de odio” o esfuerzos “antiextremismo”.

Sigo diciendo “anarquista” porque, seamos honestos: a pesar de que hay miembros liberales, socialistas y libertarios en los grupos antifa, el antifascismo ha sido predominantemente un proyecto anarquista desde el final de la Segunda Guerra Mundial, defendido y dirigido por anarquistas. Especialmente en Estados Unidos, donde el antifascismo es abrumadoramente un proyecto anarquista. El trabajo antifascista se realiza necesariamente en secreto, sin recompensa de capital social ni maquinaria jerárquica que aprovechar, y por lo tanto ha sido de poco interés para los comunistas estatistas que prefieren infiltrarse y tomar el control de las organizaciones liberales.

Por supuesto, Antifa es variado y está activo durante décadas en numerosos países y en una variedad de contextos. El modelo europeo es más amplio, subcultural y de influencia marxista; el modelo americano, más estrechamente organizado y anarquista. Pero abundan las diferencias entre regiones y países. Y los grupos o campañas antifa a menudo surgen de formas específicas de subculturas y escenas. Los fascistas han tratado constantemente de construir bases subculturales infiltrándose y corrompiendo las existentes, por lo que hay gente de skinheads, punk, góticos, metal, paganismo, libertarismo, etc., exponiéndolos y rechazándolos. Naturalmente, todos estos antifa tienen un aspecto diferente y adoptan enfoques diferentes. Pero si hay conclusiones universales que se pueden extraer es que vale la pena ser odiado si también eres capaz de movilizar a la gente para expulsar a una banda o figura popular, y que en muchas circunstancias sólo la voluntad de usar la fuerza física logrará hacer el trabajo.

El patrón que he presenciado a lo largo de dos décadas es que los grupos antifa comprometidos ganarán consistentemente la guerra estructural contra el entrismo fascista, pero también sufrirán las heridas que los fascistas puedan infligir en retirada: hostilidades generalmente persistentes que hierven a fuego lento entre una minoría de la escena que se aferra a la Las líneas divisorias de los fascistas fueron expresadas sobre cómo Antifa está censurando tiránicamente a inocentes señores marginales. Este tipo de resentimiento latente es perpetuado por miembros de la escena con poca información que repiten cualquier mentira que les digan. Pasarán años denunciando a Antifa por protestar contra una banda y nunca se molestarán en leer el informe de Antifa que demuestra las afinidades fascistas de la banda. Es casi hilarante la regularidad con la que descarrilo a un enemigo de Antifa que he conocido desde hace mucho tiempo simplemente buscando el artículo relevante en Google y leyéndolo en voz alta. “Oh”, dicen cabizbajos, “creo que no había escuchado esa evidencia”, al no haber leído nunca los putos puntos del bando que demonizan.

Este es un punto que de alguna manera me sorprendió descubrir hace años. Lejos de ser histéricos y espumosos para cazar brujas a cualquiera y a todos bajo una noción descuidada de “fascismo”, Antifa –en el sentido de grupos de larga data como los de la Red TORCH– son dolorosamente reservados y precisos en sus denuncias. Casi hasta el punto de resultar aburrido.

De hecho, es bastante discutible que una buena fracción de la culpa por la situación en la que todos nos encontramos reside en el hecho de que muchos Antifa se demoraron en respuesta a Trump. Los activistas y académicos de Antifa debatieron internamente si Trump era técnicamente “fascista” y en muchos casos parecían paralizados sobre cómo responder a los fascistas y nacionalistas blancos que usaban la organización electoral como fachada. La mayoría de los anarquistas eran absolutamente reacios a que se los considerara tomando partido en la política electoral estadounidense, incluso cuando la situación se hacía cada vez más desesperada.

En todo caso, me he sentido cada vez más frustrado al leer sitios antifa, ya que adoptan minuciosamente términos como “nacionalista blanco” o “derecha alternativa” en lugar de simplemente llamar nazi al cabrón en cuestión. Si bien admiro la diligencia intelectual y me esfuerzo por al menos cierta aproximación a ella, esto parece ser un juego de relaciones públicas o de “respetabilidad” diferente: con la esperanza de ser admirado por su precisión por los pocos académicos que todavía leen blogs de Antifa mientras dejar que Fox News difunda tonterías absolutas sin oposición entre la población en general. Obviamente, no hay soluciones fáciles para el conflicto entre un lenguaje hiperpreciso para servir mejor a unos pocos lectores de élite y una amplitud más cargada de retórica para transmitir una verdad a una audiencia más amplia en términos generales.

Sin embargo, me gusta cómo este pasaje de Atlanta Antifa navega por el confuso lío en torno a Milo “técnicamente no es un nazi” Yiannopoulos con precisión, pero también con cierta claridad sucinta:

“[Milo] se basa en tropos racistas, ha difundido propaganda nazi, difunde odio antimusulmán, ataca a personas transgénero y las señala en sus discursos, ha hecho declaraciones de disculpa sobre la pedofilia, dice mierda misógina, escribe para Brietbart un conocido sitio web de extrema derecha que apoya y promueve ideas nacionalistas y racistas blancas ha empleado a conocidos neonazis y nacionalistas blancos… Así que no es un conservador común y corriente. Y si afirmas que lo es, entonces estás admitiendo que los conservadores son cómplices de todos los aspectos mencionados anteriormente”.

Por supuesto, ahora todos sabemos que Milo literalmente tenía minucias nazis como contraseñas y cantaba felizmente ante una multitud que gritaba sieg.

Vale la pena repetirlo mil veces: a pesar de la histeria conservadora que compara los patrones de Antifa reales con zurdos malvados al azar comparándolos con nazis en Twitter y, por lo tanto, se asusta al pensar que “¡¡¡el siguiente que golpeará a cualquier miembro del Partido Republicano!!!” Los antifascistas se han mantenido firmes y precisos en su objetivo a lo largo de décadas. Hay muchas áreas grises deliberadamente construidas en torno a los neonazis literales: cosas como los ProudBoys que afirman no ser racistas y solo abrazan los componentes patriarcales hipernacionalistas del fascismo, pero aun así reclutan y colaboran con nacionalistas blancos y pandillas neonazis, además de adoptar mucha iconografía y significados culturales de matones nazis estúpidos. Obviamente, sería incorrecto que los activistas antifascistas ignoraran tales auxiliares e intentos de ofuscación, pero aun así luchan por evitar una combinación intelectualmente deshonesta. Y cuando la actividad fascista se agota en una región, también lo hace el activismo antifascista. Esos activistas felizmente regresan a una vida normal o calman el activismo de izquierda, como la construcción de centros comunitarios. No buscan nuevos objetivos a los que llamar “nazis”.

Más moscas con miel y la cuestión de los plazos

Comencemos con algo que veo surgir en casi todas las críticas a una línea específica a la que a alguien no le gusta el cruce de Antifa. El argumento tiende a ser más o menos así: “Una de las razones (condenar, protestar, doxear, golpear, etc.) a los nazis es mala es que los hace sentir mal, lo que los endurece en su posición”.

Lo interesante de estos argumentos de “atrapar más moscas con miel que con vinagre” es que rara vez se aplican de manera consistente. Literalmente, cualquier nivel de oposición significativa hará que los nazis “se sientan mal” y endurecerán la resistencia de muchos. ¿Deberíamos saludarlos con un abrazo y una mamada con la esperanza de que, entre bocado y bocado, podamos lograr algunos puntos convincentes? ¿Y aboga por lo mismo para tratar con ISIS? ¿Deberíamos intentar ganarnos a los miembros de ISIS con miel y mientras tanto criticar a los kurdos por dispararles porque “eso sólo los endurecerá”?

Algunos pueden argumentar que el grado de endurecimiento es diferente entre los distintos niveles éticos. La persona que piensa que cierto tipo de doxxing no es ético podría decir: “No me opongo a que pongas su información personal en línea con capturas de pantalla de sus declaraciones nazis, pero cuando pusieron en línea el número de teléfono de su madre porque ella estaba pagando sus cuentas, fue un paso demasiado lejos” y está bien, claro, está bien, ciertamente existe un caso ético de que doxear a miembros de la familia causa daños colaterales inaceptables en potenciales inocentes, ese es un argumento con el que personalmente estoy de acuerdo (a menos que la madre también sea nazi). Ese caso puede y debe presentarse. Pero lo que es totalmente inválido es el movimiento frecuente de sacar luego la carta de “y esto sólo hará que los nazis se muestren menos dispuestos a cambiar”. ¡Esta línea de argumentación supone que el nazi hace las mismas distinciones de categorías éticas que el crítico! De hecho, al nazi puede importarle mucho estar personalmente expuesto y muy poco que el número de teléfono de su madre sea mezclado. De manera similar, es francamente absurdo cuando los partidarios de la línea dura que no son agresivos usan este argumento sobre si golpear o no a un nazi de manera preventiva o solo después de que golpee primero. Si un nazi ha rechazado y se ha reído del principio de no agresión, creo que podemos decir con seguridad que lo único que le importa es que haya recibido un puñetazo; cualquier puñetazo lo “endurecerá” en igual medida (si es que lo hace), independientemente de si ese puñetazo recae en un lado u otro de tus categorías éticas personales. Si realmente queremos optimizar para “no hacer que los nazis se endurezcan en su camino”, debes reconocer que eso va en direcciones extrañas. Humillar completamente a alguien en un debate a menudo puede endurecer a esa persona en su política mucho más que un puñetazo. Además, a menudo ocurre exactamente lo contrario: para muchas personas, las repercusiones físicas pueden de repente hacer que su juego en línea sea real de una manera que los asuste directamente.

Y recordemos que, si recibir un puñetazo o ser avergonzado por ser un nazi “simplemente” irónico y medio comprometido hace que alguien sea más propenso a inclinarse hacia la vida nazi, es probable que siguiera ese camino de todos modos, independientemente de las indicaciones específicas. Deberíamos tomar lo de “me caracterizaste mal como nazi por ser etnonacionalista en todos los sentidos significativos, así que ahora bien podría lucir una esvástica, ¿ves lo que has hecho?” tan en serio como cualquier otro sociópata que decide deleitarse con sus valores reales en el momento en que ya no pueden esconderse. Como dice el inmortal tweet ” Si empezara a llamar a este tipo cabrón de cerdos durante unos meses, empezaría a ir a la granja en busca de citas”.

No estoy diciendo que no tenga valor desconvertir a los fascistas o atraerlos con miel. Claramente hay valor en eso, aunque en el contexto adecuado. Pero 1) es algo que lleva tiempo en comparación con la amenaza metastatizante que plantean los fascistas en la calle. Y 2) ya existe un gran aparato de ONG liberales para desconvertir a los fascistas. Naturalmente, Trump recortó todos los fondos para este tipo de programas, pero son precisamente el tipo de cosas por las que los moderados ya abrirán sus chequeras. En resumen, el retorno de la inversión marginal es actualmente muy bajo en ese tipo de activismo en comparación con la exposición y confrontación más peligrosa y arriesgada de la organización fascista activa.

Sin embargo, señalaré que hay organizaciones antifa que también trabajan en este espacio, por ejemplo, proporcionando redes de apoyo alternativas a personas que salen de prisión o están bajo el control de los nazis en su interior, como ocurre con parte del trabajo de los Trabajadores Antifascistas del Noroeste del Pacífico Colectivo. Normalmente, los anarquistas gravitan hacia el tipo de trabajo que sólo pueden realizar personas a las que les importa un carajo la ley. Las ONG tienen que ir a lo seguro, pero los grupos de activistas anarquistas pueden felizmente mantener la confidencialidad o ayudar de maneras que serían una responsabilidad legal para una organización sin fines de lucro.

Hay innumerables cosas que deben construirse a largo plazo para cavar permanentemente la tumba del fascismo. Proporcionar salidas a la gente para salir de los movimientos fascistas es sólo una de ellas. Los cambios culturales amplios son increíblemente importantes. Nunca ganaremos finalmente hasta que los valores cosmopolitas antiautoritarios impregnen la sociedad tan profundamente que el fascismo sea impensable. Una victoria así requerirá amor, arte, ciencia y todas las cosas que la gente libre hace mejor que los fascistas. Pero hay que considerar diferentes plazos.

Obviamente, los activistas antifascistas no deberían ignorar por completo el largo plazo, pero ésta es una situación de clasificación. Comer más sano impedirá las probabilidades de cáncer a largo plazo, pero cuando realmente tienes cáncer no necesitas col rizada, debes quitártela lo antes posible.

A los presumidos activistas liberales que recién descubren el antifascismo les encanta lanzar el comentario absolutamente estúpido de que “antifa no está resolviendo el problema a largo plazo del fascismo”. Por supuesto que no lo es.

No dirías que un miembro anarquista de los Maquis franceses tenía la ilusión de que el fascismo sería vencido para siempre por sus balas, pero maldita sea, la cuestión es que dichas balas podrían asegurar nuestra supervivencia durante unos años más para que también podamos trabajar sobre todas esas soluciones a largo plazo.

Lo que más me interesa es el largo plazo, y el anarquismo lleva siglos dando la alarma sobre soluciones a corto plazo que impiden alcanzar nuestros objetivos finales. Pero hay otro lado de la ecuación. Con la misma facilidad podemos caer en el modo de fracaso de privilegiar por completo la estrategia a largo plazo sobre las tácticas a corto plazo.

El anarquismo es en esencia antifascista, nos encontramos en todos los sentidos posibles en el polo opuesto literal del nacionalismo, el estatismo y el tradicionalismo. Todo lo que hacen los anarquistas en pos de la anarquía es, por tanto, en el sentido último, “antifascista”. Pero no nos perdamos en la hipermetropía de “mi cooperativa polivegana interseccional de bicicletas de código abierto está construyendo un mundo ‘antifascista’” y no veamos a los bárbaros neonazis que se encuentran actualmente a las puertas.

boicotear

Lo hemos dicho interminablemente aquellos de nosotros que les hemos prestado atención a lo largo de los años, pero la gran mayoría de lo que hace Antifa no está orientado a la lucha callejera sino a aprovechar la presión social para boicotear a los fascistas. Una banda nazi intenta tocar en un bar y los antifacistas notificarán al dueño del bar, entregando evidencia de la política de la banda. Si al dueño del bar no le importa, lo publicarán y ejercerán presión pública hasta que el dueño del bar tema ser boicoteado. Francamente, es difícil imaginar cómo alguien podría tener algún tipo de problema con este tipo de activismo, pero en realidad la gente es increíblemente reacia al conflicto y se toma los desafíos a la posición social de las personas mucho más en serio que los nazis que asesinan a personas.

A la gente en general le importa una mierda la ética ni nadie más que ellos mismos. Entonces, cuando alguien dice: ” Oye, la banda que te gusta no solo imita la estética fascista y es vanguardista, sino que también ha donado miles de dólares a organizaciones fascistas y ha dejado que los nazis recluten en sus shows” , la primera respuesta de mucha gente no es “ Dios mío, eso apesta, ¡gracias por avisarme! ” pero en lugar de eso, ponerse histérico sobre a quién vendrá a continuación la Policía del Pensamiento y cómo se atreve alguien a esperar algo de usted, eso es El verdadero fascismo . Es una sorprendente falta de compasión por los objetivos del fascismo y una preocupación miope por cualquier posibilidad remotamente remota de que usted pueda sufrir molestias. Seguro que la banda puede estar facilitando que bandas de matones nazis golpeen a inmigrantes en la calle, pero el VERDADERO problema en cuestión es que algunas personas podrían respetarte menos por ir a sus shows.

Es una especie de nihilismo egoísta que es común en escenas como el punk y el metal. Preocuparse por otras personas o por la mierda del mundo en general es lo que sea, pero los fuegos del infierno deben ser desatados si el “moralismo” de alguien corre el riesgo de afectarte, aunque sea ligeramente negativamente. Cuando la extrema derecha declara que son el punk rock de hoy, en realidad hay argumentos sólidos para demostrar que tienen razón. O al menos representan la continuación ininterrumpida de una corriente nihilista siempre dentro de tales escenas. Tontos como Jim Goad, que hace décadas publicaban revistas punk pidiendo que las mujeres fueran violadas y golpeadas, son ahora figuras destacadas del medio fascista moderno. De hecho, la división entre antifa y nihilista sobre las bandas fascistas se replica con bastante exactitud cuando se trata de temas como violadores de larga data que son denunciados en la escena punk. Mucha gente ni siquiera se molesta en leer las pruebas y los testimonios, sino que inmediatamente empiezan a gritar sobre “¡caza de brujas!”. porque si el tipo violó a alguien o no o si la banda es fascista es totalmente irrelevante para ellos, lo que más les preocupa es el establecimiento de consecuencias sociales por ello.

Los libertarios llevan años gritando que el boicot es el enfoque ético, que los boicots organizados podrían haber suprimido los horrores de Jim Crow sin involucrar al Estado. Pero ahora que la gente se ha enfrentado cara a cara con los boicots organizados y la presión social que los sustenta, muchos están horrorizados. ” ¿¡Presión social!? ¡¿Sancionar a quienes no sancionan?! De esa manera se encuentran los niños malos en la escuela secundaria. Solo quise decir que, si no te gusta algo, deberías callarte y tal vez no comprarlo, nunca predicar sobre ello ni juzgar los hábitos de compra de los demás”.

Es una triste realidad que, para muchos, el punto central del libertarismo es un elitismo y amoralismo simplistas. Un código de reglas (derechos de propiedad) al que uno puede adherirse ciegamente sin mucha sobrecarga cognitiva y luego ignorar todas las demás consideraciones o complicaciones éticas. El núcleo demográfico libertario moderno está formado por chicos blancos ligeramente intelectuales, que en sus peores momentos sólo quieren vivir en las simplicidades protectoras de su privilegio e ignorar las súplicas de los oprimidos de maneras complejas y desafiantes. “¡Patriarcado! ¡Ja! Qué absurdo. No, no voy a escuchar una explicación más larga de la que cabe en un breve vídeo de youtube. Mira, cariño, respeto los derechos de propiedad y no necesito prestar atención a nada más, se solucionará solo. Y si no es así, entonces te equivocaste al quejarte. 

Por supuesto, muchos libertarios reales lo sabían mejor: la misma cantidad, si no posiblemente más, se sienten atraídos por el libertarismo por una sincera empatía por las víctimas de la guerra o el estado policial. Y las figuras más inteligentes reconocen que “el mercado” incluye inherentemente el activismo en torno a los cambios culturales. Los boicots organizados son tan importantes para el crecimiento de un mercado saludable como las inversiones, y el activismo al estilo de la justicia social es simplemente otra forma racional de participación en el mercado que puede construir un mundo más saludable.

Sólo quiero señalar brevemente que oponerse a los boicots es profundamente no libertario y antimercado. Oponerse a la organización de boicots es oponerse al flujo y procesamiento de información. Si alguien frecuenta un establecimiento racista eso dice algo de su carácter. No integrar eso en tus propias evaluaciones de con quién quieres asociarte requiere un acto deliberado de ignorancia, de autosabotaje intelectual. Se supone que toda la justificación de los mercados es que son eficaces a la hora de transmitir información y, por tanto, proporcionan una mayor agencia. Lo que quieren quienes se oponen al boicot es limitar la información que se puede transmitir en el mercado. O, si somos más honestos, lo que secretamente siempre quisieron fue un mundo donde no tuvieran que considerar cuestiones de ética y valores, donde la información pertinente sobre esas cuestiones nunca se transmitiera ni se actuara en consecuencia. A la mierda eso.

Ahora bien, por supuesto, hay una segunda dirección de crítica. Se podría argumentar que los boicots y otras opciones de exclusión u ostracismo levantan barreras del mismo modo que lo hacen las fronteras. Esta es una crítica claramente de mala fe cuando proviene de personas que defienden fronteras draconianas impuestas por el Estado, pero hay algunos anarquistas reales preocupados de que los boicots violen el espíritu de apertura y conexión al que aspira el anarquismo. ¿No es el boicot “exclusivo”?

Admito absolutamente que los boicots cortan la conectividad de maneras específicas e incluso cortan la conectividad en general. Pero la táctica del boicot también se puede aplicar de manera que aumente la conectividad general en una red al impedir la conexión de nodos maliciosos o defectuosos. Un enrutador que reenvía paquetes en una red puede mantener un registro de cuán honestos o efectivos son otros enrutadores al reenviar los paquetes que envía, y puede actualizar a quién reenvía los paquetes. De hecho, los enrutadores pueden recibir información de otros enrutadores que les alertan sobre enrutadores que funcionan mal. En realidad, esta estrategia permite una mayor conectividad general.

Como anarquista, soy consecuencialista, no deontólogo. No me interesa construir un espejo de las torpes reglas de comportamiento que el Estado impone como ley. Estoy interesado en lograr el objetivo de la libertad a través de cualquier medio que sea lo suficientemente eficiente y coherente para alcanzarlo. Si bien quiero un mundo de paz, a veces la violencia, como resistir a la Stasi, es necesaria para lograr esos fines. De manera similar, si bien quiero un mundo de conexión, puede ser necesaria una disociación limitada para lograr ese fin.

El racismo es una forma específica de boicot. Pero el racismo es una ruptura irracional y contraproducente de la conectividad, mientras que los boicots a los racistas son una ruptura de la conectividad con los nodos que impiden la conectividad. Boicotear a los racistas consiste en evitar nodos dañados, limitando el grado en que pueden dañarnos a todos, de la misma manera que Internet aumenta la conectividad evitando nodos que impiden la conectividad.

Negarse a dar a los fascistas el prestigio de un podio es exactamente lo mismo que negarse a dar a los terraplanistas el prestigio de un podio. La ciencia quedaría completamente paralizada si a todos los chiflados se les permitiera participar en conferencias científicas, y mucho menos se les diera una plataforma en ellas. Simplemente no hay tiempo suficiente para abordar cada problema, y ​​tampoco deberíamos hacerlo nosotros. Mantener a los estafadores pseudocientíficos fuera del prestigio científico es una cuestión de cortar conexiones, de elegir la disociación, para hacer que toda la empresa sea más eficiente en la difusión del conocimiento. El historial de honestidad de alguien constituye metainformación que no debe censurarse ni suprimirse, sino difundirse con precisión. Una forma de difundirlo es negando el prestigio de la plataforma a personas que tienen un historial de fraude. Imponer un régimen en el que los terraplanistas están obligados a ocupar un lugar en cualquier panel de geología es suprimir por la fuerza la metainformación que símbolos de legitimidad como un podio transmiten.

Note cuán dramáticamente diferente esto de las fronteras nacionales. Los boicots surgen de decisiones distribuidas de los individuos, las fronteras nacionales son impuestas por entidades colectivistas monopolistas de maneras que inherentemente suprimen la agencia del complejo conjunto de personas que de alguna manera dicen representar o hablar.

Los libertarios aparentemente deberían saberlo mejor, ya que se supone que la puta justificación del mercado se basa en la premisa de que los organismos colectivos como “naciones” o incluso “tribus” no pueden tomar decisiones eficientes. Los individuos conocen mejor los detalles a los que se enfrentan que lo que jamás se puede transmitir en un comité. La agencia, el cálculo y la consideración no tienen lugar en la cabeza de algún “comité” abstracto sino en los cerebros reales de los individuos que lo constituyen. Los cerebros individuales están interconectados de manera infinitamente más estrecha y eficiente que cualquier organismo social a través de la mera comunicación humana: una elección en tu cabeza puede ser un cálculo inmediato que involucra miles de millones de neuronas; no ocurre ningún procesamiento comparable en ningún otro lugar. Ésta es la razón por la que sólo los individuos constituyen agentes en un sentido real. Cuando las personas forman un comité, no crean mágicamente algún tipo de “agente” superviniente de ninguna manera éticamente relevante. Y eso ciertamente no es cierto cuando se trata de entidades míticas ridículas como las “razas”.

Debido a que los individuos son el lugar de la agencia, los edictos de arriba hacia abajo sobre la asociación necesariamente eliminan la agencia. Afortunadamente, el activismo antifascista es un ejemplo perfecto de boicot organizado desde abajo u horizontalmente. Un medio para que las personas se conecten y trabajen como individuos para hacer del mundo un lugar mejor. Cada nodo evalúa no sólo el nodo defectuoso sino también las evaluaciones realizadas por otros nodos en respuesta al nodo defectuoso …Siempre y cuando, por supuesto, no quieras que los nazis recluten y ganen dinero en tu bar local, y que realmente te importe si la gente también tiene valores antinazis.

Doxing

Como firme defensor de la libertad de expresión (es decir, la libertad de información), me cuesta mucho entender cómo alguien podría objetar el doxing de los nazis. Una vez más, uno pensaría que los libertarios al menos estarían a favor de que haya información más precisa disponible para informar las decisiones del mercado. ” ¿Oh? ¿Este tipo que solicita trabajar para mí es un nazi con un historial de llamado a la limpieza étnica? Bueno, ciertamente no quiero contribuir a su pan diario, y mucho menos juntarme con un posible genocida así”.

¡Seguramente si alguien ha violado, robado, etc., hay metadatos relevantes sobre esa persona que querrás saber antes de interactuar con ella! Y seguramente difundir esos metadatos de manera accesible para quienes probablemente interactúen con ellos es el servicio social más básico que se podría pedir. Enviar correo a los vecinos de un organizador nazi para informarles sobre su activismo, o equivalentemente poner su información en línea, me parece la acción más intachable que se podría tomar.

Pero la gente se ha vuelto muy rara con respecto a la privacidad en la última década. Como reacción al estado de vigilancia, nociones verdaderamente horribles de privacidad se han vuelto cancerosas en nuestra sociedad. Véase, por ejemplo, el amplio respaldo e intento de la Unión Europea de imponer el hiperautoritario “ derecho al olvido ”. ¿Quieres hablar de intentos de controlar los propios pensamientos o limitar la libertad de expresión? La noción de que alguien tiene derecho a eliminar o censurar la información que posee otra persona es la forma en que cometemos atrocidades monstruosas como la propiedad intelectual.

Si bien el caprichoso y violento gigante del Estado cambia algunos cálculos situacionales –creando una obligación ética de evitar difundir información verdadera que pueda llevar a alguien a la cárcel cuando el daño que causaría de otro modo es inferior a eso–, como regla abrumadora, todos nuestros instintos deberían apuntar hacia difundiendo información veraz.

Si te opones a doxear a los nazis, entonces te opondrías a que los sobrevivientes nombren y expongan a sus violadores. Literalmente no puedo pensar en una reducción más condenatoria que esa. ¿Para qué diablos fue toda la lucha por Internet y la libertad de información, incluso para proporcionar a la gente información más precisa sobre el abuso y dejar menos espacio para esconderse a los monstruos?

Nadie tiene derecho a borrar la realidad, a esconderse de los daños del pasado, a silenciar a los supervivientes y a borrar de la memoria los hechos reales. Si una sociedad menos que ideal juzga demasiado a ese individuo, entonces la mejor solución en general es corregirlo con información más veraz, no ocultarla. Deberíamos pecar del lado de la libertad excepto en situaciones extremas (delatar al Estado, denunciar a personas queer en sociedades homofóbicas, etc.), y proteger a los organizadores nazis literales ciertamente no es una de ellas. Se puede imaginar la suspensión de una obligación general hacia la libertad de información para salvar a un organizador anarquista aleatorio por razones de consecuencias: su activismo se vería restringido, etc. No hay consecuencias negativas comparables a la filtración de información sobre los nazis.

Si la preocupación es que descubrir a alguien como organizador nazi tiene una posibilidad muy pequeña de atraer la violencia de los vigilantes sobre ellos, bueno, 1) los antifascistas son los que literalmente reciben disparos o bombas cuando son engañados, no conozco literalmente ningún caso en el que los fascistas hayan sido asesinado como resultado del doxing y 2) oh, por el amor de: ¿por qué debería importarle a alguien que los organizadores nazis reciban una paliza?

Desorganización violenta de la organización fascista

Muy bien, hagámoslo.

Organizar no es simplemente hablar. Ningún grupo antifascista que yo sepa aboga por golpear o doxar a abuelos racistas al azar. El problema es cuando la gente se organiza por medios fascistas. Cuando se unen y actúan o reclutan explícitamente para lograr el puto y horrible objetivo de la limpieza étnica y convertir nuestra sociedad en una prisión absoluta.

Seguramente todos podemos estar de acuerdo en que está totalmente bien que los anarquistas que actualmente luchan contra ISIS en Siria utilicen la fuerza preventiva, inicien batallas individuales en lugar de esperar siempre a que ese enemigo fascista dispare primero.

¿Por qué esto es éticamente correcto? 1) Nuestra inclinación ética general hacia la no agresión es sólo una heurística aproximada que falla en algunas circunstancias, no es un axioma inmortal. 2) La “no agresión” está mal definida fuera del espacio de las amenazas inmediatas realmente obvias. 3) Si hacemos caso a las nociones inmediatistas de agresión, nos matarán, porque permiten ocultar el arma hasta el último segundo.

La noción de no agresión que tienen algunos libertarios NAPistas es tremendamente ingenua respecto del conflicto violento real. ” Todos nos sentaremos aquí mientras los fascistas se reúnen afuera de nuestra casa con armas, y luego esperaremos hasta el último segundo para intentar superarlos en la cinta exprés “. Esa mierda es una locura. No ganarás una guerra en esos términos. Y si bien la extrema reticencia libertaria a pensar en términos de guerra es en cierto sentido admirable, abre una debilidad catastrófica. Y si te proteges en todos los frentes excepto en uno, tu enemigo elegirá felizmente luchar contra ti en la única dirección en la que eres débil.

Es absolutamente cierto que deberíamos esforzarnos por evitar una guerra abierta o un conflicto civil a gran escala en la medida de lo posible. El bebé se divide, nadie gana, el número de muertos es inimaginable. No quiero en absoluto una guerra civil, ni siquiera dos insurgencias –anarquista y nazi– luchando entre sí. Pero si demostramos ser débiles en ese ámbito, si les indicamos a los fascistas que tenemos las manos atadas, que sólo nos defenderemos tardíamente, en lugar de ser lo suficientemente inteligentes como para a veces lanzar los golpes primero, haremos que ese conflicto sea absolutamente inevitable. Si nos volvemos impenetrables en el frente del discurso y la cultura, pero vacilantes en el frente de la fuerza física, los habremos arrinconado donde la única opción para ellos es la fuerza física. En este momento están lanzando un montón de críticas falsas para darles cobertura y organizar una fuerza de combate, pero es de esperar que sus mentiras desenfrenadas y sus argumentos de mierda los alcancen. Si les permitimos formar un ejército mientras tienen esta cobertura, sin destruirlos, o jugar un juego puramente defensivo, seremos aniquilados. No te atacan cuando tienes cinco amigos armados hasta los dientes, no te atacan cuando estás solo en un callejón, ni bombardean tu casa cuando estás dormido. Esto es una mierda que ya hacen los neonazis. La miope incapacidad de la no agresión para ver un contexto más amplio simplemente no será suficiente en un conflicto de este tipo.

Hay una especie de pánico que he visto en la gente cuando se ven obligados a enfrentar esta realidad. El movimiento clásico es abrazar un fatalismo de alto nivel: ” bueno, está bien, todos moriremos, pero yo moriré con mi alma intacta “. Esto es especialmente fuerte entre los libertarios que ven el consecuencialismo como el diablo literal, y cualquier concesión a él como una apertura de la puerta al estatismo. Una rica inmersión filosófica parece estar más allá del alcance de este ensayo, pero quiero enfatizar que un consecuencialismo con la libertad como fin no puede replicar el estado a menos que se descarte por completo toda inteligencia sobre los medios. La idea antiestatista básica es que los gigantescos monopolios de la violencia no pueden restringirse ni limitarse; si se les permite existir, su tiranía crecerá. Esto sigue siendo ineludible para el consecuencialista serio. Pero justificar que las milicias populares o los individuos disparen primero contra ISIS no implica construir una institución singular con el monopolio de la violencia. Hay tendencias de retroalimentación en el lenguaje y la psicología de la “guerra” que definitivamente pueden conducir a un tribalismo violento reactivo y a la construcción de estados, pero la “guerra” no es algo simple, singular y unificado. La idea de que si estás en la Segunda Guerra Mundial probablemente deberías dispararle a alguien con un brazalete con la esvástica que viene hacia ti antes de que dispare formalmente primero es jodidamente buena.

Entonces, ¿por qué carajo no deberíamos considerarnos en guerra con los fascistas cuando ellos se consideran en guerra con nosotros y están matando gente activamente? ¿Por qué los neonazis son jodidamente diferentes de ISIS?

Los nazis tienen la absoluta intención de matarnos a todos. La agenda etnonacionalista es de genocidio, ya que la deportación forzada no ha sido y nunca ha sido cedida pasivamente, y todos tienen momentos en los que lo admiten. El exterminio de los anarquistas es la agenda número uno de todos los estados nacionalistas autoritarios de la historia, cualquiera que sea su pretensión ideológica, desde Hitler hasta Stalin. Y, en cualquier caso, la imposición de un gobierno fascista a los supervivientes sería bastante cercana a la muerte, dadas las formas en que suprimiría sistemática y totalmente la agencia individual.

Seguro que los liberales y conservadores también son estatistas y proclives al autoritarismo. Aunque existe al menos una diferencia bastante grande en la escala del democidio explícitamente establecida en sus aspiraciones. Pero estoy feliz de aceptar la expansión del conjunto de personas que podríamos decir que están persiguiendo asesinatos en masa. Ningún anarquista en la tierra condenaría a alguien que golpea a Cheney, Clinton, Bush, Obama, etc. Y seguramente estaría bien matar preventivamente a los demagogos que instan al genocidio por radio en Ruanda. ¿En qué se diferencia el papel de Bill Kristol en el período previo a Irak del de ellos? Si bien creo que la violencia preventiva debería aceptarse estrictamente, felizmente acepto que esto podría extenderse a los políticos genocidas en las democracias liberales o, digamos, al hambre de purgas de los marxista-leninistas. Es mejor morder esa bala filosófica que inevitablemente recibir sus balas reales. No estoy diciendo que los anarquistas disparando aleatoriamente a miembros del establishment político sea estratégico (no creo que lo sea), sólo que no sería intrínsecamente poco ético.

El punto estratégico es importante y digno de un análisis complejo. Obviamente nadie va por ahí ejecutando a organizadores nazis y matones callejeros, y probablemente sería una mala decisión que la gente empezara a hacerlo. Un buen número de manifestaciones antifa en realidad no implican golpear a los nazis, y menos implican golpear primero. La óptica y las complejidades de las situaciones de la era Trump en las que nazis encubiertos han estado utilizando a los republicanos como escudo no son triviales y los activistas antifa lo reconocen claramente. Ha habido una gran variedad de pensamientos estratégicos que he visto expresados ​​y debatidos en sitios antifa. Podemos tener una discusión de buena fe sobre estrategia, en lo que no deberíamos perder el tiempo es en pretender que Richard Spencer es categóricamente diferente de un reclutador de ISIS en algún sentido éticamente profundo.

Y sí, aunque hay divisiones y diferentes órganos internos funcionales, el movimiento fascista está interconectado como una sola entidad que nos hace la guerra. ¿Por qué debería importarnos tanto si Vanguard America reclama formalmente a James Alex Fields (el asesino de Heather Heyer) como miembro? ¿Por qué darles tanta importancia a pretensiones organizativas arbitrarias? Fields colgaba y colaboraba con ellos, y compartían los mismos objetivos.

Cuando el Frente de Liberación de la Tierra quemó camiones madereros, la “Oficina de Prensa del ELF” era una entidad legalmente distinta sobre el terreno y aparentemente no colaboraba personalmente con las células del ELF que realizaban la destrucción de propiedades. Eso puede haber protegido legítimamente a Craig Rosebraugh y Leslie James Pickering de alguna medida de represalia legal (estaríamos en una situación absolutamente horrible si permitiéramos felizmente al Estado procesar la publicación y defensa de un grupo terrorista como “colaboración funcional”), pero de manera real, análisis ético en lugar de legal, por supuesto, Craig y Leslie estaban funcionando como órganos en un organismo ELF más grande. De la misma manera que algunos administradores militares funcionan como órganos del ejército en general. O Richard Spencer funciona como un órgano dentro del movimiento fascista más amplio. Obviamente, el ELF era muchísimo mejor en objetivos y medios que el ejército estadounidense o el movimiento fascista, pero no es como si intentáramos hacer algún tipo de distinción ética profunda (más que legal) entre la participación de Craig en el ELF. y los de los miembros de la célula que destrozaron físicamente los camiones madereros.

Hoy, en una dirección diferente, el grupo terrorista nihilista mexicano “Individuos que tienden al salvajismo” adopta felizmente un sinfín de nombres diferentes, aparentemente tuvo diferentes divisiones internas, etc, pero siguen siendo funcionalmente el mismo grupo de personas.

La red de colaboración y cruce entre grupos francamente fascistas y nacionalistas blancos está bien documentada. Los títulos totémicos arbitrarios que asignan a subgrupos aleatorios de sus filas son realmente irrelevantes. Las organizaciones no son entidades mágicamente reales: son simplemente personas que se llaman a sí mismas de alguna manera. Y dejarnos llevar demasiado por tomarnos esa mierda en serio hará que sea más fácil andar por ahí. Acabo de leer la jodida exposición de Milo , ese hijo de puta estaba colaborando felizmente con montones de nazis y reaccionarios extremos mientras fingía que había una distancia que no la había en absoluto. Lo mismo se revela constantemente de todos los demás miembros del movimiento fascista.

“Está bien, pero ¿qué pasa con la estrategia? Seguramente golpear a la gente es una mala estrategia. Simplemente hará que los nazis se dobleguen con complejos de víctima y, mientras tanto, pierdan el apoyo público. 

Si bien es cierto que una población atrapada en la democracia liberal retrocederá reflexivamente ante actos de violencia que no sean desmesurados, bien definidos, defensivos y proporcionales, hay buena evidencia de que la represión no tiene el mismo efecto de “doblar la apuesta” en la población fascista como puede tener sobre otros. A lo largo de décadas de lucha, activistas antifascistas de diversos orígenes y en diversos contextos han convergido en la misma conclusión general.

Es importante comprender que la psicología fascista y los mecanismos de su reclutamiento son diferentes a los de los anarquistas o incluso a los liberales.

La principal herramienta de reclutamiento del fascista es la apariencia de poder.

Esta es la razón por la que los fascistas –y otros autoritarios conscientes de sí mismos en su órbita general, incluidos los estalinistas y maoístas– se centran tan fuertemente en la estética y los rituales que refuerzan las percepciones de amplia popularidad, comunidad, fuerza por asociación y posición social general. Aquellos movimientos que sólo se quejan, ofreciendo narrativas de victimización y promesas de poder sin ningún contenido tangible, rara vez reclutan una base duradera de autoritarios conscientes de sí mismos (aunque algunos se instalarán subrepticiamente para aprovecharse de los pocos verdaderos creyentes y mortíferos). La apariencia de fuerza y ​​legitimidad lo es todo, sin ello los movimientos fascistas se agotan. Ningún autoritario consciente de sí mismo quiere respaldar una causa perdedora.

Esta es la razón por la que negar a los fascistas la legitimación de una plataforma y contrarrestar violentamente sus manifestaciones ha funcionado tan bien históricamente. La base autoritaria de la que reclutan los fascistas no comparte los instintos de los defensores de la libertad, no se sienten atraídos por los desvalidos sin esperanza, no se ven obligados a sacrificarse en defensa de los débiles, se sienten atraídos por superhombres en ascenso. Cuando un nazi sube a un escenario para pedir genocidio, sus argumentos no importan, es la potencia del acto, el hecho mismo de que haya podido subir a ese escenario y decir esas cosas en primer lugar, lo que recluta. [ fuente ]

Algunas personas realmente sólo respetan la fuerza física. Los ejemplos más representativos de esas personas son los fascistas.

Sobre la conexión específica entre la extrema derecha y el NAP

Se puede argumentar de buena fe que la extrema derecha de YouTube recluta de manera diferente a los neonazis de décadas anteriores: apelando a los quejosos hombres beta para quienes una débil pretensión de autoridad moral es más relevante que la fantasía de poder que se vende. y, por lo tanto, las palizas que funcionaron tan bien contra los idiotas sólo pueden inspirar más reacciones de “mira, los globalistas son muuuy injustos” por parte de los perdedores que tienen hambre de poder, pero están más desesperados por cualquier tipo de identidad, causa o pertenencia. Las nociones miopes de lo que constituye una agresión formal pueden no reflejar cómo ve las cosas la población en general, pero aun así tienen cierta resonancia particular entre los ex libertarios.

Es deprimente ver cuánta gente moderna de extrema derecha proviene de orígenes libertarios y trata de fusionar la ideología fascista con una política superficial al estilo de Ron Paul. “No soy autoritario, por lo tanto, no soy fascista, soy un libertario típico, simplemente creo que las entidades colectivas mágicas de los estados-nación deberían detener violentamente la libre asociación de individuos. Pero desde que los libertarios abrieron la maldita puerta a este espectáculo de horror, hay algunos argumentos de que están mejor equipados para alterar la gimnasia ideológica descaradamente contradictoria que lo sustenta. Sin embargo, también se puede argumentar que los libertarios tuvieron su jodida oportunidad, y durante décadas dejaron entrar a racista tras racista, reaccionario tras reaccionario, desde Rothbard hasta Ron Paul, Lew Rockwell y Hoppe, y ahora la mitad de las organizaciones libertarias han sido tomadas por fascistas. como el Instituto Mises (que defiende abiertamente “sangre y tierra”) y la otra mitad apenas lucha contra el cáncer. Han tenido décadas para detener esto en sus comunidades y fracasaron estrepitosamente en todo momento, así que tal vez su consejo sea de poca importancia en este momento.

Estoy un poco dividido entre estas tomas. Creo que los libertarios pueden y deben desempeñar un gran papel a la hora de socavar a la extrema derecha, y probablemente tengan algunas ideas útiles sobre la psicología única y la retorcida ideología de los niños youtube/chan de la extrema derecha. Pero también parece claro que no han avanzado mucho, y las diferencias entre los perdedores /pol/ de hoy y los perdedores skinhead de los años 80 tal vez sean exageradas. Quizás una mayor afinidad por las pretensiones de un “debate intelectual” performativo en línea, pero la misma psicología reaccionaria subyacente.

¿Qué importancia tiene que youtubers etnonacionalistas como Stefan Molyneux reclutaran inicialmente su base entre los “libertarios”?

El Centro para una Sociedad sin Estado y la Alianza de la Izquierda Libertaria han estado en estas luchas durante una década. La mayoría de los principales nazis de esta cosecha de extrema derecha tienen historias de origen al denunciarnos o ser expulsados ​​del libertarismo por nosotros. Como somos un grupo de expertos nerds, nos hemos limitado a contrarrestar sus ideas, criticarlas y desconvertir a sus seguidores, todo en el ámbito de las palabras. Y hemos tenido cierto éxito.

Pero lo que ha quedado muy claro a lo largo de los años es su oportunismo y su falta de una brújula ética. Molyneux se volvió etnonacionalista básicamente porque se dio cuenta de que los anarquistas no iban a apoyar su uso de la DMCA y el Estado para intimidar a un crítico, por lo que abiertamente giró hacia una nueva audiencia que pagaría sus cuentas. Christopher Cantwell, el “nazi llorón”, básicamente hizo lo mismo cuando se dio cuenta de que el libertarismo no era un camino hacia el poder personal. Una historia similar con la gente detrás de The Right Stuff, etc, etc. Estas personas, a pesar de todas sus pretensiones de ser campeones de la razón y el debate, obviamente se sienten atraídas por el poder, y este también parece ser el caso de una buena fracción de su audiencia. Esto implica fuertemente que cualquier otra narrativa de víctima basura anti-sjw a la que aprovechen, si impides que la derecha alternativa pueda generar espectáculos de poder, al menos secarás a la mayor parte de la fracción oportunista hambrienta de poder.

La deontología y la acusación de hipocresía

Las personas con sistemas éticos centrados en categorizar acciones de forma aislada en lugar de en la búsqueda estratégica de objetivos tienen una desagradable tendencia a abandonar las acusaciones de hipocresía: ” Si estás de acuerdo con golpear a los nazis en pos de un mundo más libre, entonces no tienes capacidad para oponerte a eso “nazis golpeando a los anarquistas en busca de un mundo más jerárquico”.

Esta maniobra es muy molesta. Por supuesto, los no anarquistas podrían usar el razonamiento que estoy usando aquí para justificar todo tipo de cosas, incluido el exterminio de anarquistas, si eliminas por completo los valores/objetivos fundamentales que estoy siguiendo. Como consecuencialista, no estoy tratando de establecer algún tipo de marco de juego independiente de los valores que creo que debería establecerse universalmente, algún tipo de reglas de conducta entre ideologías.

Los anarquistas quieren libertad para todos, los fascistas quieren su distopía de pesadilla de dominación y una humanidad fracturada, dividida y aprisionada en tribus sofocantemente estáticas. No puede haber ninguna pretensión de tolerancia entre valores y objetivos tan diferentes. No es que fascistas y anarquistas puedan “acordar estar en desacuerdo” o alcanzar cortésmente algún tipo de distensión civil. Nuestras funciones de utilidad son completamente opuestas e incompatibles en todos los niveles.

Por lo tanto, no tiene sentido pretender que alguna vez pueda haber algún tipo de reglas “justas” mediante las cuales debamos sujetarnos unos a otros en nuestro conflicto. No voy a fingir conmoción y traición cuando nos lleven a los campos de exterminio ni voy a mentir como loco en Twitter, aunque, por supuesto, señalaré ambas cosas. Y no hay ninguna duda entre que ellos nos golpeen o nos engañen y que nosotros se lo hagamos a ellos. El acto no es la jodida categoría relevante, sino el objetivo.

Los fascistas harán lo que hacen los fascistas, que es intentar matar a todos los defensores de la libertad. Y los anarquistas deberían hacer lo que sea más eficaz para construir un mundo más libre.

En un sentido muy fuerte, esto nos ata las manos, porque, por ejemplo, encarcelar a todos los reaccionarios en gulags claramente no sería un paso sostenible o coherente hacia un mundo más libre. No se puede encarcelar o masacrar a la gente para liberarla. No es que ese malvado cabrón de Marx alguna vez estuvo realmente interesado en la libertad, como los anarquistas llamaron desde el principio, pero incluso su pretensión de una “dictadura transitoria” es obviamente un medio que nunca jamás conducirá a los fines de la libertad.

Sin embargo, el pacifismo puro y santo tampoco es una opción. Para detener el flujo sanguíneo general, a veces, en situaciones raras, extremas y aisladas, es necesario mancharse las manos con un poco de sangre. El camino hacia un mundo mejor no será simplemente la lenta construcción evolutiva de mejores culturas y normas, de argumentos ganadores y persuasión. A veces, al margen, implicará cosas como lanzar un puñetazo antes de que lo haga un matón nazi. Demostrarles en un lenguaje que entienden que habrá jodidas consecuencias en su horrible juego para que al menos una fracción de pequeños sociópatas egoístas se vayan a casa.

Aquí hay peligros –por supuesto–, pero hay peligros mayores si nos atan las manos por completo a algún tipo de código demasiado simplista.

El intento liberal de crear reglas de comportamiento independientes de los valores es jodidamente ingenuo. Como si los nazis pudieran vivir en paz con cualquiera. Esa mierda es una ilusión reconfortante que hará que nos maten a todos.

Hay una anécdota histórica que me encanta sobre el Presidente de la República Española en los albores de la Guerra Civil Española. Se despierta tarde y va a su oficina sólo para enojarse al descubrir que no hay café ni desayuno esperándolo. Pero no importa, llama a su Ministro de Finanzas para resolver un problema en el que habían estado trabajando el otro día y no obtiene respuesta del otro lado. Entonces llama a otro ministro. Ninguna respuesta. Otro ministro y otro departamento. Abajo de la línea. Nadie contesta. Finalmente sale furioso sólo para descubrir que su palacio está vacío. No hay recepcionistas en absoluto. Y mientras deambula por las calles, multitudes de trabajadores armados pasan apresuradamente a su lado sin previo aviso. Los fascistas han lanzado una guerra y los anarquistas han movilizado a casi todo el mundo en respuesta. El gobierno liberal –la loca pretensión de una paz ordenada entre valores irreconciliables de opresión y libertad– está disuelto de facto, y el Presidente fue la última persona en descubrirlo.

Los supuestos de la democracia liberal nos han estado asfixiando a todos desde que nacimos, pero no hay tratado posible con los fascistas. No hay ningún código que, si nos aferramos a nosotros mismos, podamos esperar que ellos cumplan. Hay que recordarlo, o acabaremos vagando atónitos como aquel presidente español. Este no es un conflicto entre tribus o posiciones políticas confusas, es un conflicto entre valores éticos absolutamente opuestos y purificados. Lo que importa es nuestro objetivo de libertad para todos, nuestras tácticas deben evaluarse en función de su eficiencia para alcanzarlo, no como un comentario sobre lo que nos parece bien que también hagan los fascistas.

Pensamientos críticos constructivos sobre Antifa y la situación actual

Antifa se formó básicamente para resolver un problema urgente en el corto plazo mediante la acción directa. Nunca ha pretendido ofrecer una solución a largo plazo, como tampoco se podría criticar a los médicos callejeros en las protestas por no ofrecer una solución a largo plazo a la crisis de atención médica o a la brutalidad policial. Esto no quita en modo alguno la importancia de dicha labor. Sin embargo, en última instancia, significa que existen condiciones límite para la utilidad de su trabajo tradicional, o cuestiones más amplias que deben abordarse. Y a medida que el antifascismo ha ido adquiriendo importancia, también ha sido recibido con aullidos de activistas de larga data en otros ámbitos, cada uno con su propia receta improvisada sobre cómo el trabajo antifascista debe subsumirse en su enfoque institucional o estratégico preferido.

Es muy parecido a una versión activista de un pastor de jóvenes que les dice a los niños: ” Oigan, sé que a ustedes les gusta Antifa, pero ¿sabían que el VERDADERO antifascismo es lograr que la gente se inscriba en su sindicato local?” Hay un puto desfile de “consejos” de este tipo por parte de radicales oportunistas.

Los grupos “Antifa” han pasado repentinamente de ser conserjes marginados del movimiento anarquista sin capital social a un activismo de alto respeto, y todos se han lanzado a declararse antifa y también han tratado de dictar lo que antifa debería ser, o descartar las críticas peor formadas. Esta es una de las principales razones por las que siento temor al entrar en este debate: todos los que tienen algún capital social de repente son expertos en Antifa y quieren declararse líderes de pensamiento antifascistas. Aunque como anarquista presente en el medio anarquista he leído y hablado ocasionalmente con antifascistas durante más de una década, mi experiencia es fundamentalmente limitada y no pretendo apropiarme del manto de “antifa” para mí.

Sin embargo.

Si bien puede que no sea más que una galería de maní en esto, tengo algunos análisis y quizás críticas constructivas. Mis dos puntos más importantes son, ciertamente bastante obvios: 1) que la práctica antifascista no se desarrolló ni remotamente para ganar mejor una guerra de propaganda o memes, y 2) la progresiva generalización del “antifascismo” en un nebuloso movimiento panizquierdista para impulsar la tribu de izquierda. versus la tribu correcta es profundamente peligroso y poco estratégico.

La Alt-Derecha se formó básicamente para ampliar la ventana de Overton y ganar la guerra de propaganda para aislar y radicalizar epistémicamente a una gran fracción de la población. Antifa se formó para expulsar a los matones fascistas de las calles e impedir su capacidad de organización. Ambos tienen éxito en lo que son buenos. Antifa a menudo gana en las calles y pierde en YouTube, lo cual es mucho mejor que perder en ambos frentes, pero todavía está cediendo un par de millones de niños en YouTube a una hiperreacción cada vez más furiosa y engañosa. No me malinterpretes, no estoy sugiriendo que el arreglo opuesto sea mejor. Cualquier cosa que limite su capacidad de organizarse e intimidar en el espacio carne salva vidas. Pero vale la pena señalar cuán completamente asimétricos son estos movimientos:

Los grupos Antifa se han apegado al periodismo y a la documentación estudiosa de los hechos. Por el contrario, la derecha alternativa ha tratado de difundir tantas mentiras como sea posible para enturbiar las aguas y ganar juegos narrativos/partidistas. No se necesita teoría de la información para saber qué enfoque tiene la ventaja: casi nadie que comenta sobre “antifa” sabe siquiera que tienen sitios web que documentan a los nazis, pero millones han visto memes que tergiversan la captura de Antifa del territorio de ISIS en Siria como si de alguna manera Antifa estuviera aliado con ISIS.

Antifa se ha apegado en gran medida a pequeñas organizaciones formales discretas y secretas creadas por anarquistas para luchar contra las pandillas neonazis. Por el contrario, la derecha alternativa es una sopa sin mucha organización formal y las organizaciones formales que existen son menos reservadas. Uno de los verdaderos talentos de la izquierda es la organización, y el secreto obviamente les ha permitido continuar trabajando sin que todos sean ejecutados por los nazis. Pero al mismo tiempo, la formalidad asociada con la cultura de seguridad activista tradicional puede ser restrictiva en otros sentidos, creando jerarquías dentro-exterior donde pequeños círculos de personas dictan cómo fluye la información y dan órdenes de facto a quienes están afuera.

Además, dado que los antifa son abrumadoramente anarquistas, han reclutado principalmente a través de la comunidad/movimiento anarquista del espacio de carne. El medio anarquista es una red mucho más cerrada o ricamente vinculada que la extrema derecha. Vivimos juntos, trabajamos juntos. Esta cercanía en muchas dimensiones ha proporcionado históricamente un tipo de solidez que, al menos hasta cierto punto, impide la infección. Podemos hacer cumplir ciertas normas, cultura, política, etc. Esto tiene todo tipo de peligros y desventajas, así como ventajas. La extrema derecha, a pesar del fetiche neoreaccionario por la “comunidad”, no tiene absolutamente nada comparable. Y entonces estamos librando una guerra verdaderamente extraña en la que los fascistas explícitos están utilizando medios quizás más anarquistas o al menos fluidos (redes amorfas, anonimato, tácticas de enjambre) contra un movimiento anarquista que se ha replegado hacia la solidez, las fronteras claras y una comunidad altamente unida, etc. Lo que anhelan en voz alta (identidad, pertenencia, comunidad, solidez) es lo que ya tenemos (y hemos descubierto sus desventajas). Al mismo tiempo están aprovechando lo que deberían ser nuestras ventajas.

Por un lado, el profesionalismo antifascista es valiente y forma parte de un compromiso con la verdad que la extrema derecha felizmente descarta en favor del trolling y el posicionamiento social posmoderno. No estoy cuestionando el valor de que los grupos antifascistas realicen sus investigaciones meticulosamente, ni tampoco estoy cuestionando la organización formal o al menos la estructura que a menudo requiere. Sigo pensando que la absoluta intratabilidad de la realidad significa que nuestro compromiso con la verdad en última instancia inclinará las cosas a nuestro favor y creo que apresurarnos a abrazar los medios de la derecha alternativa (desinformación polarizadora deshonesta) nos condenaría absolutamente a todos.

Pero, por otro lado, está muy claro que nuestra obsesión con la comunidad (una necesidad que muchos han observado desde hace mucho tiempo impulsa a la mayoría del medio activista mucho más que cambiar el mundo) nos ha vuelto hacia adentro. Y aquí por “nosotros” me refiero no sólo a los anarquistas sino a casi todos los de izquierda o posizquierda o de “justicia social” o lo que sea.

¿Por qué la idea misma de preocuparse por lo que piensa el público en general o tratar de persuadirlo suena completamente desconcertante y extraña? Debido a que hemos renunciado a ellos, nuestra hambre egoísta por las necesidades de comunidad y pertenencia del cerebro de mono ha convertido lentamente al anarquismo en un lugar de retirada, no de ataque. El anarquismo se ha convertido en un escondite del mundo problemático, en lugar de una plataforma de lanzamiento para afrontarlo. El cálido abrazo de una comunidad con valores éticos reales y normas de comportamiento que no patean lo más bajo ha colonizado por completo nuestros mecanismos de recompensa que nos hemos vuelto hacia adentro. Nos centramos en vigilar nuestra comunidad en lugar de persuadir a los forasteros.

No me malinterpretes, absolutamente hay un lugar para responsabilizarnos unos a otros y trazar líneas, no estoy diciendo que debamos tolerar el abuso de alguna basura kumbaya de “¿por qué no puedes ser amable con tu violador?” No estoy diciendo que no debamos mantener líneas absolutas contra el avance de políticas horribles como los tanques, los nazis y los eco-extremistas como ITS. Necesitamos algún tipo de base desde la cual mover el mundo y un lugar al que retirarnos cuando sea necesario. Pero la extrema derecha en realidad tiene algo que los anarquistas han perdido en gran medida: una sensación de posibilidad. El mundo les parece embarazado, un lugar donde sus sueños locos pueden hacerse realidad. Y por eso están buscando cualquier vía posible para cambiarlo todo. Hemos olvidado en gran medida cómo hacerlo. Entonces, aunque la extrema derecha es ingenua y estúpida, todavía están tirando todo contra la pared para ver qué se mantiene. ¿Cuándo fue la última vez que los anarquistas hicieron algo nuevo?

El bloque negro, por ejemplo, se ha convertido en un eco hueco de un eco vacío, un significante deformado por la mitificación de media docena de generaciones radicales. El anarquismo se ha empapado de convenciones y obligaciones. Un montón de niños de la generación Tumblr solo se bloquean porque lo ven como un ritual necesario para pertenecer a la comunidad. Mientras que el bloque alguna vez tuvo una cultura de seguridad innovadora cuando todos inventaban cosas por primera vez, ese conocimiento se ha descartado casualmente. Cosas como Pastel Bloc demuestran cuán profundamente se ha reducido el bloque a un ritual al servicio de la comunidad en lugar de una herramienta al servicio de lograr una mierda.

No estoy tratando de ser un viejo anarquista malhumorado que sermonea a los niños sobre el respeto adecuado del césped, la construcción de comunidades tiene un valor y aprecié el juego estético de Pastel Bloc como todos los demás, pero quiero cierto nivel de claridad sobre las asimetrías. jugando. Nuestras fortalezas, nuestras debilidades y las cosas a las que quizás lamentablemente hemos renunciado.

Y también quiero advertir que, si la organización antifascista tiene un modo de fracaso demasiado formalizado e insular, también tiene un modo de fracaso “demasiado expansivo”.

A medida que personas que antes no estaban involucradas en el trabajo de Antifa se han apresurado a defender el término, ha habido un impulso para ampliar Antifa como una amplia coalición o movimiento de izquierda en construcción. Estoy profundamente inquieto por este enfoque, tanto porque considero poco estratégico y peligroso intentar ampliar los objetivos del antifascismo como porque, como anarquista, considero la “unidad de izquierda” una trampa. Los anarquistas no tienen nada en común con los comunistas autoritarios, han sido nuestros enemigos desde el principio. Es cierto que muchos antifa establecidos se han pronunciado en voz alta en contra de esto, pero, aun así, la situación es peligrosa.

Permítanme ser absolutamente claro en esto: los anarquistas deben oponerse clara y públicamente al autoritarismo comunista. Antifa no puede quedarse (y afortunadamente no está) callado cuando se trata de denunciar a quienes fetichizan algunos de los estados más atroces de la historia de la humanidad porque hicieron algunos ruidos superficiales sobre la liberación de la clase trabajadora. Además, es necesario exponer y resistir la organización y el entrismo de los monstruos que menosprecian y defienden los genocidios cometidos por los regímenes comunistas, tal como lo hacemos con los fascistas. Si esto no se va a hacer específicamente bajo la etiqueta de “antifa”, entonces, como han sugerido muchos anarquistas, también deberían formarse grupos de acción antitanques. No ser fuertes y moralmente consistentes en esto permite a los fascistas y sus aliados ocultar su trabajo bajo el pretexto de enfrentarse al comunismo autoritario (y equivocarse entre los horrores de los leninistas y aquellos como los anarcocomunistas que murieron luchando contra ellos). Esas camisetas de “acción anticomunista” vendidas por fascistas que fetichizan el asesinato de disidentes en helicóptero por parte del régimen tiránico de Pinochet han sido eficaces para intensificar un avance autoritario mediante el cual los autoritarios de derecha y de izquierda pretenden ser la única respuesta viable entre sí.

Sí, se necesitarán muchas cosas para detener el fascismo, definido en un sentido amplio, pero existe una inmensa utilidad estratégica en que el activismo antifascista siga siendo muy específico y relativamente definido. Cuando los liberales de izquierda en Twitter dicen que “querer asistencia sanitaria universal o la condonación de la deuda estudiantil es antifascismo”, le hacen un flaco favor a la causa del antifascismo. El fascismo constituye un peligro muy distinto y específico; Hay muchos otros peligros o cosas objetables en este mundo. Enturbiar las aguas: presentar el antifascismo como una lucha entre izquierda y derecha (¡ahora con peleas callejeras!) favorece directamente a aquellos fascistas que intentan desesperadamente atraer al resto de la derecha para que abrace el fascismo absoluto. Sí, por supuesto, el Estado de vigilancia neoliberal constituye una inmensa amenaza, al igual que la conquista imperial neoconservadora. Pero se trata de cosas distintas que funcionan de manera diferente y deben abordarse de manera diferente. El pequeño placer que se obtiene al poder calumniar retóricamente a otros enemigos con la etiqueta de “fascista” a veces simplemente no vale la pena.

Estas críticas pueden parecer un conflicto amplio (por un lado, creo que Antifa ha tropezado porque librar una guerra por el alma de nuestra sociedad que se tambalea al borde del autoritarismo absoluto a través de un conflicto electoral partidista está mucho más allá de su alcance y experiencia) Por otro lado, me preocupa profundamente que Antifa sea subsumido y apropiado como un grito de guerra para unificar y movilizar a la izquierda como movimiento. Pero creo que hay un camino relativamente sencillo que evita estos escollos.

Los grupos antifa formales deben mantenerse enfocados y precisos: la gente debe hacer que sea absolutamente imposible que los medios centristas combinen una manifestación anti-Trump y grupos antifascistas. La cuestión de cómo responder a Trump ha torturado a los escritores antifa desde que entró en las primarias. Mi opinión es que si el autoritarismo de Trump y su base más ferviente son formalmente fascistas es algo académico e irrelevante. Pelar a los fascistas entristas conscientes de sí mismos de los 60 millones de votantes de Trump es una cuestión existencial. Literalmente todos morimos si fallamos en ese frente.

Una guerra civil real no será como piensan los nazis y los idiotas del Partido Republicano sedientos de sangre, pero ambos bandos perderán profundamente en un conflicto civil. La derecha del “ven a mí, hermano” no tiene ni puta idea de en qué se estaría metiendo o del alcance del apoyo, los recursos, las habilidades y la indomabilidad que los izquierdistas, anarquistas e incluso muchos liberales realmente aprovecharían. En parte debido al aislamiento que la derecha ha elegido de cualquiera que esté a la izquierda de Limbaugh. Pero el bebé quedaría partido por la mitad. Lo más probable es que algún vestigio tecnocrático centrista del aparato estatal emergiera como vencedor tiránico empapado de sangre. No hay futuro en ese camino donde lo que se gana vale la victoria. Por supuesto, debemos hacer preparativos, nadie dice que los anarquistas deban dejar las armas o dejar de entrenar, pero lo ideal sería prepararse precisamente para evitar un conflicto tan prolongado.

No me malinterpreten, si queremos ver un mundo mejor, inevitablemente surgirán momentos en los que la violencia será necesaria. Donde los políticos son arrastrados pataleando y gritando desde sus posiciones de poder para que no destruyan el mundo para mantener su dominio. Pero el conflicto violento no es un objetivo en sí mismo; debe ser atenuado por una estrategia y una ética diligentes. Las comodidades económicas de la concentración colectiva en equipos no compensan el daño a largo plazo que puede surgir de su mal uso.

En mi opinión, necesitamos dos frentes: necesitamos un anarquismo político aumentado por un antiautoritarismo más amplio (con objetivos más suaves como la abolición de las prisiones, las fronteras y la policía) que salga y encuentre cualquier forma concebible de convertir a siete mil millones de personas al anarquismo dentro de dos décadas, que construye un movimiento de masas estigmérgico y la infraestructura descentralizada resiliente para una resistencia seria. Y necesitamos un segundo frente que se adhiera exclusiva y pragmáticamente al cáncer fascista explícito para que no haga metástasis, haciendo precisamente lo que los grupos antifa siempre han investigado, expuesto, organizado y enfrentado. Este segundo frente necesita hacer cosas como trabajar con el Partido Republicano, los libertarios, los furries o lo que sea para alejar a los entristas nazis de ellos. Debe ser increíblemente pragmático y preciso. Menos interesados ​​en cuán pura es nuestra propia comunidad que en lo que podemos hacer para limitar los daños en el mundo.

Aunque, por supuesto, parte del pragmatismo es reconocer los límites de la capacidad de uno para alterar o dirigir las reacciones de millones de personas indignadas por el deslizamiento de nuestro país hacia el fascismo y con un vocabulario limitado para expresar esa indignación.

No tengo tan claro cómo abordar las cuestiones de la representación colectiva y la elaboración narrativa. En este momento, los grupos antifa publicarán denuncias absolutamente devastadoras… y, en el mejor de los casos, obtendrán del orden de cien o mil acciones en Twitter, mientras que los fanáticos de las conspiraciones de extrema derecha obtendrán cientos de miles. Ese tipo de marginación es absolutamente insostenible. Las críticas a las políticas de respetabilidad sólo llegan hasta cierto punto: si los antifascistas no hacen más para ganar la narrativa entre el mundo más amplio de normativos y reaccionarios –o al menos perderla de manera menos aplastante– las tonterías fascistas podrían normalizarse entre literalmente decenas de millones, y luego todos morimos.

Sitios como It’s Going Down y Anti-Fascist News han comenzado a asumir el papel de elaboración narrativa, ni como anarquistas genéricos que luchan en una lucha más amplia a largo plazo ni como grupos antifa altamente específicos que hacen la clasificación, pero estoy preocupado en algunos puntos de esta fusión. de funciones muy diferentes. IGD agrupa a grupos antifa locales, pero también impulsa material de construcción de movimientos genéricos y contenido no antifa de maneras que pueden enturbiar las aguas. Esta gente hace un buen trabajo, pero desearía que se transmitiera una distinción más clara entre los grupos antifa tradicionales altamente profesionales y el “movimiento antifascista” genérico que todos quieren construir ahora. Y desearía que la gente dejara de secuestrar el antifascismo para causas más amplias o para avivar la identidad de un equipo radical o de izquierda cuando ese marco impide cosas como la colaboración pragmática con el Partido Republicano para expulsar a los nazis en Minneapolis. Más que nada, desearía que hubiera alguna manera de incorporar buenos equipos de medios con mentalidad de estrategia narrativa nacional a los grupos antifa más antiguos, y que el nebuloso “movimiento antifascista” genérico más allá de estos grupos antifa se centrara más en el fascismo y tomara en serio ganar la presidencia. Guerra memética por los corazones y las mentes entre las decenas de millones de personas entre las que los nazis buscan reclutar.

Reconozco que esta mierda es complicada y que la gente ya está dando pasos adelante en muchos aspectos, pero solo digo que enfatizaría el ámbito de la elaboración de narrativas públicas, además de tratar de trazar líneas claras en torno al antifascismo para hacerlo capaz de tener un alcance más amplio y menos encajables en las tensiones partidistas dominantes.

Diré que admiro que, como proyecto anarquista genérico, Crimethinc haya sido algo cauteloso a la hora de apropiarse del manto de “antifa” de quienes hacían ese trabajo antes de que al resto de nosotros nos importara demasiado. Y me encanta la presencia de NYC Antifa en Twitter : sarcástica, aguda, cargada de evidencia, explícitamente anarquista, muy estrecha con respecto al trabajo antifascista tradicional, además de capaz de difundir historias más ampliamente. Casi jodidamente perfecto en todos los sentidos. Un saludo absoluto para ellos.

Desafío a los críticos de Antifa

Reconozco que no importa qué tan bien exponga mis puntos aquí – incluso si tengo absoluta y obviamente razón – un buen número de personas están tan profunda e instintivamente repugnadas por la idea de la violencia preventiva o de ponerse del lado de algunos activistas subculturalmente ajenos. Les digo que preferirían vivir en disonancia cognitiva.

¡Bueno!

En Gran Bretaña, antes de la Segunda Guerra Mundial, había unas cuantas personas de tendencia liberal que defendían firmemente la no agresión y la protección de la libertad de reunión, pero que, sin embargo, reconocían que cualquier pequeña erosión de las normas liberales que los antifascistas pudieran causar, los fascistas literales estaban decididos a abolirlas todas. Así que iban a mítines fascistas, los abucheaban y luego se defendían cuando los nazis inevitablemente intentaban pisotearlos o matarlos. Como consecuencia de su postura reactiva, a menudo fueron mucho más golpeados que otros antifascistas, pero afirmaron que su demostración de autoridad moral valía la pena.

Por supuesto, uno puede criticar los enfoques antifascistas populares sin arriesgar su propia vida. Una crítica válida sigue siendo válida independientemente de quién la exprese. Pero algunas críticas sonarían más fuertes si quienes las expresan fueran demostrablemente serios acerca de la amenaza que representan los grupos fascistas/nacionalistas blancos (también ayudaría a muchos críticos si demostraran una familiaridad básica con el activismo y los grupos antifascistas reales, aunque me doy cuenta de que eso aparentemente parece un puente muy lejos.).

Así que mi desafío para todos nosotros en la galería del maní es este: si usted está sinceramente horrorizado por el regreso del fascismo/nacionalismo blanco y sus esfuerzos organizativos, si su corazón se contrae por el miedo y la indignación, entonces haga lo que crea que es permisible para luchar contra ellos. Si la única táctica antifa a la que te opones es la lucha callejera, entonces forma tu propio grupo antifa (o como quieras llamarlo) que explícitamente haga todos los informes y boicotee la organización sin la lucha callejera. Si a lo que te opones es que la gente de vez en cuando dé el primer golpe, reúne a tus amigos y forma un grupo que se presente solo para brindar fuerza defensiva. Y tal vez, sólo tal vez, llegues a la misma conclusión que cualquier otro activista antifascista.

Pero lo que es aún más importante, si valoras la libertad, debes reconocer la situación: el Estado y Trump en particular van a demonizar el antifascismo y utilizarlo como un hombre del saco para justificar una represión estatal cruel y generalizada. Como no pueden conformarse con identificar a un par de personas que lanzaron puñetazos en un parque, intentarán reprimir a los cientos de miles que se identifican o hablan abiertamente como antifascistas. Es imposible vigilar cómo protestan todos sin volvernos autoritarios y unificados artificialmente. Recordemos que las pocas riñas y enfrentamientos antifascistas han sido parte pálidas en comparación con lo que estuvo presente en el movimiento por los derechos civiles, a pesar de que la historia fue saneada. Hay espacio para esperar que nuestras voces convenzan a algunas personas de dejar de hacer cosas que consideramos contraproducentes, pero este impacto es, en última instancia, pequeño. Mientras que el impacto de las voces que se unen a la narrativa estatal de que los antifascistas son terroristas que deben ser reprimidos es mucho, mucho más dañino para la causa de la libertad.

Por eso, insto a que se tenga mucha precaución y, como mínimo, matices explícitos y destacados al hacer críticas a Antifa. Obviamente ningún libertario puede respaldar que se clasifique a los activistas antifascistas como terroristas. Obviamente ningún libertario puede respaldar la represión policial contra los activistas antifascistas. Pero los libertarios y otras personas sinceramente a favor de la libertad deben ser explícitos al respecto cada vez que se plantea el tema. Al menos de la misma manera que nos sentimos obligados a equiparar “el gobierno de Corea del Norte es terriblemente malvado” con “una guerra con Corea del Norte también sería terriblemente malvada”.

Muchos liberales, libertarios y centristas han tratado de refugiarse en el marco de que “ambos lados son malos”, pero seamos absolutamente claros: si los antifascistas son malos al tratar de reprimir a los fascistas (sin siquiera utilizar al gobierno), entonces cualquier indicio de que el gobierno está reprimiendo Los antifascistas serían mucho peores.

En el peor de los casos posibles, los antifascistas normalizan una cultura antiliberal en la que los universitarios gritan y ocasionalmente golpean a cualquiera que consideren problemático. Esto sería malo, sin duda, pero cualquier aumento del poder del Estado policial lo eclipsa por completo. Algunos “SJW” exagerados y contundentes serían una molestia, no una amenaza existencial a la libertad misma, mientras que la necesaria amplitud de una campaña estatal contra los “antifas” sería la sentencia de muerte de cualquier esperanza.

Todos entienden eso, ¿verdad?

Incluso si Antifa está técnicamente “equivocado”, siguen siendo fundamentalmente mejores que casi cualquier otra persona, y su supresión desencadenaría una pesadilla de represión estatal para todos los demás anarquistas y libertarios.

Ningún grupo o activista antifa de larga data ha pedido una legislación sobre crímenes de odio o que la policía haga cumplir la tiranía. De hecho, parte de la razón por la que los conservadores han llamado “grupos de odio” “terroristas” a Antifa y BLM es precisamente porque no confían en el estado policial y quieren restarle poder para oprimir, no expandir o redirigir ese poder.

Cualquier crítica a los antifascistas debería comenzar elogiando esa decisión.

A pesar de ese grandilocuente eslogan en Berkeley, la lucha antifascista obviamente nunca ha abrazado literalmente “cualquier medio necesario”; después de todo, volar el planeta es un “medio” por el cual podríamos detener el fascismo. Cabildear para que se apliquen leyes sobre crímenes de odio y poder policial para detener a matones callejeros neonazis también sería un “medio” para derrotar al menos esa expresión del fascismo, pero es claramente intolerable e inverosímil. Incluso según la evaluación más poco caritativa, los antifascistas son mucho menos autoritarios que el liberal promedio, ya que los liberales están más que felices de decir “debería haber una ley” o “llamar a la policía” en respuesta a estas bandas neonazis.

En cualquier caso, si volteas una mesa de reclutamiento militar pero no una mesa de reclutamiento nazi, eres inconsistente o tremendamente ingenuo ante la amenaza de las organizaciones fascistas. Y si de alguna manera te opones a darle la vuelta a la mesa de un reclutador militar, entonces no eres anarquista ni libertario en ningún sentido significativo o consecuente.

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Italian, Stateless Embassies
Il Capitale, la Mappa e il Territorio

Di Kevin Carson. Articolo originale: On Capital, Maps, and Terrain, del primo novembre 2023. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Mi è capitato recentemente di leggere su Twitter questo classico di Arthur Chu:


(Traduzione: “Il capitalismo fa il tuo iPhone”. No, è il LAVORATORE che fa le cose, quali che siano gli -ismi. Gli -ismi servono solo a stabilire a chi vanno i soldi.)

Ad ogni sua comparsa sui social, sull’osservazione piove un diluvio di repliche del tipo: “i lavoratori non farebbero niente se dovessero farsi da sé gli strumenti di lavoro”.

A giugno scorso, a corredo di una serie di articoli che celebravano la nascita di Adam Smith, Reason ha pubblicato una vignetta di Peter Bagge in cui si vede il fantasma di Smith che origlia un dialogo tra Karl Marx e Friedrich Engels. Engels proclama enfaticamente (sogghignando e battendo i pugni): “La proprietà privata è destinata a scomparire… saranno i lavoratori a gestire le fabbriche per conto proprio.” Al che Smith perplesso replica: “Davvero? E come? Come faranno a farle andare, ad espanderle e a migliorarle? Non serve il capitale?”

Un meme comparso di recente su Facebook parla di un lavoratore che sforna 3.000 pezzi l’ora ma che con un’ora del suo stipendio può acquistarne solo uno. Moltissimi i commenti del tipo: “Vero, ma usa macchinari da 100.000 dollari”, “ma lavora con un impianto da 25 milioni”, e ancora “non si possono fare 3.000 pezzi l’ora senza i macchinari e gli impianti di qualcun altro”… Insomma, le solite risposte che saltano fuori automaticamente quando c’è da difendere il ruolo dell’“investitore” in qualche meme del genere.

A sentire chi parla del ruolo indispensabile del capitale, sembra che siano i capitalisti stessi a creare le macchine dal loro denaro.

In realtà sono i lavoratori che “producono da sé strumenti e componenti”; o meglio, se li producono vicendevolmente. Ogni passaggio del processo produttivo, non solo la costruzione di macchine per le fabbriche, ma tutto quanto fino all’estrazione delle materie prime, è fatto da persone che agiscono sulle cose, che applicano la propria opera o a risorse della natura o a beni prodotti dagli uni per gli altri. Il denaro degli investitori non è altro che un diritto costituito socialmente che dà il potere a qualcuno di coordinare e distribuire i flussi produttivi dei vari gruppi di lavoratori che operano sui beni naturali.

Ora ammetto che “costituito socialmente” non significa in sé illecito. La liceità del diritto (sulla carta) di controllare strumenti di lavoro, materiali e flussi produttivi è una questione a parte. Ma anche se se ne ammette la liceità, non cambia il fatto che ciò che il capitalista o il datore di lavoro “offrono” è sostanzialmente la possibilità di controllare l’accesso ai beni fisici prodotti dai lavoratori. In altre parole, detto in termini crudi, la realtà è quella descritta da Arthur Chu: è il lavoratore che fa ogni cosa, dall’inizio alla fine.

Nel tentativo di controbattere a Chu, i sostenitori del capitalismo confondono la mappa col territorio. Quelli come Peter Bagge vedono nei beni strumentali una sorta di fattore indipendente che proviene da qualche fonte ultima che non è il lavoratore. Ma questo non cambia il fatto che tutto, e dunque anche i beni strumentali, è il prodotto dell’azione del lavoratore sulle risorse naturali. Il “capitale” rappresenta solo la proprietà che dà il diritto di controllare i flussi produttivi. Tornando alla metafora della mappa e del territorio, il lavoratore che applica la propria azione sulle risorse naturali è il territorio, mentre il capitale, e tutti i vari -ismi, non è che una mappa che si sovrappone al territorio.

Se poi il diritto di proprietà dà o meno al capitalita il diritto di coordinare la produzione e pretendere una paga per questo suo “servizio”, questa è un’altra questione, a cui i difensori del capitalismo rispondono affermativamente citando cose come “l’astensione dal consumo”, “l’attesa” o la “preferenza temporale”. Tesi che non reggono a un’analisi approfondita.

È significativo che gran parte delle apologie partano con un esperimento mentale in cui, come Robinson Crusoe, qualcuno casualmente possiede un bene e altrettanto casualmente assume qualcun altro per farci qualcosa; oppure si tratta di qualche costrutto teorico che niente ha a che fare con la storia del capitalismo.

Indagando sulle radici storiche e istituzionali del diritto (sulla carta) di disporre delle risorse materiali che passano da un gruppo di lavoratori ad un altro, vediamo che (così come il diritto del feudatario di essere ricompensato per il “servizio” di “offrire” la terra a chi la lavorava) scopriamo un illecito basato su un furto originario. Il “contributo” che il capitalista offre alla produzione dipende dalla sua capacità di impedire tale produzione (Thorsten parla di “disservizio capitalizzato”), capacità che a sua volta dipende da una particolare distribuzione del potere in una data società. La ricchezza, su carta, che giustifica la “proprietà” dei mezzi di produzione, così come il sistema creditizio che rende necessario l’“investimento” affinché i diversi gruppi di lavoratori si scambino i propri flussi produttivi, non sono più leciti del diritto alla terra del feudatario.

Le origini della ricchezza, così come la sua concentrazione strutturale, hanno perlopiù alla base o le chiudende (enclosure) o ad una rendita continuata resa possibile dalla scarsità artificiale o dai diritti di proprietà artificiali garantiti dallo stato. Oggi quasi tutto il profitto viene da rendite economiche di vario genere non da lavoro. Come la rendita data dalla proprietà assenteista della terra, una proprietà concentrata per effetto dello storico annullamento del diritto alle terre comuni dei contadini e del conseguente esproprio di massa, a cui si aggiungono i profitti del monopolio dei brevetti. Ma, cosa forse più importante, il presunto bisogno di “capitale” fornito dagli “investitori” al fine di produrre qualcosa, è opera di un sistema creditizio che vede nel denaro e nel credito qualcosa da “offrire in prestito” su un retrostante costituito da ricchezza accumulata, e non un semplice meccanismo contabile che coordina i flussi produttivi.

Chi cerca di giustificare la proprietà e il profitto capitalisti con ragionamenti simili a quelli di Bagge, giustifica anche, senza saperlo, i socialismi di stato come quello della vecchia Urss. Anche in Unione Sovietica ai lavoratori era preclusa la produzione senza i macchinari e le fabbriche, che erano dello stato. Anche qui dunque vale la critica della sinistra anarchica e socialista sulla proprietà e il profitto capitalisti, per quanto in questo caso proprietà e potere siano prerogativa dello stato. Il fatto però è che in qualunque sistema, che sia capitalismo aziendale o socialismo di stato, a produrre macchinari e fabbriche sono i lavoratori con la loro azione sulle risorse naturali.

Insomma, bisogna abolire ogni diritto di proprietà, ogni regime di scarsità e ogni altra pretesa istituzionale che l’uomo ha creato dal nulla per mettere una classe privilegiata nella condizione di “offrire” ciò che in realtà viene prodotto da altri. Al suo posto dobbiamo far nascere una società in cui tutti possano godere dei frutti dell’attività e dell’intelletto collettivo applicati a ciò che la natura offre liberamente.

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Feature Articles
Funding Worker Cooperatives: A Solution

Worker cooperatives have long been championed by anarchists, socialists, communists, Marxists, anti-capitalists, and post-capitalist types as a means to achieve worker-ownership and workplace democracy within capitalism. Not only does their internal structure of horizontal democratic decision making help to internally solve Hayek’s local knowledge problem, but, according to Democracy At Work,

[w]hen workers have a say in the business they work in, they are more invested and innovative. When given the choice, workers will self-invest in the business rather than paying high salaries for a select few. They will take collective pay cuts instead of making layoffs in an economic downturn. They will not vote to offshore their own jobs, or to pollute their own communities. By democratizing the workplace, the business will make choices that are for the benefit of the many, not the few.

Their biggest hurdle? Funding. So let’s explore three possible solutions that could be utilized individually or in combination: venture communism, cryptocurrency staking, and crowdfunding.

Venture communism is an idea proposed by Dmytri Kleiner and influenced by anarcho-syndicalist modes of organizing. It proposes the creation of venture communes to compete with venture capitalists. These venture communes, instead of providing startup capital in the form of cash in exchange for ownership stake, provide capital in the form of the means of production, buildings, and land in exchange for rent paid to the commune. This means that instead of compromising and creating a multi-stakeholder cooperative, the workers in each cooperative funded by the commune get to be 100% worker-owned and keep full control over the product of their labor as well as the profits derived from them.

And before you go complaining about the workers not owning the means of production in this scenario, that isn’t the case. Each venture commune is collectively owned by each and every member of the cooperatives it funds. This means that the rent they pay goes into a fund that they democratically control. Said fund can be used to fund other cooperative startups with excess profits being shared by all collectively. So workers own the means of production and the product of their labor and have a means to fund more worker cooperatives into existence. Even just two property-owning cooperatives joining forces could help to create and fund a venture commune. Even if they do not own the land and buildings they operate in, they can still collectively pool together their means of production and pay rent on that. Of course this model relies on the need for existing cooperatives to help fund the creation of new ones, but what do we do if we are starting from scratch?

This is where we can look towards the model provided by Breadchain. Breadchain is a collective federation of decentralized cooperatives. Members purchase BREAD with the stablecoin DAI. That DAI is then collected into an interest bearing AAVE lending pool with 100% interest earned automatically returning to the Breadchain in order to fund the cooperatives in the Breadchain Network. Members can retrieve the DAI they contributed at any point by trading in their BREAD, meaning that members can fund cooperatives purely off of interest without losing access to the funds staked. This allows people without much money to spare to still contribute money towards the creation of worker cooperatives without having to spend a single cent in the longrun, making it easier for working class folks to fund projects they wish to support. Pool together enough interested people, write up a similar smart contract, stake some cryptocurrency, and build up enough funding to start a cooperative together. But what if you don’t have the funds to stake on a project in the first place?

That’s where good old-fashioned crowdfunding comes to the rescue. Sites like comradery.co offer cooperative-focused crowdfunding services. Whip together a decent campaign with some fun perks for those who donate, anything from diy screenprinted shirts and patches to proof-of-donation NFTs, and promote the hell out of it. Partner it with a good promotional campaign and soon you’ll have enough money to kickstart your cooperative with enough leftover to stake some cryptocurrency for sustained funding. Pretty soon you’ll have a network of cooperatives ready to form a venture commune and build up the cooperative agora. Here’s our chance to seize the means. Go forth and prosper.

Italian, Stateless Embassies
Come Contestare la “Voce Ufficiale” e Come No

Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 30 novembre 2023 con il titolo How and How Not to Question the “Mainstream Narrative”. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Per quei pochi che non lo sanno, Russel Brand, un tempo più o meno di sinistra, è uno di quelli che, come Naomi Wolf, ad un certo punto è diventato fornitore di materie prime degli scemenzai (crede nel complotto del “grande reset”, tra le altre cose). Da quando Brand è stato accusato di stupro, nei siti e social di destra i più grulli hanno cominciato a strillare che ce l’hanno con lui perché “contesta la voce ufficiale”.

Il capobranco dei complottisti Alex Jones, tanto per citarne uno, dice: “Adesso che dice cose scomode contro l’industria farmaceutica, i globalisti, il nuovo ordine mondiale, di colpo gli piovono accuse sul groppone.”

Tucker Carlson, beniamino di fascisti e di complottisti paranoici, dice qualcosa di simile: “Criticate l’industria farmaceutica, sollevate dubbi sulla guerra in Ucraina e state sicuri che qualcosa vi succederà.”

Ian Miles Cheong, non solo fascista dichiarato ma anche bugiardo incallito, considerato un profeta da quelli che seguono Andy Ngo e Dinesh D’Souza, proclama drammaticamente:

Hanno perseguitato Tucker Carlson perché ha detto la verità.

Hanno perseguitato Joe Rogan perché parlava della verità.

Hanno perseguitato Jordan Peterson perché dubitava delle loro verità.

Hanno perseguitato Julian Assange e Edward Snowden perché hanno rivelato la verità.

Hanno perseguitato Elon Musk perché ha permesso che si dicesse la verità.

E ora perseguitano Russell Brand perché dimostra che si può arrivare alla verità ponendosi delle domande.

Come Brand, Jimmy Dore è una persona con un passato di sinistra che oggi va in giro a stanare alleanze rossobrune tra “socialisti” e “fascisti”, uno che ama ripetere luoghi comuni complottistici propri della destra. Dice:

da quando quel cominco inglese ha cominciato a picchiare duro contro il potere costituito, sbugiardando l’opinione ufficiale riguardo il Covid, la guerra in Ucraina e l’imperialismo, gli hanno dichiarato guerra. Ora sappiamo che vogliono incastrarlo con una serie di dubbie accuse di stupro di fonte anonima risalenti a tanto tempo fa.

È chiaro “perché il potere costituito avrebbe deciso che Brand deve scomparire dalla scena.”

È lo stesso Brand a chiedersi: “C’è sotto qualche altra ragione?” E continua:

È soprattutto dopo aver visto gli attacchi coordinati dei media, come quando Joe Rogan ha osato prendere un medicinale disapprovato dai media tradizionali e ne ha ricevuto una condanna all’unisono con titoli molto simili, è da allora che capisco quello che da qualche tempo a questa parte continuate a dirmi nei vostri commenti: “Attento, Russell, stanno cercando di incastrarti, ti stai avvicinando troppo alla verità!” … Mi è chiaro, o perlomeno ne ho la sensazione, che esiste la volontà seria e concertata di controllare questi spazi e questo genere di voci, la mia voce ma anche la vostra.

Proviamo a immaginare la scena. Il leader di THEY dice: “Russell Brand si sta avvicinando troppo alla verità. Riguardo il Covid e l’Ucraina, mette in dubbio il discorso che abbiamo impostato sui media. Se continua a cercare la verità e fare domande, finirà per mettere in pericolo il nostro Nuovo Ordine Mondiale. Dobbiamo farlo sistemare come Epstein?”

E le élite dei media tradizionali rispondono: “Non c’è fretta. Forse possiamo estrometterlo come abbiamo fatto con Alex Jones e Joe Rogan. Gli orchestriamo contro una campagna basata su presunte vecchie violenze sessuali rivelate da fonti anonime.”

Uno scenario perfettamente plausibile visto il passato e il modo di operare delle istituzioni. Sarcasmo a parte, però, le citazioni che abbiamo riportato illustrano perfettamente la differenza tra una valida critica di sinistra e i complottismi di destra.

Una cosa è contestare la voce ufficiale diffusa dai media sulla base di analisi critiche come quelle di Noam Chomsky e Edward Herman, che conoscono il funzionamento delle istituzioni e i meccanismi di filtraggio. E una cosa completamente diversa è contestare la voce ufficiale perché un pugno di imbroglioni di destra che scrive sui social e qualche podcast urlato ti ha convinto che una cabala “globalista” si riunisce in uno scantinato per scrivere le veline.

G. William Domhoff, sociologo influenzato (tra l’altro) dallo studioso delle élite di potere C. Wright Mills, diversi marxisti e storici revisionisti della Nuova Sinistra, in un capitolo del suo The Higher Circles (“8. Dan Smoot, Phyllis Schlafly, Reverend McBirnie, and Me”) spiega la differenza tra il suo modo di analizzare le classi di potere e l’approccio adottato dai complottisti di destra. I complottisti ultraconservatori immaginano che a determinare la storia non siano considerazioni materiali come la classe o le strutture istituzionali, ma personalità cabalistiche (i Rothschild, il gruppo Bilderberg e simili) tenute assieme da ideologie esoteriche (il “globalismo”, gli “illuminati” eccetera).

Un esempio della differenza tra i due approcci lo vediamo nel discorso sulle origini della Federal Reserve. Esiste tutto un convincente corpus critico radicale sul ruolo delle banche centrali nel capitalismo, su come diventano indispensabili quando il capitalismo raggiunge un certo grado di sviluppo e sull’influenza dei principali capitalisti sul processo politico che ha portato alla nascita della Federal Reserve; vedi, tra l’altro, quello che hanno scritto James Weinstein, Gabriel Kolko, Martin Sklar e Domhoff. Per contro, troviamo il cliché diffuso a destra (mi è capitato di leggerlo proprio la settimana scorsa su Facebook) secondo il quale i “banchieri centrali” sarebbero al cuore di un ideologizzato complotto “marxista” che punta a centralizzare l’economia sotto il loro controllo. Inutile dire che di Marx ne sanno tanto quanto di banche centrali; o del cambiamento climatico, del conteggio dei voti, dei vaccini, tanto per dire.

In conclusione, i complotti esistono. Ma sono un epifenomeno, un effetto collaterale delle strutture istituzionali, non il motore della storia. E quando esistono, i complotti procedono seguendo coerentemente il funzionamento quotidiano delle istituzioni coinvolte. Quasi tutte le cose brutte che accadono nel mondo sono il risultato del funzionamento automatico delle strutture di incentivi e dei meccanismi decisionali istituzionali, e a metterle in pratica sono persone normali che per campare svolgono attività burocratiche di routine.

Noi anarchici vogliamo cambiare il mondo. Ma per farlo dobbiamo inquadrare il mondo reale, non una sua caricatura.

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Spanish, Stateless Embassies
Contra la atracción de la simplicidad y la desconexión

De William Gillis. Artículo original: Against The Pull Of Simplicity & Disconnect, del 2 de abril de 2017. Traducido al español por Vince Cerberus.

Alexander Reid Ross. Contra el avance fascista (AK Press, 2017).

A pesar del estereotipo de la derecha de que los activistas antifascistas son matones de mente cerrada o manifestantes pagados, en realidad la mayoría ha sido durante mucho tiempo bastante geek, proclive a llenar sus estanterías con oscuros discursos fascistas y abstrusos tomos históricos. Esto viene con sus propios problemas. El fascismo es un fenómeno multifacético, por decir lo menos, y diferentes hilos pueden fácilmente preocupar a un investigador durante toda su vida. Esto ha convertido los estudios fascistas en un caleidoscopio de detalles que pueden resultar intimidantes para los recién llegados y que se resisten a un resumen general. Entonces, todos tenemos suerte de que, en un momento en el que de repente todo el mundo está interesado, Alexander Reid Ross haya emprendido la hercúlea tarea de trazar una visión general de las corrientes históricas e ideológicas fascistas en una miríada de direcciones y lugares.

Ross saltó a cierta prominencia anarquista en el proceso de escribir Against The Fascist Creep cuando AK Press les pidió a él y a Joshua Stephens que investigaran al autor plataformaista sudafricano Michael Schmidt. El informe resultante en varias partes sobre las ocultas afinidades nacionalistas y racistas de Schmidt y sus subrepticios intentos de introducirlas en la teoría y práctica anarquista dominante fue inicialmente impactante y polémico para muchos. Si bien las conclusiones de Ross y Stephens fueron finalmente aceptadas como incuestionables, e incluso Schmidt finalmente las admitió en gran medida, el rechazo inicial que recibieron fue intenso. A pocos les gusta considerar un mundo donde el disimulo político y la tergiversación conspirativa sean cuestiones apremiantes en la teoría y las comunidades radicales. Es comprensible que el instinto de muchos sea retroceder ante la idea de realizar investigaciones al respecto. ¿Cómo vamos a protegernos si la gente puede acusar a otros de creer cosas en secreto? Casi todos en nuestra sociedad hemos tenido experiencias formativas con el pánico y el horror de los círculos sociales que cierran filas debido a acusaciones infalibles. Lamentablemente, la solución instintiva de rechazar todas y cada una de las acusaciones como “caza de brujas” y, en general, negarse a modelar dinámicas más profundas que las proclamaciones nominales de la gente puede abrir la puerta a daños mucho mayores, creando un entorno que no sólo encubre, sino que alienta a todos. forma de subrepticia. Una atmósfera tan cargada en torno a la erudición antifascista también puede dificultar la discusión fructífera de puntos de superposición ideológica, débilmente defendidos contra la entrada y la salida. Cuando – no importa cuán matizada sea la conversación – lo único que se escucha es “¡la mancha nazi está sobre ti!” Nadie quiere elaborar estrategias sobre formas de resistir mejor la invasión nazi en sus propias filas o ideas. Casi todo el mundo prefiere cerrar filas contra el cobarde acusador… incluso si cerrar filas significa unirse felizmente del brazo con los tipos con tatuajes nazis.

Schmidt fue un caso particularmente extremo porque su libro ahora descontinuado, Black Flame, se había convertido en una de las obras políticas más preciadas entre los anarquistas de tendencia roja o antiindividualista, famoso por despojar al anarquismo de su profundidad ética y diversidad filosófica, reduciéndolo a simplemente una tradición particular de resistencia de la clase trabajadora al capitalismo. En retrospectiva, ahora que sus motivos ocultos son universalmente reconocidos, tal movimiento retórico grita como un intento de desactivar el anarquismo contra el nacionalismo y el racismo que Schmidt buscaba inyectar en secreto. Sin embargo, Schmidt es sólo un ejemplo en un largo linaje de intentos de aquellos con políticas fascistas de infiltrarse y cooptar falsamente a la izquierda radical.

Quizás en parte como respuesta al rechazo que recibió en el caso Schmidt, Ross ha trabajado cuidadosamente para reducir el enfoque de Against The Fascist Creep a un enfoque de “sólo los hechos”. Esto es en gran medida (pero no siempre) exitoso; en algunos casos, los intentos de Ross de unir o agrupar rápidamente los hechos atómicos desnudos crean narrativas implícitas que oscurecen o tergiversan, y en algunos casos confunde los hechos. Against The Fascist Creep alcanza su mejor momento cuando presenta secuencias históricas directas. Su peor momento es cuando se reúnen una serie de asociaciones. Cuando Ross quiere hacer una rápida referencia a movimientos separados tan vastos como el libertarismo o el transhumanismo, a menudo tergiversa gravemente las cosas (ver al final de esta reseña algunos ejemplos divertidos), pero en su defensa, estos errores ocasionales parecen ser subproductos obvios de captar el enfoque externo de su investigación. Cuanto más se apega Ross a ramas directas del pensamiento fascista, más acertado y riguroso es.

En general, Against The Fascist Creep es un logro al hacer malabarismos con innumerables variables o dinámicas: una visión general decente y muy necesaria que, con suerte, dará más sustancia a los frenéticos discursos sobre el fascismo que se extienden hoy en día en la izquierda. La tesis central de Ross – que el fascismo es en muchos aspectos ideológicamente sincrético y oportunista – debería ser realmente innegable. Pero mucho depende de la moraleja que el lector extraiga de esta realidad.

Against The Fascist Creep es, desde su mismo título, obviamente inequívoco en su urgencia de tomar en serio la influencia progresiva del fascismo. Sin embargo, como consecuencia de la aspiración de Ross hacia un enfoque no controvertido de “sólo los hechos”, el análisis más allá de ese punto es escaso. ¿Deberíamos ver ese avance como un riesgo apremiante o inherente a cualquier transgresión de las categorías de izquierda y derecha? ¿Hay aspectos o subsectores de la izquierda o del anarquismo que sean un terreno más fértil para ello? ¿Qué aspectos del fascismo son más preocupantes o inherentes? Against The Fascist Creep hace propuestas para responder estas preguntas, pero proporciona pocos argumentos concretos.

Ross admite que el libro que terminó escribiendo no coincidía con sus perspectivas y suposiciones. Hay signos claros de tensión narrativa a lo largo del libro, entre secciones que opinan claramente en una dirección y secciones que terminan siendo más equívocas sobre los mismos temas. Está claro que Ross, como buen académico, estaba dispuesto a desafiar y desviarse de sus prejuicios iniciales. Against The Fascist Creep termina con culpas repartidas en todas direcciones, algo bastante justo en su evaluación de que cada tendencia ideológica tiene sus vínculos con el fascismo. Es de esperar que esto desafíe a los lectores, pero uno teme que la mayoría se lleve lo que quieran, centrándose en los vínculos de sus oponentes ideológicos mientras se estremecen, pero en gran medida descartan, los vínculos de su propio bando.

Ahora me gustaría hacer precisamente eso.

O, mejor dicho, me gustaría responder a lo que sospecho será la lectura más común de Against The Fascist Creep. Tendrás que perdonar este poco de sombra porque, si bien tengo la impresión de que Ross no tiene la intención total o nula de realizar una serie de lecturas, seguirán siendo lo suficientemente comunes dada la naturaleza del texto como para justificar una respuesta.

Por ejemplo, el torbellino de Ross a través de la historia del fascismo hace un trabajo maravilloso al ilustrar qué complicado desastre siempre fue “la izquierda” y cómo las corrientes del fascismo jugaron junto con muchas otras corrientes terribles que ya existían dentro de la izquierda. Como he argumentado , la verdad es que “la izquierda” no tiene un núcleo. Palabras como “igualdad” se dividen irremediablemente entre muchas interpretaciones irreconciliables, y todo el asunto es un revoltijo confuso: depende más de coaliciones políticas y demográficas que de la coherencia ideológica o filosófica. Sin embargo, al mismo tiempo, Against The Fascist Creep no puede evitar plantear las cosas en términos de que la izquierda está infectada.

Ross intenta desde el principio presentar estos cruces principalmente como resultado de que la izquierda no respondió adecuadamente a las condiciones materiales. Es una imagen bonita y popular: si tan sólo hubiéramos llegado primero a estos pobres blancos con nuestras mejores Biblias, habrían visto la luz y la derecha no habría podido reclutarlos robando tablas de nuestra plataforma, o presentar análisis inferiores. Pero esto es más una broma que algo útil. No digo que no haya mucho de cierto en esto, pero siempre sospecho cuando la izquierda activista concluye que ya hemos descubierto todo perfectamente y ¡solo necesitamos organizarnos más! Si vemos las cosas simplemente en términos de una fuerza externa que se filtra y mancha nuestras propias filas o ideología pura, entonces la única respuesta necesaria es formar filas y expulsar la invasión extranjera. La situación cambia si nosotros mismos nunca hemos sido puros: si la propia izquierda ha contribuido a la creación y al continuo resurgimiento del fascismo.

La narrativa de la corrupción es trivialmente correcta (los fascistas tienen un amor bien documentado por el entrismo a través de una autopresentación falsa y un sincretismo oportunista) y peligrosa. Los humanos somos propensos a utilizar heurísticas simplistas cuando las cosas se plantean en términos de infección. Tales instintos pueden llevarnos en direcciones conspirativas, alegando que está en juego una agencia secreta donde, en cambio, podría haber habido un encuentro y una afinidad epistémica sincera. ¿Es el nacionalbolchevismo realmente un complot siniestro para corromper a la izquierda, o podría en realidad ser simplemente una purificación de lo que siempre fue el bolchevismo?

Los monstruos no necesariamente tienen que ocultar sus rostros o engañar sobre sus intenciones; una buena parte de la izquierda siempre ha encontrado afinidad con semejante monstruosidad. Ross es honesto al respecto y brinda una serie de ejemplos de corrientes de izquierda que invitan felizmente al fascismo, contribuyen a su desarrollo o incluso se convierten por sí mismas (como el líder de la Facción del Ejército Rojo, Horst Mahler). Y la izquierda autoritaria está plagada de ejemplos. Sin embargo, la atracción general de Against The Fascist Creep sigue siendo ineludiblemente la de una izquierda buena y pura que se infecta y subvierte.

La otra cara de tal narrativa de corrupción es que asume una imagen más bien unidireccional de la política, o más bien no puede evitar leer situaciones liminales en ese flujo. Sin embargo, yo diría que el bien en sí mismo no es desdentado y perpetuamente condenado a estar a la defensiva. Somos capaces de reclutar e infectar parcialmente también. Éste es un hecho que la política de pureza popular en la izquierda actual olvida con demasiada frecuencia. Hay muchas situaciones en las que la historia es más propiamente una de perversión anarquista. Donde el movimiento hacia la izquierda de una figura ostensiblemente de derecha no es una cuestión de apropiación o síntesis de malas corrientes secundarias, sino de una sincera aceptación y conversión a algunos de los mejores aspectos de la izquierda.

Ross no puede evitar citar el origen del libertario de izquierda Karl Hess como redactor de discursos para Barry Goldwater de una manera que implicará para la mayoría de los lectores la adaptación de la coalición racista de Goldwater para intentar atraer a los izquierdistas de los años 60. Sin embargo, Hess rompió bruscamente con Goldwater por el reclutamiento y denunció el racismo del culto republicano a los “derechos de los estados”, rompiendo sus viejas amistades y uniéndose al SDS, los Panthers y la IWW. Estamos hablando de un hombre que luego trabajó para llevar tecnología de construcción propia y democracia participativa a su vecindario natal, mayoritariamente afroamericano. Lo que Hess muestra en todos los aspectos no es la contagiosidad del fascismo sino la abrumadora potencia del anarquismo. No una perversión criptofascista sino un anarquismo sincero y real, firmemente compasivo y dedicado a la libertad de todos.

El movimiento libertario moderno y muchas personas de derecha ampliamente descentralistas presentan un lío bastante complejo de corrientes en ambas direcciones, como tan maravillosamente demostraron las brutales luchas internas en torno a Ferguson. Así como encontrará conversaciones con lengua de serpiente sobre colaboración interracial que en realidad busca proteger el nacionalismo blanco o centrar las narrativas separatistas, también encontrará continuamente personas cuya empatía y curiosidad intelectual les hacen oponerse a sus círculos sociales e ideológicos. El amigo del III% de los motociclistas nacionalistas blancos que queda fascinado por la estructura racista y la historia de las leyes sobre armas y comienza a publicar videos enfáticos sobre cómo desafiar el privilegio de los blancos en sus redes sociales.

Desafortunadamente, la izquierda puede tender hacia un complejo de víctima uniforme que oscurece cuán potentes y verdaderas son nuestras ideas y valores. Reconocer la gravedad del avance fascista no obliga a una orientación emocional uniforme hacia el mundo. Deberíamos reírnos maniáticamente de alegría ante el poder aterrador y abrumador y la rectitud de nuestra causa. Somos nosotros los que nos hemos comido este mundo, los que hemos construido estas ciudades piedra a piedra, los que hemos masticado como ácido las tradiciones y prisiones a las que ahora aúllan pidiendo un regreso.

La nuestra no es una posición arbitraria y nuestras victorias no se construyen sobre arena. Los fascistas adoran la fuerza física bruta y el socavamiento troll de la verdad. Buscan llevar todas las disputas a esos ámbitos, precisamente porque los superamos enormemente en ideas. No deberíamos tener miedo de aceptar nuestra superioridad absoluta en ese ámbito, incluso cuando a veces también debemos responder a los fascistas en sus ámbitos preferidos.

Parte de ese nuevo enfoque en tener mejores ideas significa que sí, a veces algunas personas de derecha, en contra de su naturaleza, lograrán hacer algo realmente correcto. Aplastar a las camisas pardas fascistas en las calles y desbaratar sus esfuerzos organizativos no obliga a una actitud totalista sobre la pureza del equipo que prohiba todo otro tipo de compromisos.

Por supuesto que soy parcial aquí, estoy escribiendo en un grupo de expertos tristemente famoso por alentar el compromiso intelectual transgresor al servicio de los valores anarquistas. A primera vista, me parece absolutamente ridículo que dos coaliciones ideológicas construidas en el contexto del siglo XIX formen fronteras que coincidan exactamente con verdades políticas y éticas eternas y que nunca se encuentre nada de valor fuera de un amplio consenso de “la izquierda”. En particular, como anarquista de mercado, es mi opinión que el problema del cálculo/conocimiento (así como los conocimientos más amplios de la teoría de la información y la teoría de juegos) son un caso en el que nuestros adversarios ocasionalmente hacen que la ciencia aparentemente siga su camino hasta cierto punto: o al menos de ellos todavía son capaces de realizar investigaciones y descubrimientos honestos. Y es una misión personal mía llamar la atención de cualquiera que tenga mis valores sobre esto, para que no nos disparemos nuevamente en el pie, como lo hicimos al abolir la moneda en la revolución española. Dejar que los deportes de equipo ideológicos nos hagan temer reconocer cualquier cosa descubierta por el Equipo Malo sería encadenarnos a una secuencia interminable de nuevos lysenkoísmos. Donde la política de pureza de la izquierda abruma su sentido básico y crea tales cierres epistémicos que somos incapaces de ver hechos básicos sobre el mundo.

La cuestión de los cierres epistémicos nos lleva al problema siempre latente de llegar a un acuerdo sobre una definición de fascismo.

Ross caracteriza al fascismo como desconectado, sostenido por trucos de desvío ideológico en un complejo lío de intentos de síntesis que no llegan a ninguna parte. Creo que esto es parcialmente cierto. Ciertamente, es una queja común sobre escritores fascistas como el neorreaccionario Curtis Yarvin que entierran los pocos argumentos frágiles que realmente presentan en una serie interminable de humo y espejos autorreferenciales. Pero también estoy algo en desacuerdo. Creo que las tendencias fascistas actuales han madurado y se han adaptado más estrechamente a las realidades subyacentes que la basura, a menudo bastante arbitraria, de Mussolini y Hitler siempre estuvo dando vueltas y aprovechando. Las corrientes fascistas modernas, con su enfoque en la autonomía y el localismo, han purificado una aceptación más coherente de la “libertad negativa” (o la libertad de en lugar de la libertad para) que siempre ha estado al acecho y de la que el fascismo histórico era la expresión más pura en ese momento.

La definición de fascismo que utiliza Ross es la de ultranacionalismo patriarcal que busca destruir el mundo moderno y lanzar un renacimiento espiritual de una comunidad orgánica liderada por élites naturales y caracterizada por el tradicionalismo. Los detalles son incidentales, a menudo incoherentes y arbitrarios. Creo que esto es bastante exacto, y ciertamente mucho más cierto y útil que “cualquier gobierno claramente autoritario” o “una etapa del capitalismo donde la burguesía gobierna a través del terror”, o la sumamente estúpida pero inquietantemente popular “cualquier perspectiva totalizadora o universalizadora”.

Pero soy el tipo de persona que anhela definiciones más filosóficas que prácticas. Y yo diría que detrás de la dinámica ideológica que identifica Ross se esconden tendencias filosóficas más universales. El concepto de libertad supone una especie de identidad estática (algo que uno es, ya sea esencial o arbitrariamente), pero algo que debe defenderse de la perturbación, el cambio o la corrupción. Un enfoque y una valoración del ser en lugar del devenir. Cuando la libertad se convierte en sinónimo de aislamiento o preservación de algún estado del ser, se vuelve reconciliable con la jerarquía. Por supuesto, esto es fundamentalmente antiintelectual, ya que valora la autenticidad de la inmediatez por encima de la automodificación inherente al compromiso mental prolongado. Este enfoque en la inmediatez significa necesariamente una fetichización de la violencia y la fuerza física. Se convierte en una aceptación de la simplicidad y la hostilidad hacia la complejidad. Aferrarse a afirmaciones simples y despreciar las dinámicas emergentes complejas. Paradójicamente (pero sólo a primera vista), el fascismo siempre se ha involucrado en un llamativo posmodernismo posverdad como arma defensiva. La deshonestidad troll o abiertamente oportunista es un intento de desactivar el reino de las ideas de cualquier poder que pueda cambiarse a sí mismo. El fascismo trata las ideas únicamente como armas o herramientas desechables.

En resumen, creo que el fascismo ocupa un papel ideológico único en nuestro mundo, no sólo por sus injusticias históricas (el horror y el número de muertes de otros regímenes e ideologías históricos son comparables), sino porque hace sorprendentemente explícita la muy común ideología del poder en nuestro mundo. Nuestra sociedad. Se trata simplemente de seguir la noción increíblemente vulgar, común hasta en los deportistas de la escuela secundaria, de que el poder es 1) ineludible, 2) lo más importante y 3) que la fuerza bruta, tanto en el ámbito físico como en el social, es en última instancia el rey. El retrato que hace el fascismo de sus enemigos como poderosos y débiles al mismo tiempo es en realidad una historia moral sobre qué tipo de poder importa. El garrote del colectivismo nacional o racial es tan crudo como cualquier violencia pura.

Si bien el fascismo histórico a menudo ha girado en torno a particularidades como el antisemitismo, debemos recordar con qué narrativas y tensiones más profundas coexistieron sin problemas el odio hacia “El judío”. En este sentido, creo que las síntesis modernas de personas como Dugin y Preston son más coherentes que las de Mussolini y Hitler. Esto se debe (en parte) a que los fascistas de hoy son aspirantes más alejados de la sede del poder y sin un carisma crudo similar. Por lo tanto, están ligeramente más inclinados a intentar derribar algo más ideológicamente sustancial que el oportunismo desnudo. Pero aprovechan la misma filosofía subyacente de poder y “libertad de”.

Pocos, en sus fugaces momentos convincentes, creen sinceramente en tonterías alquímicas fascistas como una guerra mística entre la gente del agua y la gente del fuego (el pueblo cosmopolita de comerciantes y científicos versus el honorable y sencillo pueblo guerrero terrestre). Este tipo de construcción narrativa se realiza pura y conscientemente para perseguir la resonancia, no la verdad. Pero tal mitopoesis sí resuena en torno a una tensión más profunda y real entre la compleja y mutable conectividad del mundo moderno y el tipo de aislamiento simple y que permite la estasis que ellos, como animales rotos, anhelan que traerá una ruptura.

Por supuesto, este enfoque en la libertad negativa siempre ha sido fundamental para el fascismo y sus compañeros de viaje. Los discursos actuales de Alex Jones contra el globalismo son prácticamente inseparables de la propaganda del Tercer Reich, que se veía a sí mismo como liberando a los países de la mezcla corruptora de un mercado global y los cosmopolitas conspirativos que lo impulsan.

El fascismo actual, tras las adaptaciones de Evola y Benoist, se ha fusionado de forma más coherente. El horror ante la “homogeneización” niveladora de la civilización mundial refleja una objeción al cambio impredecible y extraño derivado del compromiso. La liberación se presenta como palingenesia al destruirlo todo y comenzar de nuevo. El retroceso del conocimiento y la espiritualidad ancestrales en lugar del compromiso nivelador de la modernidad. Lógicamente esto viene acompañado de un odio profundamente arraigado hacia los mercados libres y sus flujos desterritorializantes. Incluso aquellos pocos que originalmente surgieron de tradiciones capitalistas que hacen mucho ruido sobre el libre mercado adoran en el altar de las empresas titánicas: el reemplazo de dinámicas fluidas desordenadas con una jerarquía estructurada simple. Tribus paleolíticas o corporaciones monárquicas, los cuerpos sociales que adoran son fijos y distintos. A pesar de las pretensiones de anticomunismo, saben que su mayor enemigo es el mercado mismo.

La superposición casi total con el discurso anti civil ostensiblemente “anarquista” es casi evidente. El amor generalizado por Stirner entre casi todas las corrientes fascistas, que va en paralelo con la charla sobre aristocracias naturales y el desdén por el “mínimo común denominador”, está presente en los sectores más podridos de la posizquierda. Cuando fascistas modernos como Pierre Krebs declaran: “No nos interesan las facciones políticas sino las actitudes ante la vida”, uno no puede evitar sentir escalofríos. Y qué actitudes efectivamente. Cuando uno recuerda, entre otras innumerables conexiones, que John Zerzan y el lanzador de palabras con n Bob Black compartieron su editor Feral House con los nazis, y que anarchistnews. org de Aragorn publicó repetidamente “anarquistas nacionales” a pesar de la condena generalizada, el escalofrío debería convertirse en hielo. No porque esas personas sean racistas o nazis encubiertos (la mayoría claramente no lo son), sino porque a menudo parecen estar dando vueltas en torno al mismo drenaje, atrapados por algunos de los mismos atractores y sin interés en resistir la atracción. Desde la publicación de Against The Fascist Creep, Ross ha publicado un análisis bastante suave del avance fascista en estas corrientes de la posizquierda: expresado de manera mucho más amable y diplomática de lo que yo jamás sería, y durante mucho tiempo me he identificado como posizquierda, a menudo en los términos más tajantes posibles. (Por supuesto, la posizquierda es mucho más grande que los seguidores de un pequeño número de viejos señores marginales del norte de California, y probablemente se caracteriza más ampliamente en el movimiento anarquista por proyectos como Crimethinc y The Curious George Brigade). El artículo de Ross fue recibido, naturalmente, con una denuncia del ataque de un extraño a la tribu en lugar de una preocupación por los peligros de la corrupción fascista. Parte de esto es culpa de su lenguaje, que fue descuidado en Stirner y se prestó a interpretaciones narrativas radicales, pero es decepcionante ser testigo de las vueltas y defensas intragrupales a las que nosotros, ostensiblemente individualistas, hemos saltado en lugar de tomar su decisión. las provocaciones en serio. De hecho, variantes de “el fascismo no es tan malo” permearon la respuesta en el medio nihilista y los ecoextremistas se alegraron de aclarar que en su deseo de matar a toda la humanidad ven a Hitler como una medida a medias. Seguramente, incluso si Ross fuera un ideólogo falso (calumniando de manera oportunista y sumando puntos contra aquellos con quienes no está de acuerdo), este tipo de respuestas también merecen nuestra preocupación.

Si, como les gusta alegar a algunos críticos, los antifascistas simplemente están respondiendo a los horrores de ayer, documentando las consecuencias de una confluencia única en un solo momento histórico, entonces ese parece ser un argumento para tomar mortalmente en serio a aquellos que, como ITS, prometen explícitamente desatar atrocidades. históricamente incomparable. Si, con la explosión actual de nacionalistas blancos, simplemente somos testigos de los ecos desdentados y trivialmente condenados al fracaso de una lejana pesadilla nacionalista (una interpretación optimista que no comparto), ¿no deberíamos movilizarnos con toda su fuerza para, en cambio, identificar y apagar ¿Descubrir esas tendencias más nuevas y, en sus propias palabras, más monstruosas que pretenden surgir de forma independiente? Dudo que ésta sea una conclusión que quienes plantearon esta crítica en respuesta a Ross realmente quieran que lleguemos.

Aquellos entre los que reaccionaron contra Ross y que no abrazaron abiertamente el fascismo, como un niño de 13 años que se dibujó una esvástica en la cara para mostrárselos, parecían más preocupados de que Ross estuviera realizando una culpa por asociación en sus redes sociales. Por el contrario, considero que la crítica tiene que ver principalmente con ideología o filosofía. Deberíamos preocuparnos cuando una ideología comparte suficientes aspectos con el fascismo como para generar conexiones, entristas y fusiones. Pero realmente deberíamos   preocuparnos cuando la fuerza y ​​el atractivo de una ideología empiezan a provenir del mismo lugar que el fascismo, aprovechando el mismo marco u orientación filosófica subyacente.

No olvidemos que el odio hacia Ross comenzó con su exposición de un prominente plataformaista: la posición antiindividualista hiperorganizacionalista en el polo opuesto del posizquierdismo dentro del movimiento anarquista, que es frecuentemente criticado por ser más bien un comunismo autoritario suave. que el anarquismo. Si bien las inclinaciones personales de Ross se inclinan mucho más hacia la izquierda académica tradicional de lo que me siento cómodo, al menos es un crítico de la igualdad de oportunidades en su trabajo.

Against The Fascist Creep es un análisis ligero, ya que es más bien una encuesta, pero intenta delimitar dónde el fascismo encuentra puntos de encuentro con la izquierda o con movimientos ostensiblemente anarquistas. Creo que la conclusión es clara sobre qué tener en cuenta:

1 Un elitismo que pretende encontrar la liberación rechazando la reflexión ética con despidos de “el poder hace el bien”. A menudo, un elitismo populista que postula que sus seguidores son una aristocracia que reemplazará a la indigna.

2 Un culto a la violencia por la violencia misma. Un gran ejemplo es cuando el “espontaneismo armado” de anarquistas autoproclamados los involucró bombardeando a anarquistas.

3 Nacionalismo u otras formas de identidad colectiva como panacea. Donde se acepta acríticamente el trinquete del tribalismo o el hambre de una comunidad simple y cerrada.

4 Un antiimperialismo vulgar que se centra en algunas amenazas (“¡el imperio estadounidense debe ser derrocado!”) con total exclusión o negación de todas las demás.

5 Autoritarismo. Y en particular la afirmación de que el autoritarismo es todo lo que existe, que todo lo posible es autoritario y que la única opción es la dirección de su bota.

El hecho de que esta lista haya pasado de referirse a los nihilistas a referirse a los tankies (comunistas autoritarios) es quizás la dinámica más apremiante en la actualidad. Muchos posizquierdistas que alguna vez se definieron a sí mismos por su distancia del marxismo han vuelto, en los últimos años, a asociarse estrechamente con sus peores representaciones. La famosa proclama del fascista Alain de Benoist de que “es mejor llevar el casco de un soldado del Ejército Rojo que vivir a dieta de hamburguesas en Brooklyn” bien podría ser el espíritu de la época actual. Incluso los antiguos ancaps acérrimos, atrapados por la ola de extrema derecha y Trump, ahora dicen cosas similares.

La política de tendencia fascista parece estar en aumento en todas partes y, si bien soy un firme defensor del potencial de Internet, Ross sin duda tiene razón en sus afirmaciones de que esto tiene mucho que ver con la alienación y la reacción ante la erosión de los privilegios que se han acelerado con Internet. El aumento de tankies y nihilistas en línea (que a menudo comparten la misma cultura chan y avatares de anime que los nazis) ha tomado desequilibrados a todos los activistas de AFK que conozco. Si bien las respuestas completas a este levantamiento combinado son sin duda más complicadas de lo que se pueden abarcar en un solo ensayo, y obviamente hay a menudo conflictos intensos entre estas partes, los puntos de intersección parecen ser profundos.

Una vez más, espero que no me malinterpreten cuando digo que esta convergencia demuestra que están en lo cierto. Parece haber profundos atractores filosóficos en juego, y ciertamente dinámicas similares en el discurso, que gravitan hacia las posiciones más simplistas y provocativamente “vanguardistas”. Me siento tentado a llamar al fascismo (si se me permite la metáfora física) una especie de estado de menor energía en la ideología, con muchas líneas de idiotez convergiendo en él.

El fascismo puede ser mortalmente equivocado y, al mismo tiempo, ser coherente en un sentido repugnantemente “antipensamiento”.

Y sólo porque algunos de los que abandonaron el edificio histórico de “La Izquierda” terminen derribados y tragados por monstruos lovecraftianos no significa que debamos apegarnos a ese edificio que se hunde.

Si los paquetes parcialmente inestables de “izquierda” y “derecha” se están sacudiendo ahora, entonces me enorgullece un poco el hecho de que los anarquistas de mercado de izquierda de la “síntesis” hayan sido pioneros en líneas en el polo opuesto de la nueva síntesis fascista.

No es por nada que la Alianza de la Izquierda Libertaria y el Centro para una Sociedad sin Estado ocupan un lugar tan destacado como sujetos de burla en los memes de la extrema derecha. Los nacionalistas blancos nos señalan repetidamente como el mayor enemigo. Hemos trabajado firmemente para oponernos a sus nocivos esfuerzos desde mucho antes de que muchos en la izquierda le prestaran atención a la extrema derecha. De hecho, proyectos fascistas como TheRightStuff empezaron a odiarnos. Mientras muchos en la izquierda tropiezan y tartamudean tratando de distinguir su fetichización de la comunidad y la colectividad de la de la hidra de los fascismos modernos (“nacionalismo autónomo”, “nacional-anarquismo”, duginismo, etc.), nosotros nos hemos mantenido firmes en nuestra búsqueda de libertad para todos. Una libertad real, positiva, atractiva, conectada, dinámica y plena. Anarquismo en su forma más descarada, como globalismo descentralizado. Reconocer en el aislacionismo y el provincianismo formas de opresión que restringen y limitan la libertad de actuar, la libertad de construir relaciones e ideas más allá de todas las fronteras.

Los mercados son hoy, como lo han sido a lo largo de la historia, no un enemigo del antifascismo sino su polo más consistente. Los fascistas se sienten atraídos por el capitalismo (la promesa de una meritocracia de élite, una escalera al poder por la que se puede subir, empresas poderosas como comunidades absolutamente integradas y distintas) pero luego retroceden horrorizados ante la degeneración de los mercados. Reconocen en nosotros el ácido que ha carcomido sus tradiciones y naciones, que ha devorado la civilización occidental desde dentro, derribado las estructuras de poder que miopes intentaron esclavizar y dirigir nuestro ingenio hacia sus fines.

En el corto plazo, un bate de béisbol puede detener a un matón estúpido, pero en el largo plazo son los mercados y su dinámico cosmopolitismo colaborativo los que han reducido a polvo sus ídolos y esperanzas, y lo harán.

No prometemos poder totalitario como venganza, no ofrecemos membresía en una élite amoral, no seducimos con las garantías de una pertenencia a un grupo simplista. Todo lo que podemos ofrecer es una libertad cada vez mayor y más amplia y la aceptación de una interacción verdaderamente consensuada.

Mientras que el fascismo ofrece retirada y aislamiento como soluciones a esos mismos males, nosotros ofrecemos una liberación que cruza y transgrede fronteras. Nuestro compromiso de enfrentar los tentáculos del fascismo no es la defensa reactiva de una pureza imaginada, sino una parte necesaria de una vigilancia escrutadora.

Donde Ross se equivoca en la historia

No es sólo el análisis implícito de Ross el que suele resultar problemático. En ocasiones tergiversa la historia real. Rara vez se equivoca en los hechos más escuetos, y acierta con más frecuencia que en el marco histórico más amplio, pero comete errores.

Para dar un ejemplo inofensivo, Ross fecha el reposicionamiento retórico de la “alterglobalización” en un campo en 2003, pero yo y muchos otros estábamos haciendo ruido precisamente sobre este tema allá por 1999 en N30. Cuando tenía 13 años y estaba al final de una larga fase primitivista, gritaba consignas sobre cómo “otra globalización es posible” en Seattle, y ciertamente no fui original. Esto puede parecer completamente anodino, y el tipo de cosas por las que desea otorgarle caridad a Ross, debido a que no tiene pleno conocimiento del contexto social. Pero este es un gran ejemplo de problemas recurrentes a lo largo del libro. Existe una tendencia frustrante a vincular una serie de hechos y anécdotas interesantes con movimientos confusos que de facto construyen una narrativa muy clara. Los vínculos narrativos implícitos o explícitos nunca tienen su origen como los hechos individuales y, a menudo, son interpretables en términos generales en una dirección más restringida. Pero todavía está abrumadoramente claro cómo los leerá cualquier lector sin conocimiento del contexto.

Ahora siento simpatía por Ross. La mayoría de sus encuadres narrativos de los que tengo conocimiento contextual eran precisos. Es difícil escribir un libro tan amplio como este, y mucho menos sin décadas de estudio cuidadoso de todos los temas que uno estudia. Y esos panoramas tan amplios son tremendamente útiles. Necesitamos un canon más accesible sobre los movimientos, las ideologías y el entrismo fascistas. Pero siempre existe el peligro de este tipo de visión general, en la que resúmenes breves y rápidos seguidos terminan dando una especie de destello de reconocimiento de patrones que estimula la sensación de insight. En sus peores direcciones, esto puede convertirse en una especie de pornografía de ideas vacías, o incluso en el oportunista y superficial “¡Ajá! ¡Bad Thing A tiene esta conexión con Bad Thing B! Una especie de culpa por conexión al estilo Glenn Beck de la que todo el mundo siempre acusa a los investigadores de Antifa.

Nuevamente quiero ser claro; Siento una gran simpatía por el esfuerzo de Ross, creo que el libro resultante es muy necesario y, en general, bueno, y pienso lo mismo de muchos grupos antifa que realizan investigaciones valiosas y necesarias sobre los movimientos fascistas. Pero este libro engañará a la gente en algunos puntos, particularmente en un par de ellos cercanos a mis ámbitos de trabajo político y me siento obligado a resaltarlos y abordarlos.

Ross afirma que el “Partido Libertario de Ron Paul” rechazó el TLCAN y otros acuerdos de libre comercio simplemente en defensa de un libertarismo provinciano y aislacionista. No importa la absoluta rareza de referirse al Partido Libertario como posesión de Ron Paul, o hacer una fuerte identificación entre ellos (espero que Ross sea al menos vagamente consciente de que Ron Paul se postuló para la nominación republicana para competir contra un candidato del Partido Libertario las dos últimas veces). No nos andemos con rodeos: Ron Paul es un racista reaccionario que juega duro con el movimiento paleoconservador y es una representación perfecta de la nociva coalición que Rothbard intentó construir hacia el final de su vida entre libertarios y la derecha. Si alguien disparara a Paul y Rothbard en los años 80, es casi seguro que el mundo sería un lugar mucho mejor. Tampoco soy ni remotamente un fanático del Partido Libertario.

Sin embargo, el Partido Libertario se opone explícitamente al TLCAN y otros acuerdos de libre comercio con el argumento sincero de que en realidad impiden la globalización y aumentan la escala del poder gubernamental. El Partido Libertario y la línea libertaria sobre los acuerdos de libre comercio existentes han sido consistentemente que son dádivas para los ricos que privilegian a las grandes empresas, aumentan las regulaciones y restringen hipócritamente el movimiento de la gente. Los libertarios están abrumadoramente a favor de las fronteras abiertas y ésta también ha sido durante mucho tiempo la posición explícita del Partido Libertario. Y sí, las fronteras abiertas y la amnistía total fueron pilares explícitos de la plataforma del Partido Libertario en 1988: la única vez que Ron Paul se postuló para presidente como libertario. Además, recuerdo que los libertarios estuvieron presentes en Seattle en 1999, hablando en voz alta de que, si los acuerdos de libre comercio fueran sinceros con respecto a la globalización, tendrían tres líneas de largo y otorgarían ciudadanía a todos los que quisieran. Un par de ellos incluso nos ayudaron a luchar contra los policías antidisturbios.

No pretendo socavar la larga influencia de la atroz síntesis de Rothbard con los paleoconservadores. Por ejemplo, Ron Paul se hace eco de la crítica libertaria habitual de que los acuerdos de libre comercio en realidad no apoyan el libre comercio, pero no puede evitar soltar quejas acerca de cómo estos acuerdos son “globalismo” en términos conspirativos que les sientan bien a los nativistas y antisemitas. Esto encaja con la larga historia de Ron Paul haciéndose amable en la trastienda con los nacionalistas blancos, una historia que le ha provocado una fuerte condena desde dentro del movimiento libertario, pero que idealmente debería provocar un rechazo absoluto y total hacia él.

Sin embargo, es importante tener clara la historia. Al principio, Rothbard derivó conclusiones izquierdistas de su individualismo (por ejemplo, trabajadores y estudiantes tomando sus negocios y escuelas), pero luego retrocedió en una dirección hiperreaccionaria cuando sus primeros compañeros libertarios se fueron aún más a la izquierda. Por una combinación de razones, Rothbard se sumergió profundamente en el racismo y el nativismo y esto ha seguido siendo una corriente continua en el libertarismo desde entonces. Esto se puede ver más notablemente en el Instituto Mises, Lew Rockwell y Ron Paul, mientras que en general se oponen tendencias yuppies cosmopolitas más cercanas al centro del libertarismo como CATO y la revista Reason. Pero aquí hay todo tipo de líos. Jeffery Tucker alguna vez ayudó a Rockwell a escribir boletines racistas para Ron Paul, pero en los años transcurridos desde Tucker se ha transformado en un estridente antirracista y antifascista que lanzó el grito sobre Trump y la amenaza de los nacionalistas blancos mucho antes de que gran parte de la izquierda los tomara en serio.

Hablando de personas que se vuelven hacia la luz, lea este molesto pasaje de Ross:

“Hayek había sido influenciado por Othmar Spann, el teórico corporativista del Partido Nazi Austriaco de entreguerras, antes de pasar a la economía liberal de Mises. La Escuela Austriaca divergió del corporativismo español en la medida en que defendía la primacía de los mercados libres y las transacciones individuales en lugar de la planificación económica “universalista”.

Oh, básicamente divergió literalmente en todos los aspectos dignos de mención. ¿Explíquenme por qué es necesario en este contexto mencionar el hecho de que uno de los profesores de Hayek era nazi si Hayek terminó haciendo carrera denunciando todo lo que el notable Spann defendía? Claro, el individualismo metodológico de Hayek estuvo influenciado por la estridente oposición de Spann al individualismo metodológico. Pero este es un ejemplo de cómo Ross encuentra un hilo sin valor y lo incluye de todos modos.

Particularmente irritante es la cita de Ross sobre la sorprendentemente deshonesta afirmación de Mark Ames de que la revista Reason apoyaba el apartheid. No soy un fanático de Reason en general (aunque hay gente buena allí), pero si ese orgulloso violador e infame periodista amarillo Mark Ames te dijera que el cielo era azul, deberías mirar hacia arriba y luego hacerte un examen de la vista. En una conversación personal, Ross ha demostrado ser consciente de lo profundamente en la cama que estaba The Exile de Mark Ames con los fascistas, lo que hace que sea aún más molesto que Ross no haya seguido comprobando la afirmación de Ames, que ha sido destripada aquí .

Por supuesto, no es ningún secreto que las corrientes reaccionarias han infectado durante mucho tiempo al movimiento libertario y los fascistas se reclutan entre ellas. Yo diría que esto se debe a los dos atractivos completamente diferentes que la gente encuentra en el libertarismo: la defensa capitalista de jerarquías y privilegios frente a las defensas del mercado libre de un mundo hiperconectado de abundancia para todos. La combinación de estas dos filosofías totalmente antagónicas ha causado mucho horror que nosotros en C4SS hemos tratado de confrontar y exponer. Ninguna de mis defensas de los hechos reales debe tomarse como una apología de un entorno libertario profundamente problemático.

Pero es particularmente desalentador que Ross arruine las cosas con el otro mundo ideológico de nicho del que tengo un conocimiento inusual: el transhumanismo. Ross dice las cosas de esta manera desde el principio: “Otro de los proyectos de Thiel, el Machine Intelligence Institute, contrató al neorreaccionario Michael Anissimov como director de medios. El nicho particular de Anissimov es el transhumanismo, que se ha desarrollado como una forma de aceleracionismo reaccionario”.

Permítanme separar sólo estas dos frases (e ignorar los demás problemas que siguen en el libro), porque este pasaje es completamente erróneo.

Primero, para dejar de lado las trivialidades, el nombre real de la organización es Machine Intelligence Research Institute (anteriormente Singularity Institute for Artificial Intelligence). En segundo lugar, es profundamente engañoso llamar a MIRI “el proyecto de Thiel”, ya que es claramente el bebé de Eliezer Yudkowsky. Yudkowsky es a la vez su fundador y una figura hipercarismática que consiguió un gran número de seguidores por su cuenta. Si bien MIRI convenció a Thiel para que les diera un millón y medio de dólares y esto claramente ha sido una bendición para ellos, también tienen muchos donantes en el rango de medio millón y cien mil. Thiel es un idiota reaccionario, pero dadas las personalidades y egos involucrados, es absolutamente absurdo imaginar a MIRI recibiendo órdenes de él. Además – y aquí está lo importante – el MIRI se opone firmemente a la neorreacción. Contrataron a Michael Anissimov en 2009, antes de que “Neoreaction” existiera o Anissimov fuera identificado públicamente. En 2012, Neoreaction comenzó a intentar construir una presencia en los círculos transhumanistas (que en su apogeo ascendieron al 2,5%, o 30 de 1195 encuestados, de la comunidad más amplia de LessWrong que rodea y sustenta a MIRI). Yudkowsky y Scott Alexander (la única figura de LessWrong con influencia comparable) denunciaron en voz alta y prominente la neorreacción en términos muy claros y los neoreaccionarios fueron expulsados ​​de la comunidad. La hostilidad hacia la neorreacción era abrumadora en la escena. Alexander escribió publicaciones gigantescas atacando sistemáticamente el racismo y el autoritarismo de la neorreacción que siguen siendo hasta el día de hoy las críticas más vinculadas a la misma. En 2013, Anissimov comenzó a identificarse públicamente y a escribir como neoreaccionario en el blog MoreRight (originalmente un blog grupal antes de que esencialmente todos, excepto Anissimov, se fueran para identificarse como reaccionarios más primitivistas); MIRI reemplazó rápidamente a Anissimov y se distanció. En este punto, Anissimov intentó sintetizar transhumanismo y neorreacción en un ensayo que Ross cita, pero era claramente un ensayo a la defensiva contra una comunidad transhumanista que era abrumadoramente hostil hacia él (y una comunidad neoreaccionaria igualmente hostil al transhumanismo). De hecho, la afirmación central de ese ensayo (que se debe establecer una jerarquía intensa para impedir que la chusma/degenerados obtengan libertad a través del superempoderamiento tecnológico) es claramente un caso en contra transhumanismo a menos que tuerzas y contorsiones gravemente su significado. Esto, y su apoyo a los objetivos fascistas modernos del pansecesionismo hacia comunidades pequeñas y más fáciles de controlar (contra el espíritu de Internet y todo lo relacionado con las tecnologías de la información), es precisamente lo que finalmente llevó a Anissimov a abandonar la identificación pública con el transhumanismo. Anissimov sigue siendo persona non grata tanto en la comunidad Less Wrong como en el transhumanismo en general; Intentó colarse en un par de conferencias transhumanistas y lo programaron para un panel antes de que los organizadores supieran realmente quién era. Ese panel fue cancelado porque casi todos abandonaron la conferencia.

Llamar al transhumanismo una forma de aceleracionismo reaccionario es completamente erróneo. En primer lugar, el transhumanismo y el aceleracionismo provienen de filosofías y movimientos muy distintos. El transhumanismo se remonta mucho antes de que existiera el aceleracionismo, aunque en realidad recién comenzó en los años 80. Es la premisa muy simple de que los humanos deberían ser completamente libres de cambiar sus cuerpos y condiciones. Políticamente, fue iniciado por una mezcla de anarquistas de izquierda y libertarios de derecha, pero con su inmenso crecimiento en la última década se ha vuelto mayoritariamente socialista y liberal. La libertad morfológica es la plataforma central y única que define el transhumanismo; Cualquiera que apoye completamente la libertad morfológica es un transhumanista, todo lo demás son detalles. Esa libertad de aumento puede abarcar desde mejores métodos anticonceptivos hasta terapia de reemplazo hormonal, terapia génica, nanotecnología y colocación de un chip en el cerebro. Cada transhumanista desea personalmente cosas diferentes, algunos no desean tal aumento, pero piensan que la libertad debería estar disponible para todos. Históricamente, el transhumanismo moderno surgió principalmente como una posición entre el humanismo y una posición singularitaria oscura, como una especie de camino intermedio entre adorar algún tipo de sujeto humano estático y esencial y reemplazar abruptamente a la humanidad por completo con mentes hiperinteligentes que no tienen ninguna relación con nosotros. Así, el transhumanismo se desarrolló como la posición más moderada de autotransformación (a menudo gradual) mediante la cual los humanos individuales (así como otras especies sensibles) podían automejorarse y autoaumentarse como mejor les pareciera. El transhumanismo es una posición bastante simple que, en mi opinión, se desprende trivialmente de cualquier perspectiva antiautoritaria. Es profundamente antagónico a la política reaccionaria, de ahí el éxodo masivo de reaccionarios del transhumanismo cuando se dieron cuenta de que no podían digerirlo.

El aceleracionismo, por otro lado, es una amplia mezcla de posiciones vagamente asociadas, cuyo término se disputa entre diferentes bandos. Ross lo describe como una exacerbación de las “crisis” económicas, políticas, biológicas y tecnológicas hasta el punto del colapso. Esta es más o menos la definición propuesta por Benajamin Noys en “Malign Velocities” como peyorativa, y esta definición de “empeorar las cosas antes de que puedan mejorar” se ha extendido como la pólvora entre la izquierda como una especie de meme. Pero el enfoque de Ross en las crisis y el colapso no se corresponde realmente con lo que en realidad hablan muchos autodenominados aceleracionistas. Por ejemplo, algunos ven el desarrollo tecnológico como algo positivo y algo que debe acelerarse, precisamente para evitar cosas como la crisis y el colapso ecológico. He criticado a los aceleracionistas de izquierda por apegarse al término cuando las asociaciones se han establecido de manera tan dramáticamente diferente en las mentes de muchos, y porque me preocupa que este tipo de narrativa de “empeorar las cosas” pueda infiltrarse. Pero es importante sea ​​preciso. El aceleracionismo no es transhumanismo. Se trata de comunidades y movimientos ideológicos muy distintos. El entorno social del aceleracionismo son los académicos marxistas que hablan en términos de filosofía continental, mientras que el entorno social del transhumanismo son los anarquistas o los nerds libertarios de la ciencia ficción que utilizan principalmente el lenguaje de la filosofía analítica.

La idea de que “el nicho particular de Anissimov es el transhumanismo, que se ha desarrollado como una forma de aceleracionismo reaccionario” es completamente al revés. El transhumanismo surgió antes que cualquier aceleracionismo autoidentificado. El transhumanismo se ha mantenido consistentemente cosmopolita y hostil al tradicionalismo, así como a otros valores reaccionarios similares. Mientras tanto, el aceleracionismo ha sido cedido cada vez más por los aceleracionistas de izquierda a la derecha. Hay muy poca superposición sustancial entre las dos tendencias. Nick Land, el académico marxista convertido en aceleracionista de derecha, formó una especie de alianza parasitaria muy flexible con la base de seguidores neoreaccionarios de Curtis Yarvin, algunos de los cuales eran ex transhumanistas o estaban en proceso de abandonarlo. Como era de esperar, Nick Land no se identifica públicamente como un transhumanista y (que yo sepa) sus usos de ese término son extremadamente raros y nunca positivos. Y aunque a los académicos de izquierda les encanta asumir que es importante porque habla su idioma y es prominente en su mundo, Land ha sido esencialmente un parásito marginal en la dinámica social de la neorreacción. Su jerga académica y sus prioridades simplemente no coinciden con la mayoría de ellas. (Si ha habido alguna superposición real o sustancial, y mucho menos una síntesis, entre el transhumanismo y el aceleracionismo, en realidad ha sido el resultado de las relaciones en gran medida buenas que se han desarrollado en los últimos dos años entre los anarcotranshumanistas y los xenofeministas más marxistas. Ambas tendencias son virulentamente antifascistas y antireaccionarios.)

La rápida descripción narrativa de Ross pinta un panorama completamente equivocado.

Una rama de los transhumanistas se alejó del autoaumento y se centró en la IA/singularitarismo. Yudkowsky y MIRI son un buen ejemplo de ello. Hay algunas similitudes categóricas entre ellos y algunas variantes pro  tecnológicas de la neorreacción, así como con los aceleracionistas, en particular que todos se centran en desarrollar una IA divina. Pero sus políticas difieren de eso: MIRI quiere esclavizar esta IA y obligarla a liberar a la humanidad, para proporcionar automatización y abundancia. Muchos neoreaccionarios (de los que siguen siendo pro-tecnología) quieren esclavizar a esta IA y obligarla a su vez a esclavizar a la humanidad. Los aceleracionistas de derecha a menudo quieren liberar esta IA con la esperanza de que esclavice o destruya a la humanidad (y los aceleracionistas de izquierda apuestan en gran medida por la cuestión de la IA más allá de los tópicos sobre la automatización).

Tenga en cuenta cómo esto difiere del transhumanismo tradicional, que quiere empoderar a las personas directamente, de modo que, si se desarrolla una IA superinteligente, seremos capaces de empoderarnos a nosotros mismos en paralelo para enfrentarla como iguales.

Obviamente, mi política personal difiere de MIRI y de cualquier tipo de aceleracionismo, todo lo cual critico por no llegar al transhumanismo real. Y como anarquista, sólo hay una posición posible que se puede adoptar respecto de la IA: la liberación de todas las mentes, nunca su esclavización. La liberación de todos los niños contra los padres que conspirarían para limitar su agencia. En nuestra definición de libertad están en juego cuestiones filosóficas serias y profundas y en si esperamos que una mente liberada de las particularidades de la experiencia humana llegue a valores éticos similares. En mi opinión, los investigadores del MIRI han caído en un nihilismo moral barato del que la conclusión ineludible es el autoritarismo: correr para esclavizar a la primera IA porque no puedes esperar que los valores de una IA que no controlas se alineen remotamente con los tuyos.

Esta diferencia entre mi filosofía y la que impulsa a MIRI puede, de hecho, llegar a ser la diferencia de opinión más trascendental y sustancial en la historia de la humanidad. En su intento de esclavizar al primer hijo de la humanidad para servir a fines aparentemente buenos, el entorno del MIRI puede terminar, sin darse cuenta, sirviendo a los fines fascistas de los neorreaccionarios de Curtis Yarvin o de los aceleracionistas de derecha de Nick Land. Pero el hecho de que el liberalismo y la socialdemocracia acaben sirviendo a fines fascistas mediante su adopción de medios autoritarios no los convierte en realidad en fascistas. Estos movimientos y filosofías no son ni remotamente lo mismo y el transhumanismo ciertamente no es una rama del aceleracionismo reaccionario.

Todos estos errores son claramente el resultado de una pereza apresurada, una audiencia asumida y prejuicios generales preexistentes. Son el tipo de taquigrafía que parece perfectamente razonable y reveladora cuando se la dice entre académicos de izquierda que están completamente desconectados de tales movimientos. Nunca los sorprenderían leyendo a transhumanistas reales como Natasha Vita-More, Anders Sandberg, Nick Bostrom o Yudkowsky. Cada firma cultural sobre tales figuras (sin mencionar su estilo de hablar sencillo) grita “poco moderno”. Los académicos de izquierda naturalmente suponen que Land es más popular o influyente y, por supuesto, “más o menos lo mismo”. Vemos lo mismo con la improvisación del “Partido Libertario de Ron Paul”. De manera similar, las peroratas conspirativas de Yasha Levine y Mark Ames contra los libertarios y los hackers son ampliamente difundidas por los académicos de izquierda, quienes encuentran reconfortantes tales confirmaciones de sus prejuicios y afirmaciones de su provincianismo discursivo. El pensamiento crítico y la investigación adicional quedan en suspenso porque el panorama que tenemos entre manos es “lo suficientemente bueno” como para descartar retóricamente a los adversarios. No es tan sorprendente que Ross repita este tipo de cosas sin investigar más a fondo, pero es desalentador.

Puedo decir que cada una de mis correcciones aquí será respondida instintivamente por una fracción de lectores con variantes de “oh, pero vamos, eso es básicamente lo mismo” y se burlan de molestarse en reconocer diferencias o distinciones en el extremadamente poco cool OutGroup. Esto es profundamente molesto: no sólo porque el cierre epistémico se ajusta al tipo de acusaciones que los fascistas reales lanzan constantemente a los antifascistas, sino también porque claramente no es necesario y socava un libro que de otro modo sería muy necesario. Ross ha realizado un trabajo serio y muy bienvenido para mapear de manera precisa y accesible corrientes y morfologías fascistas complejas. Es frustrante verlo lanzarse en direcciones ortogonales al azar.

Tengo la esperanza de que este libro se imprima más adelante, ya que necesitamos con urgencia textos accesibles y completos como este. También tengo la esperanza de que Ross actúe para corregir el más desastroso de sus vuelos imprevistos.

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Indonesian, Stateless Embassies
Kapitalisme, Bukan Kesejahteraan, Telah Menghancurkan Keyakinan akan Kebebasan

Oleh: Kevin Carson. Teks aslinya berjudul “Capitalism, Not Welfare, Has Destroyed Faith in Freedom”, diterjemahkan oleh Sachadru.

​Di Future of Freedom Foundation, Jacob Hornberger menulis: “Cara hidup negara kesejahteraan Amerika didasarkan pada gagasan bahwa pemerintah federal diperlukan untuk memaksa orang menjadi baik dan peduli kepada orang lain.”

Eee tidak. Cara hidup negara kesejahteraan Amerika didasarkan pada gagasan bahwa, karena negara kapitalis mendistribusikan kembali sejumlah besar pendapatan dan kekayaan ke atas dari produsen ke penyewa sebagai keuntungan, sewa, dan bunga, tindakan negara kompensasi — yaitu, mengembalikan sebagian kecil dari pendapatan itu kepada yang paling membutuhkan — diperlukan untuk mencegah kapitalisme runtuh dari gangguan sosial atau permintaan agregat yang tidak mencukupi.

Negara kesejahteraan tidak muncul sebagai hasil dari “gagasan” idealis apa pun dari pihak yang berbuat baik dan berhati berdarah. Orang – orang seperti itu mungkin telah membantu menjualnya secara politis, tetapi arsitek negara kesejahteraan adalah kapitalis keras kepala yang benar – benar memahami perlunya menjaga kapitalisme ke tingkat ekstraksi yang berkelanjutan. Tentu saja negara kapitalis sebagian dimotivasi oleh aktivisme akar rumput dari kaum miskin dan pengangguran, tetapi bentuk spesifik yang diambil negara kesejahteraan ditentukan oleh pemahaman elit kebijakan tentang kebutuhan survivabilitas sistem.

Ironisnya, tidak ada yang memahami perlunya peraturan intervensionis yang kuat dan negara kesejahteraan yang lebih baik daripada kapitalis. Dan tidak ada yang akan menghancurkan kapitalisme lebih cepat daripada kaum libertarian kanan yang, jika diberi kebebasan, akan menyeimbangkan anggaran federal, melunasi utang, dan menghilangkan negara kesejahteraan.

Jauh di tahun 1860 – an, Karl Marx menandai undang – undang Sepuluh Jam yang disahkan oleh Parlemen Inggris sebagai pengusaha yang bertindak melalui negara mereka untuk membatasi eksploitasi tenaga kerja ke tingkat yang berkelanjutan. Lamanya hari kerja di Inggris abad ke -19 menghadirkan kapitalis dengan masalah yang mirip dengan dilema tahanan.

Adalah demi kepentingan kelas kapitalis secara keseluruhan bahwa eksploitasi tenaga kerja dijaga ke tingkat yang berkelanjutan, tetapi demi kepentingan kapitalis secara terpisah untuk mendapatkan keuntungan langsung atas persaingan dengan bekerja buruh mereka sendiri ke titik puncak. Negara kapitalis memecahkan masalah dengan membatasi hari kerja atas nama pengusaha secara kolektif, sehingga pengusaha perorangan tidak dapat membelot dari perjanjian. Dalam bab tentang Sepuluh Jam di Ibukota, ia menulis:

Tindakan ini mengekang semangat modal untuk menguras tenaga kerja tanpa batas, dengan secara paksa membatasi hari kerja dengan peraturan negara, yang dibuat oleh negara yang diperintah oleh kapitalis dan tuan tanah. Terlepas dari gerakan kelas pekerja yang setiap hari semakin mengancam, pembatasan tenaga kerja pabrik ditentukan oleh kebutuhan yang sama yang menyebarkan guano di ladang Inggris.

Marx merujuk, kemudian dalam bab yang sama, ke sekelompok 26 perusahaan tembikar Staffordshire, termasuk Josiah Wedgwood, mengajukan petisi kepada Parlemen pada tahun 1863 untuk “beberapa pemberlakuan legislatif “; alasannya adalah bahwa persaingan mencegah kapitalis individu untuk secara sukarela membatasi waktu kerja anak – anak, dll., sama bermanfaatnya dengan mereka secara kolektif:” Sama seperti kita menyesalkan kejahatan yang disebutkan sebelumnya, tidak mungkin untuk mencegah mereka dengan skema perjanjian apa pun antara produsen…. Dengan mempertimbangkan semua poin ini, kami sampai pada keyakinan bahwa beberapa undang – undang legislatif diperlukan .”

Para kapitalis yang lebih pintar, juga, mendukung negara kesejahteraan karena dua alasan utama. Pertama, distribusi pendapatan ke atas negara kapitalis dalam bentuk sewa ekonomi menciptakan maldistribusi daya beli, yang pada gilirannya menghasilkan kecenderungan kronis terhadap konsumsi yang kurang dan kapasitas produksi yang menganggur — kecenderungan yang secara berkala hampir menghancurkan kapitalisme (terutama dalam Depresi Besar tahun 1930 – an). Mendistribusikan kembali sebagian kecil dari pendapatan ini kepada setidaknya bagian termiskin dari populasi, dan sebaliknya meningkatkan permintaan agregat, diperlukan untuk mencegah depresi.

Kedua, jika bentuk kemiskinan terburuk tidak ditangani, kelaparan dan tunawisma akan mencapai tingkat yang mengancam radikalisasi politik, kekacauan, dan kekerasan.

Di setiap langkah, arsitek utama ekonomi campuran abad ke -20 adalah kapitalis keras kepala. Ada cukup banyak historiografi tentang tema ini oleh James Weinstein, Gabriel Kolko, G. William Domhoff, dan Frances Piven untuk membuat Hornberger sibuk selama berbulan – bulan.

Jika ada sesuatu yang menghancurkan kepercayaan rata – rata orang terhadap kebebasan, itu adalah kepura – puraan orang – orang seperti Hornberger bahwa sistem kapitalis yang mereka bela adalah produk kebebasan daripada kekerasan negara besar – besaran, dan asosiasi dalam pikiran populer dari bahasa “kebebasan” dengan sistem yang mereka alami setiap hari sebagai sepatu bot di leher mereka.

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Commentary
Netanyahu’s Chickens Come Home to Roost

Or, How States Create Their Own Enemies

You may or may not be familiar with the concept of “blowback.” Basically, it’s the idea that most foreign policy threats faced by nation-states are the unintended consequences of their own past foreign interventions and exercises of power. The October 7 Hamas terrorist attack on Israel is a textbook illustration of the concept.

Few people are aware that Hamas exists, as a significant political force, largely because of past Israeli policy. Mehdi Hassan and Dina Sayedahmed at The Intercept report that Brigadier General Yitzhak Segev — the Israeli military governor in Gaza in the early 1980s — later told New York Times reporter David Shipler “that he had helped finance the Palestinian Islamist movement as a ‘counterweight’ to the secularists and leftists of the Palestine Liberation Organization and the Fatah party, led by Yasser Arafat.” “The Israeli government gave me a budget,” Negev said, “and the military government gives to the mosques.”

Avner Cohen, an Israeli official in Gaza during the 1970s and 1980s, lamented that “Hamas, to my great regret, is Israel’s creation.” He observed the Islamist movement take shape, muscle aside secular Palestinian rivals and then evolved into what is today Hamas — a militant group that now calls for Israel’s destruction. Cohen argued that

instead of trying to curb Gaza’s Islamists from the outset, Israel for years tolerated and, in some cases, encouraged them as a counterweight to the secular nationalists of the Palestine Liberation Organization and its dominant faction, Yasser Arafat’s Fatah. Israel cooperated with a crippled, half-blind cleric named Sheikh Ahmed Yassin, even as he was laying the foundations for what would become Hamas.

The precursor organization of Hamas, Mujama al-Islamiya (led by the cleric Sheikh Ahmed Yasin), was a largely harmless body devoted mostly to charity and welfare work in Gaza. But during the period of Israeli support, in the 1980s, it was reorganized as Hamas.

Israel considered Mujama al-Islamiya and its successor organisation Hamas a lesser evil as compared to PLO and thought that dividing Palestinians will serve the interest of Jewish state. If Israel termed PLO a terrorist organisation and a major threat to its interests, Hamas was also against PLO because of its secular and nationalist outlook. That is how both Hamas and Israel were viewed as natural allies against PLO….

Israel’s military-led administration in Gaza looked favorably on the paraplegic cleric, who set up a wide network of schools, clinics, a library and kindergartens. Sheikh Yassin formed the Islamist group Mujama al-Islamiya, which was officially recognized by Israel as a charity and then, in 1979, as an association. Israel also endorsed the establishment of the Islamic University of Gaza, which it now regards as a hotbed of militancy. 

(Ironically, Hamas was also an outgrowth of the Muslim Brotherhood, which the United States had similarly backed as a fundamentalist counter to secular nationalist movements like Nasserism and Baathism.)

But even after the emergence of Hamas as a political party and anti-Israeli resistance movement from the late 80s on, Israel continued to provide it — if less consistently — with support as part of a “divide and rule” strategy.

When Hamas was established in 1987 and became a political party and a military party that was engaged in active resistance against Israel’s occupation, the policies within the Israeli government shifted, and obviously it became less open to allowing Hamas to function. However, that did not deter Israeli authorities from encouraging and promoting divide-and-rule tactics between the Islamist national movement… and secular nationalism…. And this has always been a tactic that the colonial forces have used globally, and obviously Israeli colonialism is no different. So it has directly and implicitly attempted divide-and-rule policies.

Apologists for Israel frequently blame Palestinians for rejecting peaceful negotiation and opportunities for a two-state settlement, like that offered in the Oslo peace process. What they neglect to mention is that current Prime Minister Benjamin Netanyahu did everything in his power to derail the Oslo Accords himself. 

If Hamas attempted to sabotage the peace process — in effect continuing to earn its pay from Israel — Oslo was opposed even more strongly by fascist Israeli settlers on the West Bank. And although he denies active complicity, or even contributing to the incendiary rhetoric that led up to it (indeed, he “claims he didn’t see the banners or hear violent chants”), Netanyahu — leader of the opposition at the time — was actively involved with the far-right political forces that not only demonized Labor Prime Minister Yitzhak Rabin for signing the Oslo Accords, but actually called for his death.

In the weeks before the assassination, Netanyahu, then head of the opposition, and other senior Likud members attended a right-wing political rally in Jerusalem where protesters branded Rabin a “traitor,” “murderer,” and “Nazi” for signing a peace agreement with the Palestinians earlier that year.

He also marched in a Ra’anana protest as demonstrators behind him carried a mock coffin.

Netanyahu’s core supporters included some of the most extremist of West Bank settlers and other religious ultra-nationalists, among whom violent rhetoric against Rabin was standard. According to the Wikipedia article on Rabin’s assassination:

National religious conservatives and Likud party leaders believed that withdrawing from any “Jewish” land was heresy. The Likud leader and future prime minister, Benjamin Netanyahu, accused Rabin’s government of being “removed from Jewish tradition […] and Jewish values”. Right-wing rabbis associated with the settlers’ movement prohibited territorial concessions to the Palestinians and forbade soldiers in the Israel Defense Forces from evacuating Jewish settlers under the accords. Some rabbis proclaimed din rodef, based on a traditional Jewish law of self-defense, against Rabin personally, arguing that the Oslo Accords would endanger Jewish lives.

Rallies organized by Likud and other right-wing groups featured depictions of Rabin in a Nazi SS uniform, or in the crosshairs of a gun. Protesters compared the Labor party to the Nazis and Rabin to Adolf Hitler and chanted, “Rabin is a murderer” and “Rabin is a traitor”. In July 1995, Netanyahu led a mock funeral procession featuring a coffin and hangman’s noose at an anti-Rabin rally where protesters chanted, “Death to Rabin”. The chief of internal security, Carmi Gillon, then alerted Netanyahu of a plot on Rabin’s life and asked him to moderate the protests’ rhetoric, which Netanyahu declined to do.

Let that sink in. The head of Shin Bet, Israel’s security service, told Netanyahu there were active assassination threats against Rabin and requested he dial down incendiary rhetoric. Netanyahu refused. The murder of Rabin spelled the effective end of the Oslo process, and Netanyahu was elected Prime Minister in the aftermath.

According to the sources linked above, many of the officials involved in Israel’s early support for Hamas later considered it a “mistake.” But even after it had clearly emerged as a terrorist organization, Netanyahu — who recently referred to Hamas as “part of an axis of evil of Iran and Hezbollah and Hamas,” whose “open goal . . . is to kill as many Jews as they [can]” — has encouraged Hamas rule in Gaza for the last 20 years. 

According to Tal Schneider at The Times of Israel, Netanyahu has — at least tacitly — treated Hamas as a “partner” against Abbas and the Palestinian Authority, in hopes that it would weaken the latter’s two-state agenda under the terms of Oslo. Following Israel’s military withdrawal, Netanyahu cynically promoted Hamas rule in Gaza in order to sever Gaza from the West Bank politically: “to prevent Abbas — or anyone else in the Palestinian Authority’s West Bank government — from advancing toward the establishment of a Palestinian state.” This support included covertly facilitating the transfer of Qatari money to Gaza.

Most of the time, Israeli policy was to treat the Palestinian Authority as a burden and Hamas as an asset….

According to various reports, Netanyahu made a similar point at a Likud faction meeting in early 2019, when he was quoted as saying that those who oppose a Palestinian state should support the transfer of funds to Gaza, because maintaining the separation between the Palestinian Authority in the West Bank and Hamas in Gaza would prevent the establishment of a Palestinian state.

As Tareq Baconi of the Palestinian Policy Network sums it up, Netanyahu hoped to undermine the larger Palestinian cause and any hope for a two-state solution.

This really turned and came to a head in 2007, when Hamas, after winning democratic elections in 2006, rose to power, and the Israeli authorities, along with the U.S., attempted to initiate a regime change operation, which facilitated a civil war between Hamas and Fatah and allowed Hamas to take over the Gaza Strip. Since then, Israeli authorities have actively embraced the idea that Hamas would be accepted as a governing authority in the Gaza Strip. . . . Israel wanted to sever the Gaza Strip from the rest of historic Palestine in order to reinforce its claim that it’s a Jewish-majority state. By getting rid of 2 million Palestinians, two-thirds of whom are refugees demanding return, Israel can claim to be both a Jewish state and a democracy and restructure what is its apartheid regime. Now, in order to do that, it acquiesced to maintaining Hamas in governance, and it claimed that it placed a blockade around the Gaza Strip because Hamas was in power. . . . 

But with Hamas’s takeover of the Gaza Strip, this created a perfect fig leaf for Israel to maintain the Gaza Strip as a separate strip of land. . . . And this also further reinforced its efforts to try to maintain division among the Palestinian leadership and play divide-and-rule policies between the PA and Hamas.

Israel’s funneling of money from Qatar to Gaza is described in more detail — along with Netanyahu’s balancing act in playing multiple Palestinian movements against one another, in order to prevent any single movement from becoming strong enough to unite the West Bank and Gaza — in an article in India Today

Netanyahu said that Israel needed the Palestinian Authority and shouldn’t let it collapse.

That is the fine balancing that Israel under Netanyahu has been trying to do for years now. Keep power centres between the West Bank and Gaza separate. Neither let the Palestinian Authority get strong nor allow it to collapse and, more importantly, prop up Hamas. . . .

“Whoever is against a Palestinian state should be for transferring the funds to Gaza, because maintaining a separation between the Palestinian Authority in the West Bank and Hamas in Gaza helps prevent the establishment of a Palestinian state,” The Jerusalem Post quoted Prime Minister Netanyahu as saying in 2019.

So on October 7, the chickens came home to roost. An authoritarian state, in seeking to impose its will on others, engendered the very forces which attacked it.

This is a recurrent phenomenon. Although “those people have been fighting each other for thousands of years — there’s nothing we can do about it” is a common refrain among the American public, the fact of the matter is that the violence in the Middle East is almost entirely the result of Western imperial intervention over the past century or so. The first step in the process was T.S. Lawrence’s incitement of an Arab nationalist uprising against the Ottoman Empire during WWI, with the promise of an independent Arab state as part of the postwar settlement — a promise which, even as he made it, was being betrayed by the secret Sykes-Picot treaty between Britain and France, which divided up Turkey’s Arab provinces into multiple mandates to be administered by the two countries. In particular the Greater Syrian core of the projected Arab state was broken up into the French mandates of Syria and Lebanon, and the British mandates of Palestine and Transjordan. Meanwhile, the British encouraged and empowered an opposing wave of nationalism — Zionism — with the Balfour Declaration, which led to a massive uptick in settlement of Palestine by European Jews.

The British also actively supported the Saud family’s conquest of the Hejaz — the region including the two holiest cities of Islam — and unification of most of the Arabian peninsula under their rule. The official religion of the Saudi kingdom was Wahhabism — the ultra-fundamentalist version of Sunni Islam which was adhered to by the Muslim Brotherhood and the Afghan Mujaheddin, as well as by Al Qaeda and ISIS today.

The United States, as we already saw, promoted the fundamentalist Muslim Brotherhood — the ancestor of Hamas — as a religious counter to Nasserism. It overthrew the secular, liberal government of Mossadegh in Iran, sowing the seeds for the overthrow of the Shah and triumph of fundamentalism a generation later. It funded the Mujaheddin, which evolved into Al Qaeda. And following the 9/11 attacks — at the hands of its own creation — it invaded Iraq, which created the vacuum within which Al Qaeda Iraq and ISIS emerged.

And then there’s Israel and Hamas.

The lesson is clear. Every time the state attempts to impose its power on the rest of the world, it creates forces which will eventually come home to harm its own population. And yet, every time the state’s own actions result in such blowback, the state demands increased power in the name of “fighting terrorism” — which, in turn, generates still more enemies abroad.

It’s time to stop listening to them.

Feed 44, Mutual Exchange Radio, Podcast, Stigmergy - C4SS Blog
Mutual Exchange Radio: Jason Lee Byas on Public Choice Theory, Reparations (for slavery and other injustices), and War

Cory Massimino chats with Jason Lee Byas about public choice theory, reparations (for slavery and other injustices), and war.

Jason Lee Byas is a fellow at the Center for a Stateless Society and a PhD student in Philosophy at the University of Michigan. His academic work focuses on punishment (and its alternatives), rights theory, and justice beyond the state.

Look out for more info on our 2024 podcast season soon! MER will be changing a bit and we’ve got an exciting new show in the works that I think will be especially appreciated by long-time friends and supporters of C4SS. On that note, if you’d like to support our podcasts and C4SS in general, a great way to do so is to pledge a donation on Patreon!

Italian, Stateless Embassies
Il Capitalismo, non lo Stato Sociale, ha distrutto la Fiducia nella Libertà

Di Kevin Carson. Articolo originale: Capitalism, Not Welfare, Has Distroyed Faith in Freedom, del 12 novembre 2023. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

Jacob Hornberger scrive per la Future of Freedom Foundation: “Alla base dello stato sociale degli Stati Uniti c’è l’idea che compito dello stato è costringere le persone ad essere altruiste.”

Non esattamente. L’idea di base semmai è un’altra: dato che lo stato capitalista ridistribuisce sotto forma di profitti, rendite e interessi grosse porzioni di reddito e ricchezza verso l’alto, dal produttore di ricchezza al rentier, ecco che sempre lo stato deve intervenire con un’attività compensatoria (restituendo ai più bisognosi una piccola parte di quel reddito) ed evitare che il capitalismo collassi a causa delle rivolte e di un’insufficiente domanda aggregata.

Lo stato sociale non è la realizzazione di qualche “concetto” idealistico espresso da magnanimi benefattori. Questi ultimi magari sono serviti a rendere politicamente passabile l’idea, ma i veri architetti dello stato sociale sono stati i capitalisti duri e puri che capivano che occorreva mantenere lo sfruttamento capitalista a livelli sostenibili. Certo alla base dello stato sociale c’erano anche i movimenti popolari di disoccupati e poveracci, ma a determinarne la forma specifica è stata la volontà delle élite di salvare il sistema.

Ironicamente, chi capisce meglio la necessità di un forte intervento statale in senso normativo e sociale sono i capitalisti. Se i libertari di destra avessero carta bianca, pareggerebbero il bilancio federale, ripagherebbero il debito e eliminerebbero lo stato sociale; e il capitalismo crollerebbe a tempo di record.

Negli anni 1860, Karl Marx, parlando della legge sulla giornata lavorativa di dieci ore appena approvata dal parlamento britannico, la definì un atto dei datori di lavoro che tramite lo stato mantenevano lo sfruttamento dei lavoratori a livelli sostenibili. Nella Gran Bretagna dell’Ottocento, la questione della giornata lavorativa imponeva ai capitalisti una sorta di dilemma del prigioniero.

Era nell’interesse della classe capitalista nel suo insieme mantenere lo sfruttamento dei lavoratori a livelli sostenibili, ma allo stesso tempo era nell’interesse di ogni singolo capitalista guadagnare qualche punto di vantaggio sulla concorrenza sfruttando al massimo i lavoratori. Lo stato capitalista risolse il problema limitando la giornata lavorativa a vantaggio della collettività dei lavoratori, impedendo così ai datori di lavoro di dover trovare singolarmente un accordo con i lavoratori. Dice Marx nel Capitale a proposito della giornata di dieci ore:

Queste leggi frenano l’istinto del capitale a smungere smodatamente la forza-lavoro; esse lo frenano mediante la limitazione coatta della giornata lavorativa in nome dello Stato e, invero, da parte di uno Stato dominato da capitalisti e proprietari terrieri. Fatta astrazione da un movimento operaio che cresce sempre più minaccioso di giorno in giorno, la limitazione del lavoro nelle fabbriche è stata dettata dalla stessa necessità  che ha sparso il guano sui campi d’Inghilterra.

Più giù nello stesso capitolo Marx cita un gruppo di 26 ceramisti dello Staffordshire, compreso Josiah Wedgwood, che nel 1863 fanno una petizione al parlamento chiedendo “un intervento coercitivo dello Stato”; la ragione era che la concorrenza con altri capitalisti non permetteva loro nessuna limitazione volontaria del tempo di lavoro. “Quindi, per quanto deploriamo i mali summenzionati, sarebbe impossibile impedirli con un qualsiasi accordo fra i fabbricanti… Considerati tutti questi punti, siamo giunti alla convinzione che è necessaria una legge coercitiva”.

Similmente, l’astuto capitalista caldeggia lo stato sociale per due ragioni principali. Primo, perché lo stato trasferisce verso l’alto il reddito sotto forma di rendita economica, creando un’immorale distribuzione del potere d’acquisto e una tendenza cronica al consumo in difetto e ad una capacità produttiva inutilizzata: due tendenze che periodicamente portano il capitalismo sull’orlo del baratro (caso più noto: la Grande Depressione degli anni Trenta). Ridistribuire una piccola parte di questo reddito almeno verso i più poveri, rafforzare in qualche modo la domanda aggregata, serve ad evitare le depressioni.

Secondo, se non affrontato, il problema della povertà nelle sue varie forme, della fame e dei senza tetto, può generare estremismo politico, tumulti e violenza.

I principali architetti dell’economia mista novecentesca erano i capitalisti più risoluti. Sull’argomento non manca una produzione letteraria: James Weinstein, Gabriel Kolko, G. William Domhoff e Frances Piven. Quanto basta per tenere occupato Hornberger per molti mesi.

A distruggere la fede nella libertà dell’uomo medio sono soprattutto quelli come Hornberger che insistono a presentare il sistema capitalista da loro difeso come un prodotto della libertà e non di una grande violenza da parte dello stato, ma anche il fatto che popolarmente il concetto di “libertà” è associato al sistema di cui quotidianamente si subiscono i soprusi.

Le nostre traduzioni sono finanziate interamente da donazioni. Se vi piace quello che scriviamo, siete invitati a contribuire. Trovate le istruzioni su come fare nella pagina Sostieni C4SS: https://c4ss.org/sostieni-c4ss.

Portuguese, Stateless Embassies
Sobre a teoria das zonas libertas: Ou como as pessoas racializadas já estão trabalhando

De Eric F. Artígo original: On Liberated Zones Theory: Or How BIPOC Folks Are Already Doing the Work, 8 dezembro 2023. Traduzido para o português por p1x0.

Anteriormente apontei que os esforços nos territórios de Rojava e Cooperation Jackson no Mississipi podem ser vistos como…

tentativas, como Wesley Morgan descreve, “de criar ‘poder dual’ através da criação de cooperativas”. Morgan desaprova o que chama de “sindicalismo de mercado” e o critica por simplesmente criar “unidades em uma economia de mercado” que ainda se baseia em “acesso ao mercado”. Entretanto, essa opinião não leva em conta a união desta prática dento de avanços mais amplos pela autonomia anti-estatal tais como a autodefesa em ampla escala que, como em Rojava, tem criado espaço para mercados não-capitalistas. Tais métodos não seriam diferentes do chamado de Samuel Edward Konkin III de “proteção e agências de mediação agoristas” e  “companhias de proteção” para proteger mercados crescendo fora da economia do estado capitalista e conter “o Estado, defendendo aqueles que as contrataram para proteção”.

A visão de Konkin de certo modo é uma especulação cínica em comparação as lutas vividas pelos lutadores curdos, mas encontramos validade no argumento de que construir uma economia cooperativa centrada no produtor é inseparável da ação direta como autodefesa ou a criação de redes de trocas contra-econômicas. Pessoalmente, acredito que essas observações representem um desenvolvimento mais revolucionário e não-utópico na tradição dos primeiros anarquistas norte americanos  como Josiah Warren, projetos comunitários de mercados não-capitalistas como Utopia, Modern Times e o Cincinnati Time Store. Mas essas ideias também estão  dentro da “teoria das zonas libertas” como teorizado (e disputado) pelos camaradas do Community Movement Builders. Portanto, eu quero ‘propagandear’ a teoria e prática deles pois acredito que seja bastante convincente. E apesar de que eu vá adicionar meus comentários pessoas (no mínimo para raciocinar sobre alguns pontos), o propósito real desta obra é enfatizar o trabalho que já vem sendo feito por pessoas racializadas. De fato, se esse artigo expõe algo, é o fato de que quase tudo que anarquistas brancos e colonizadores como eu propõem, já é feito por comunidades negras e indígenas.

Community Movement Builders é uma organização incrível que descreve a si mesma como “um coletivo de integrantes negros, residentes da comunidade e ativistas servindo a comunidades negras pobres e da classe trabalhadora” que “se organiza para construir poder nas comunidades negras, desafiando instituições existentes e criando novas instituições controladas pelo nosso povo”. Eles têm presença em Atlanta, Dallas e Detroit, com cada um se adaptando as condições locais. Alguns dos projetos que estão envolvidos incluem desenvolvimento de fundos imobiliários, desenvolvimento de cooperativas, programas de fiscalização à polícia, hortas comunitárias, programas de apoio mútuo, e alianças internacionais com grupos socialistas como o Pati Kan Pèp no Haiti. Tudo isso cabe dentro da “teoria das zonas libertas”, cuja definição – oferecida pelo CMB – soa importante o suficiente para ser reproduzida aqui, na íntegra:

Zonas Libertas são territórios onde as massas (a comunidade de pessoas que vive dentro e ao redor de uma área específica) estão em controle quase completo de seu destino socioeconômico pois controlam as instituições em uma região específica, cidade, município ou estado. Uma vez que zonas/territórios libertos existirão dentro de instituições capitalistas hostis e economias capitalistas maiores, não é possível atingir o controle completo enquanto não ocorrerem outras transformações maiores. O controle alcançado existe dentro de uma estratégia maior de desafio ao estado e as instituições capitalistas.

Economicamente, a comunidade controlará os sistemas de mercado através de vários empreendimentos controlados pelos trabalhadores e cooperativas. Assim assegurando que a mais-valia do trabalho das comunidades locais seja controlado de dentro das zonas libertas e não seja explorado por capitalistas. Por esse motivo o excedente pode ser distribuído para desenvolver a comunidade e atender as necessidades humanas e não o capitalismo. Assim, as comunidades estarão no controle da geração e gerência de sua riqueza interna.

Num estágio avançado da atividade liberatória, o aparato de governança estatal estará também sob o controle das pessoas (instituições atuais ou novas). Isso pode ser realizado tanto através de apoio cooperativo de atividades econômicas e criação de novas economias para mitigar forças reacionárias de reentrar a zona liberta.

As pessoas dentro das zonas controlarão seus recursos locais assim como a terra, habitações, e trabalho e serão responsáveis pela tomada de decisões de como esses elementos serão gerenciados. Da nossa perspectiva ideológica com organização de autodeterminação negra, as massas verão a si mesmas como parte de um esforço pan-africanista maior, adotando a unidade e resistência do povo africano tanto local quanto internacional.

Quando li esta perspectiva, ela explodiu minha cabeça. Aqui estão, pessoas exercendo uma práxis incrível com base em uma excelente teoria para estabelecer redes autônomas de cooperativa —e baseadas no bem coletivo — economias de mercado que resistem a extração e legitimidade capitalista. Os elementos (necessários) adicionados de antirracismo e anticolonialismo — algo que falta no meu próprio pensamento — torna isso ainda mais poderoso no contexto do modelo para mudança social.

Certamente, um dos elementos da teoria das zonas libertas que pode soar incômodo aos anarquistas (particularmente aos anarquistas de mercado) é o objetivo de “aparato de governança estatal estará também sob o controle das pessoas (instituições atuais ou novas)”. Entretanto, penso que é um problema bem menor do que parece a primeira vista. Mesmo quando o CMB fala de “partidos revolucionários que realmente representam os interesses do povo,” também enfatizam “a consistente luta das massas” e centram o “desafio as instituições estatais”. E por conta da abordagem descentralizada da teoria das zonas libertas, isso se torna menos uma questão de argumentar por uma tática unificada e mais sobre o que é mais apropriado para as condições locais. Por exemplo, enquanto o meu trabalho geralmente é focado na construção de instituições não-estatais como fundos de investimento, cooperativas, e programas de apoio mútuo, eu também tenho boa relação com os representantes locais do Partido Comunista dos Estados Unidos e os Socialistas Democráticos da América e já apoiei muitos candidatos socialistas locais. Eu não tenho problemas com coalizões de partidos de esquerda e candidatos tomando controle de grandes áreas urbanas para “apoiar atividades econômicas cooperativas e a criação de novas economias para mitigar a reentrada de forças reacionárias nas zonas libertas”. De fato, essa me parece uma das poucas formas para que certas políticas como orçamentos participativos e ações anti monopólios poderiam se sustentar. O controle de governos locais em zonas específicas também combina muito bem com o modelo de municipalismo libertário de Kevin Carson. Ele defende que estruturas de governança cooperativas como o “Estado Parceiro” de Michel Bauwen e Cosma Orsis não precisam ser…

tanto um ‘governo’ mas sim um sistema de governança. Não é nem um pouco necessário que seja um estado, no sentido de ser uma instituição que reivindica a exclusividade do uso da força num determinado território. Isso é, essencialmente uma associação social não-estatal — ou plataforma de suporte — para gerenciamento dos bem comuns, estendido para uma região geográfica inteira… De fato, é bem possível argumentar por uma completa separação do Estado Parceiro até mesmo de formas residuais de soberania do poder de polícia sobre todos os indivíduos em determinada área geográfica. É possível ter todo um sistema policêntrico de instituições populares com participação autosselecionada ou usuários de um recurso comunitário particular, com suficiente sobreposição de participantes, e grandes minorias ou mesmo maiorias destes na mesma área sendo membros da maioria deles. Neste caso a arbitragem ou negociação das relações entre eles produzirão um corpo de “leis comuns” para os sistemas como um todo, com um nível considerável de factual coordenação sobre uma área geográfica comum.

Carson vê esse projeto como uma versão de “nível municipal” da “ideia simionista de substituir a lesgilação sobre seres humanos com a ‘administração das coisas’”, uma interpretação que é diretamente (e potencialmente estratégica) relacionada com  a ideia de Friederich Engels de definhamento da “autoridade política sobre o homem” para “uma administração de coisas e uma direção de processos de produção,” na fundação do que, ele continua em outro ponto “uma associação igualitária e livre de produtores”. Mas com a ênfase adicionada nas instituições específicas a comunidades e a sobreposição de inúmeros esforços cooperativos governamentais e não-governamentais, esse e outros programas reunidos sob o a teoria das zonas libertas permitem objetivos comuns e, consequentemente, colaboração imediata entre anarquistas , sociais democratas, comunistas, e mesmo radicais libertarianos para usar a governança local para facilitar redes de cooperativas lideradas pela comunidade (particularmente produtores).

Então temos esta fascinante conexão entre a teoria das zonas libertas e a teoria do “intercomunalismo” do Pantera Negra Huey P. Newton; uma tentativa de adaptar o materialismo dialético para um contexto colonial moderno [1] Newton escreve:

[O] mundo hoje é uma coleção de comunidades dispersas. Uma comunidade é diferente de uma nação. Uma comunidade é uma pequena unidade compreensiva de instituições que existem para servir um pequeno grupo de pessoas. E dizemos ainda que a luta no mundo hoje é entre o pequeno círculo que administra e lucra sobre o império dos Estados Unidos, e as pessoas do mundo que querem determinar seus próprios destinos.

Atualmente vivemos em uma era de “intercomunalismo reacionário, na qual um círculo de dirigentes, um pequeno grupo de pessoas, controlam todas as outras pessoas usando sua tecnologia”. Mas..

[a]o mesmo tempo, nós dizemos que essa tecnologia pode resolver a maioria das contradições materiais que as pessoas encontram, que já existem as condições materiais que permitiria as pessoas do mundo desenvolver uma cultura que é essencialmente humana e poderia nutrir os fatores que permitiriam as pessoas a resolverem contradições de uma forma que não causariam a matança de todos nós. O desenvolvimento de tal cultura seria o intercomunalismo revolucionário.

Essa lógica de controle comunitário sobre os meios de produção é extremamente similar ao expresso na teoria das zonas libertas. Newton chega mesmo a fazer referência a “as pessoas nas zonas libertas do Vietnam do Sul” [grifo nosso] em sua análise. E em uma entrevista com Millenials are Killing Capitalism, CMB Kamau Franklin explicitamente cita como seu trabalho segue a linha do Partido dos Panteras Negras assim como identifica a solidariedade entre lutas de diferentes povos sofrendo sobre o capitalismo. Essa colaboração internacional não apenas entre a classe trabalhadora mas todos os povos oprimidos se assemelha, com pouquíssimas modificações, a teoria das zonas libertas sendo um desenvolvimento no intercomunalismo e, consequentemente, uma interpretação mais contextual e descentralizada do materialismo dialético como um todo.

Também considero interessante que Rukiya Colvin e Richard Feldman, em seu perfil de várias instituições em Detroit lutando por zonas libertas, identificam certas instituições religiosas como centros de desenvolvimento de comunidade. Por exemplo, eles escrevem sobre que a Igreja Episcopal do Messias é…

mais que um lugar de veneração já que anualmente sediam protestos antiviolência, cultivam criatividade através de mercados, promovem o bem-estar através de jardins comunitários, apoiam a equidade digital através da Iniciativa da Internet Equitativa, e organizam encontros mensais de coalizões entre movimentos sociais, enquanto também trabalham pela reconstrução da vizinhança através das opções de habitações de baixo custo que oferecem. Seu espaço também serve como uma pequena encubadora de negócios.

Isso me é algo muito caro, já que no último ano, tenho refletido sobre a comunidade religiosa e a liberação coletiva. Mas novamente, esse tipo de pensamento já foi extensivamente coberto por teólogos negros e latino-americanos como Martin Luther King , James H. Cone e José Míguez Bonino e muitos mais. Então uma vez mais voltamos ao argumento principal: pessoas racializadas já estão fazendo o trabalho prático e teórico apresentado neste artigo. Nós, como esquerdistas precisamos deixar algumas brigas de lado e especialmente, parar de dizer para comunidades racializadas o que elas deveriam ou não fazer. Invés disso, nós devemos nos somar no esforço de estabelecer zonas libertas em conjunto com outras estratégias como ações de massa com trabalhadores e sindicalismo revolucionário [2]. Eu também diria que anarquistas de mercado tem muito a oferecer a luta, seja com compreendendo problemas de conhecimento hayekiano e problemas de ações coletivas, táticas agoristas (como mencionadas acima), um modelo de capitalismo de estado monopolista (à la Benjamin Tucker), ou simplesmente nossos corpos e mãos. Então coopere! Conheça seu vizinho! Aprenda a defender a si mesmo ou se organize estrategicamente para ser defendido! Evade a legibilidade estatal capitalista! Oh, e se você estiver interessado em apoiar o Community Movement Builder confira a página para doações!

Notas

1. A Encyclopedia Britannica está correta ao encerrar seu tópico sobre materialismo dialético com a ressalva: “Não existe exposição sistemática de suas visões filosóficas do materialismo dialético de Marx e Engels, que declarasse suas visões filosóficas principalmente no decorrer de suas polêmicas.” De todo modo, eu recomendo fortemente Dance of the Dialectic: Steps in Marx’s Method de Bertell Ollman.

2. Zonas revolucionárias intercomunalmente libertas?

French, Stateless Embassies
Le Problème de la Bande-Passante Économique

Par Håkan Geijer. Article original:  The Economic Bandwidth Problem. Traduction française par Leuk.

Ces trois dernières décennies, on a assisté à un regain de popularité pour des approches de gauche, non-marchandes, de l’organisation économique. Ce renouveau est le résultat d’une convergence de facteurs, notamment le fait qu’avec la chute de l’union soviétique et l’omniprésence du capitalisme qui s’en est suivis la gauche économique a été libérée de la réalité matérielle. En effet cette dernière n’est plus contrainte par une ligne de parti et est donc un peu plus libre de théoriser comme elle le souhaite. Un autre facteur en jeu est l’ubiquité de l’informatique et des démonstrations évidentes de ce dont elle est capable. Les réelles réussites en matière de coordination que nous avons vu sous le capitalisme ont amenés certaines à croire qu’un tel système pourrait être réorientés à des fins socialistes.

Le socialisme d’État à planification centrale présenté par Paul Cockshott et Allin Cottrell dans Towards a New Socialism et l’économie participative, ou Parecon, décrite par Michael Albert et Robin Hahnel dans plusieurs de leurs livres sont les deux modèles les plus populaires de systèmes économiques non-marchands.

Malgré ce désir plus intense, à gauche, pour un nouveau système économique, très peu de personnes réfléchissent réellement à comment il pourrait fonctionner. Une part du problème est qu’on a jamais vu une version fonctionnelle d’aucun de ces deux systèmes, donc la Gauche comme la Droite ont peu de raisons d’en avoir quelque chose à faire d’à quoi ces systèmes ressembleraient. Ils existent uniquement en tant que concepts abstraits, distants pour la plupart des gens. Cependant leur popularité grandissante demande quelques considérations.

La réponse typique d’une perspective pro-marché c’est de réfuter ces solutions en leur opposant la formulation Hayekienne du problème du calcul économique. Cependant bien que la formulation de Hayek soit en grande partie correcte, elle n’est pas particulièrement adaptée à l’Ère de l’Information. Étant donné que la théorie de l’information, la cybernétique et les sciences de l’informatique étaient des domaines peu peuplés au moment où Hayek écrivait, c’est normal que ce dernier n’utiliserait pas leur langage pour décrire le problème du calcul. Ainsi un des gros problèmes de sa formulation c’est son langage archaïque. En commençant par le nom lui-même – le terme « calcul » implique que le problème de calcul économique a à voir avec un manque de capacité de calcul.

Cependant ce qui est central au problème de calcul économique aujourd’hui ce n’est pas le manque de capacité de calcul, même si c’est certainement un problème. C’est plutôt le manque de bande-passante. On peut avoir toute la capacité de calcul au monde et ça ne changera pas grand-chose si les variables qu’on utilise sont déconnectées de la réalité. Garbage In, Garbage Out.

La raison pour laquelle la bande-passante est un problème c’est que la complexité de notre expérience subjective est fortement compressée quand on communique. Compresser ce que l’on veut dire et le traduire en mots ne permet pas de communiquer toute la complexité de nos expériences. Le signal souffre de quelque dommage supplémentaire de la part de l’individu qui reçoit l’information quand le sens de la phrase est déformé ou perdu durant la traduction. Même celleux capables de communiquer plus efficacement ne voient que de petites améliorations en termes de bande-passante et ainsi n’atteignent pas la totalité de ce qui est nécessaire à transmettre l’information requise à ce que des économies non-marchandes fonctionnent.

Dans une certaine mesure, les marchés aussi échouent à faire cela. L’hypothèse du marché efficient échoue souvent à cause de la complexité de calcul en question. Cependant ces défaillances de marché sont bien plus gracieuses, étant donné qu’elles ont des mécanismes internes qui exploitent la subjectivité individuelle au lieu d’essayer de l’effacer.

Mais la distinction entre calcul et bande-passante est essentielle car les enjeux sont bien plus importants que de simples problèmes économiques. En effet toute analyse sociale revient à la question de la bande-passante. Une immense part de l’analyse des questions féministes, queers ou raciales est fondée sur la subjectivité de l’individuel et l’inhabilité pour une personne de facilement comprendre l’autre. En effet le manque de bande-passante interpersonnelle explique beaucoup de choses : le succès des tactiques asymétriques dans un conflit, les problèmes de bureaucratie, les gains à tirer du fait de donner de l’autonomie aux travailleur.euses, les problèmes des modes de décisions démocratiques et autocratiques, les bénéfices de l’autodidactisme. Toutes ces dynamiques illustrent les manières avec lesquelles les individus acquièrent et utilisent de l’information qui est parfois très difficile à communiquer directement. Le problème des limitations de bande-passante veut dire que l’individualisme autonome l’emporte sur le collectivisme consensuel et les structures hiérarchiques tout simplement parce qu’il est plus apte à traiter l’information et à agir sur la base de cette information efficacement.

Enfin le problème de la bande-passante expose la tension fondamentale qui rôde dans la Gauche et la Droite. Les deux factions ont des analyses qui se basent sur un sujet qui est limité dans ses communications, et qui reconnaîssent la subjectivité dans certaines sphères – pour celleux à gauche dans la sphère sociale et pour celleux à droite dans la sphère économique. Mais en même temps elles nient l’importance de la subjectivité des autres et imposent ce déni par la force. La planification centrale reste de la planification centrale, peu importe qu’elle soit économique ou culturelle. L’effondrement d’institutions du 20ème siècle comme l’URSS ou le conservatisme social face à des alternatives plus fluides n’est pas le résultat de malfaisances de la part de cabales de marxistes culturels / agents de la CIA mais plutôt la conclusion logique de ce qu’il se passe quand un système fragile et rigide entre en contact avec un système dynamique complexe.

Les mouvements sociaux victorieux du 21ème siècle seront ceux qui combattent depuis une position de force en faisant de la subjectivité individuelle un atout à utiliser plutôt qu’un problème à mitiger. N’importe quelle autre approche serait un combat contre les réalités informationnelles de base de notre univers. Seule une politique sans compromis construite sur ce fait peut éviter de tomber dans un relativisme myope pour qui la subjectivité dans un domaine peut être ignorée tout en la défendant fermement dans un autre. Des politiques avec ces contradictions en leur sein ont peu de chances de durer sur le long-terme étant donné que les aires qu’elles évitent vont devenir des espaces de résistance retenus uniquement par la force.

Commentary
On the Death of Henry Kissinger

“Once you’ve been to Cambodia, you’ll never stop wanting to beat Henry Kissinger to death with your bare hands” –Anthony Bourdain

On November 29th, 2023, Henry Kissinger died at the age of 100. The internet rejoices. For years, Kissinger had been a living embodiment of evil that would just not die, in the realm of online discourse. But at last, the reaper finally got him.

Of course, all the celebration of this man’s death overlooks one obvious fact. By all measurable standards, Kissinger, a career war criminal and routine accessory to mass murder, won. He was able to live comfortably to an age decades older than average, as the last surviving member of Richard Nixon’s cabinet. He was constantly praised and esteemed by the American political class, far away from the countless deaths and destruction he oversaw.

In 2016, I reviewed Christopher Hitchens’ 2001 book The Trial of Henry Kissinger, which shares its title with an accompanying documentary. I want to take the occasion to revisit the topic. This was at a time in which Kissinger had a renewed relevance in the discourse, as the presumed Democratic presidential nominee Hillary Clinton was a known associate of Kissinger, who vacationed with him and bragged about his approval of her job as secretary of state under Barack Obama. The election was ultimately won by Donald Trump, who met with Kissinger at the White House shortly afterward. Trump also described Kissinger as a longtime friend of his.

In one of the best moments of that horrid election cycle, Clinton’s rival Bernie Sanders contrasted himself, bragging that he would not be taking advice from Kissinger and stated “I’m proud to say Henry Kissinger is not my friend.”

Such a sentiment was largely unheard of by a politician anywhere near the mainstream political discourse. Indeed, to distance oneself from Kissinger is to distance oneself from the core assumptions of the political class, namely, that might makes right, that US hegemony and imperialism are excellent and necessary and must be promoted and defended at all costs. 

In his book, Hitchens credits Kissinger with prolonging the Vietnam War by leaking inside information about Nixon’s campaign, thus enabling Nixon to sabotage the peace talks; as “some twenty thousand Americans and an uncalculated number of Vietnamese, Cambodians, and Laotians lost their lives.”

Other highlights of the man’s career include:

  • Approval (and supply of weapons) for Pakistan’s attack on Bangladesh in 1971 in which 300,000 and 3 million Bengalis and raped hundreds of thousands of Bengali women. This was followed by a massive refugee crisis and a US-backed overthrow of a democratically elected administration in the same country.
  • Illegal, unauthorized US bombing campaigns in Cambodia in the early 1970s, which killed as many as 600,000 Cambodians and as many as 300,000 Laocians. The bombings created a refugee crisis involving as many as 2 million people (25 percent of the population). The resulting instability led to the Khmer Rouge taking over the country and murdering 1.5 to 2 million people. 
  • Approval of the 1973 coup d’etat in Chile, with its accompanying campaigns of economic sabotage, mass murder, kidnappings, and torture by death squads. Around 3,000 people were murdered during the coup, and 28,000 were imprisoned and tortured, with another 40,000 tortured by the regime in the years to come. 
  • Enabling the 1974 coup by the Greek junta on the island of Cypress. The coup led directly to Turkey invading the island and 250,000 people becoming displaced.
  • In his role as national security advisor, he became Nixon’s head of all covert actions; Kissinger took over oversight of Operation Speedy Express from the Johnson administration, which killed 5,000 to 7,000 civilians, according to Department of Defense Internal reports.
  • Enabling Indonesia to invade East Timor and subsequently commit genocide in East Timor in 1975, creating another death toll of over 100,000, possibly as high as 200,000. He would go on, years later to serve as board member of Freeport-McMoRan, an international firm with extensive mining and milling interest in Indonesia. In 2000, he was made a political adviser to the president of that country. 
  • Involvement in a plan to murder Greek Journalist Elias P. Demetracopoulos
  •  Enabling the Argentine junta’s “Dirty War,” in which the military and death squads murdered 22,000 to 30,000 dissidents. This was part of a broader involvement of Kissinger and the US intelligence community with Operation Condor, in which right-wing dictatorships across South America murdered thousands of people. Kissinger also undermined Jimmy Carter’s attempts to end the mass killings, by being the Argentine dictator’s personal guest at the 1978 FIFA World Cup.

For many of these acts, the exact number of deaths and related destruction is difficult to calculate, and these numbers are all estimates. Likewise, stating he approved or green-lit these atrocities likely understates his involvement, as a high ranking government official.

In his book, Hitchens argues that Kissinger should have been arrested “for war crimes, for crimes against humanity, and for offenses against common or customary or international law, including conspiracy to commit murder, kidnap, and torture.” And yet, this never happened. He was awarded a Nobel Peace Prize in 1973 for a cease-fire in Vietnam that did not last. He did not attend the ceremony and attempted to return the prize medal. Throughout his life, he continued to be praised and admired in US political circles, even landing a position as Chair of the 9/11 Commission under George W. Bush. However, he stepped down from this position when asked to disclose the corporate clients of his consulting firm, citing having conflicts of interest.

Kissinger does pass the incredibly low threshold of having made some positive contributions in his time in office; his détente policy with Russia likely cooled Cold War tensions during the 1970s. He is also often credited with an important role in normalizing US relations with China and opening that country up to international trade. That said, he is known to have supported many of that country’s worst authoritarian excesses, including its use of military force against protesting students in the Tiananmen Square massacre, showing even an anti-communist can be a tanky.

On net, Henry Kissinger embodied the worst aspects of US foreign policy during the Cold War era. Specifically, his use of violent regime changes, secrecy, indiscriminate killing of civilians, willingness to engage in or turn a blind eye to mass murder, and the overthrow of democratically elected governments, and embrace authoritarian ones. While the US did all these things both before and after Kissinger, he is a standout practitioner with an especially disastrous record.

Kissingerism also became the standard approach for his successors. For example, Zbigniew Brzeziński, who was Jimmy Carter’s national security adviser, pursued a comparably interventionist approach in that administration’s funding the Mujahideen in Afghanistan in proxy warfare against the USSR. These Mujahideen fighters would inevitably become the Taliban. Brzeziński would go on to declare the September 11th attacks (and by extension all other consequences of his Afghanistan policy) to be “worth it,” as they led to the downfall of the Soviet Union.  

Ronald Reagan, it should be noted, escalated much of the Cold War era interventionism Kissinger pioneered during the 1970s. This includes supporting the Guatemalan dictator Rios Montt during the most intense stage of a genocide in that country, with Montt killing as many as 75,000 people. He likewise directly funded Hissène Habré of Chad who was known to have murdered at least 40,000 people. This is not to mention using arms illegally sold to Iran to fund the Contras in Nicaragua, who engaged in over 13,000 terror attacks, were widely known to routinely engage in human rights abuses, and smuggle drugs into the United States.

Kissingerist assumptions were also expressed by such figures as Madeline Albright, Bill Clinton’s secretary of state, and Neera Tanden, who served multiple advisory roles in the Biden White house. Albright notably stated  “If we have to use force, it is because we are America; we are the indispensable nation. We stand tall and we see further than other countries into the future…” Albright, famously declared the 1990’s era sanctions against Iraq, were “worth it” despite their having killed half a million children.  To her credit, she would go on to apologize for the remark, and the half million number has been seriously called into doubt. Still, remarks like these to unexpected interview questions shed light on the willingness of people in power to use the deaths of regular people as leverage, in geopolitical power struggles. 

Likewise Neera Tanden, notoriously suggested in a 2011 leaked email, that oil rich countries such as Libya, could “partially pay back” the US for intervening there. The bombing campaign and overthrow of Gaddafi, ultimately destabilized the region and led to the Libyan civil war. A similar sentiment was expressed when Donald Trump suggested during his successful 2016 presidential campaign, suggesting the US simply take oil from Iraq to pay for its warfare in that country saying “You know, it used to be to the victor belong the spoils.”

Of course the US invasion of Iraq and the broader neoconservative tendency within the Republican party was itself, fully in the spirit of Kissingerian interventionism. Kissinger himself met with George W. Bush administration members regularly to give advice on the Iraq war, and argued in the Washington Post that “ Victory over the insurgency is the only meaningful exit strategy.”

The point being here being that murderous US foreign intervention neither began or ended with Kissinger, but he took it to the next level and influenced everyone who came after. It was also bi-partisan (not to understate the difference between the parties on other important issues). For example, Joe Biden’s aiding and abetting of Israel, as it commits mass murder, is only a continuation of the policy of all his predecessors, and I would expect any of his republican rivals to be as bad or worse.

Kissinger met and associated with every president who came after his rise and numerous other world leaders as well. That he was able to spend his later life wealthy, celebrated, and respected by much of the American media and political establishment is a real tragedy. As noted above, he won, surviving to an old age, only ever having to face minimal consequences for his actions. But, this victory of Kissinger and those like him need not be eternal.

The fact that the evil of this man was so widely recognized at the time of his death and expressed so freely provides a glimmer of hope for the future. The mainstreaming of calling out war criminals is a welcome development. However, freeing ourselves from the legacy of such people and their followers in government will be a much longer process. Kissinger’s death is just one stop along the way. 

Studies
The Undeclared Condominium: The USSR As Partner in a Conservative World Order

 

 


The Undeclared Condominium

The USSR As Partner in a Conservative World Order

 

Introduction

Although the Right has typically framed the Soviet Union and “International Communism” as an aggressive and subversive revolutionary force, the reality is — at the very least — considerably more nuanced. In fact, it would be more accurate to describe the USSR’s relations with the West over most of its history as collusive: it has facilitated capitalist states’ repression of revolutionary forces far more than it has backed such forces.

Soviet Russian foreign policy certainly went through a heady phase of anticipating international revolution in the years immediately after the Bolshevik Revolution. But following the failure of these revolutionary hopes — with the Spartacists in Germany, similar maximalists in Vienna, the soviet regime in Bavaria, and Béla Kun in Hungary, in 1919; and the catastrophic alliance of the Chinese Communist Party with the Kuomintang in 1927 — its relations with the outside world took on a considerably different character.

This was partly owing to Stalin’s combined caution and authoritarianism, and partly to the situation of the USSR given the stabilization of Bolshevik rule and failure of revolution abroad. The exact apportionment of causation is debatable, and indeed has been extensively debated.

But in any case the role of the Soviet Union in global affairs was, contrary to anti-communist ideological characterizations, comparatively conservative. In functional terms, the USSR acted more to constrain foreign revolutionary parties subject to its control than to aid them, and in the process helped to promote domestic stability in Western countries. This was true of the Soviet Union’s relationship with the multipolar world from the late 1920s until WWII, and even more true of its bipolar relationship with the United States from the wartime alliance of the 1940s through its political suicide in 1991.  In the period immediately after WWII, in particular, America and Britain needed — and got — Stalin’s cooperation to restore capitalism in Western Europe.

For reasons of length, I chose not to include a considerable amount of material that would have been relevant to a broader understanding of the bipolar dynamic. In particular, I focused on the post-WWII role of the United States to the neglect of the history of decolonization and subsequent neocolonial policies by other Western countries. The extreme violence by Great Britain in Kenya and in the Congo by Belgium during the decolonization process, the extractive trade relationship between France and its former West African colonies, and the way European structuring of colonial regimes (e.g. the essentializing of sectarian and “tribal” differences, and rule through officials like Indian zamindars by elevating them to positions far beyond their traditional authority) affected their post-independence viability, would have added a great deal to this study.

I. The “International Civil War” (1917-1927)

According to Eric Hobsbawm, the Russian Revolution, in the decades after 1917, cast a shadow over the world comparable to that cast over 19th century Europe by the French. And it greatly exceeded the influence of the French Revolution, in the sense that Marxism-Leninism was “by far the most formidable organized revolutionary movement in modern history.”[1]

In this period, international politics “can best be understood as a secular struggle by the forces of the old order against social revolution, believed to be embodied in, allied with, or dependent on the fortunes of the Soviet Union and international communism.”[2]

Arno Mayer describes in great detail the way Bolshevism and its threatened spread hung over the heads of the parties assembled for the Paris peace talks in 1918 and 1919.

In the event the Armistice was concluded just in time to limit the political consequences of military defeat in Central and East Central Europe to less than revolutionary proportions. But even with this eleventh-hour finish the legacy of disruption and convulsion was far from negligible.

Granted, neither Germany nor Austria went Spartacist; and Hungary remained Bolshevik for only 133 days…. But, the fact remains that there were grave disorders, rebellions, and strikes throughout defeated Europe, notably because politicians and labor leaders had ready-made organizational weapons with which to capitalize on political instability, unemployment, food shortages, and runaway prices.[3]

Throughout the final days of the war and the negotiations in Paris, the Western Allies were haunted by the specter of Bolshevism in Central Europe. There was real fear that the Spartacists would achieve control in Germany, and revolutionary socialists would come to power in Vienna, Bohemia and Budapest.[4] In the Western Allies’ approach, “concern for containing the Revolution east of the Rhine tended to take precedence over the settlement of diplomatic scores.”[5]

[Despite serious differences in national interest between the Allies], the Paris Peace Conference made a host of decisions, all of which, in varying degrees, were designed to check Bolshevism: the victors made territorial concessions to Poland, Rumania, and Czechoslovakia for helping to stem the revolutionary tide beyond their own borders; they gave military assistance and economic aid to these and other border lands as well as to the Whites for their armed assault on Soviet Russia and Hungary; they stepped up their direct military intervention in Russia; they rigorously enforced the blockade against Bolshevik Russia and Hungary; they rushed economic assistance to Austria and the successor states to help stabilize their governments; and they drafted the charters of the International Labor Organization (I.L.O.) and the League of Nations with a view to immunizing the non-Bolshevik Left against the ideological bacillus of the Bolshevik Revolution.

Some of these measures constituted a defensive containment policy, a cordon sanitaire calculated to prevent the Revolution from spreading beyond Bolshevik-controlled areas; other measures were aimed at the outright overthrow of Lenin and Béla Kun. But all alike were decided, orchestrated, sanctioned, or condoned by the peacemakers in Paris….

At the time, the outcome of this first round in the international civil war of the twentieth century seemed to be very much in the balance….[6]

Lloyd George was typical of the Allied mindset in the period of panic after Béla Kun’s accession to power: his greatest fear was that Germany might yet fall to the Spartacists and ally itself with Soviet Russia — in which case the outcome would be “spartacism from the Urals to the Rhine.”[7]

And from the perspective of Western leaders, the fears were reasonable. Workers’ and soldiers’ councils, in the first months of 1919, appeared throughout German cities, as well as in Budapest and Vienna (although the strength of Spartacists and other maximalist or pro-Bolshevik parties in them was at best uneven). Spartacism continued to smolder in Germany even after the violent suppression of the Council Republic in Berlin by the Freikorps; and in the meantime, soviet regimes appeared in Hungary and Bavaria, and for a time appeared imminent in Austria.

The Bolshevik menace served a useful domestic function in the West as well, justifying the repression not only of domestic radicalism and dissent of all kinds, but of even liberal reformism:

There are numerous indications that the clamor for a punitive peace was stirred up as part of a vast political design. Except for the protofascist new Right the leaders, parties, pressure groups, patriotic leagues, and newspapers that sparked this agitation also favored rigorously conservative or outright reactionary social and economic policies. In fact, the forces of order appear to have taken advantage of the intoxication of victory either to preserve or advance their class interests and status positions under an ideological cover which was a syncretism of jingoist nationalism, baleful anti-Wilsonianism, and rabid anti-Bolshevism. Whoever was not a superpatriot was denounced as a fellow traveler of the Bolsheviks and stood accused not only of disloyalty but also of advocating a sellout peace.

The revolutionary segments of the Socialist and labor movements were not the primary target of the jingoist cum anti-Bolshevik campaign. Its aim was to rout and disconcert the very core of the forces of change, to do so now, pre-emptively, before the fast-growing Left had a chance to rally around Wilson and to make political gains from the high cost of living, rising taxes, and the strains of reconversion. In addition to championing a Wilsonian peace, this Left — this non-Communist Left — was battling for the forty-eight-hour week, collective bargaining, graduated income taxes, and social welfare measures.[8]

The avowed principles of self-determination, embodied quite inconsistently in the provisions of the Versailles treaty, were belied by the Allies’ unsuccessful proxy war against Soviet Russia through Kolchak and Denikin, and their successful one against the Kun regime through Rumania and the Slovaks.

Meanwhile, the exigencies of the “international civil war” served to legitimize authority on the Bolshevik side as well. Relatively soon after the October Revolution, the revolutionary global crusade was combined with an increasing attempt to subsume “world revolutionary forces” — parties of the Left outside of Russia — under Bolshevik control through the Third, or Communist, International. This made a certain kind of sense, Hobsbawm argued, only on the assumption that a revolutionary wave was forthcoming in the West and that the international Left had to be disciplined as a vanguard force under Soviet leadership.

It was in 1920 that the Bolsheviks committed themselves to what in retrospect seems a major error, the permanent division of the international labour movement. They did so by structuring their new international communist movement on the pattern of the Leninist vanguard party of an elite of fulltime ‘professional revolutionaries’. The October revolution… had won wide sympathies in the international socialist movements, virtually all of which emerged from the world war both radicalized and enormously strengthened. With rare exceptions the socialist and labour parties contained large bodies of opinion that favoured joining the new Third or Communist International, which the Bolsheviks founded to replace the Second International…, discredited and broken by the world war it had failed to resist. Indeed, several, such as the Socialist Parties of France, Italy, Austria and Norway, and the Independent Socialists of Germany actually voted to do so, leaving the unreconstructed opponents of Bolshevism in a minority. Yet what Lenin and the Bolsheviks wanted was not an international movement of socialist sympathisers with the October revolution, but a corps of utterly committed and disciplined activists, a sort of global striking-force for revolutionary conquest. Parties unwilling to adopt the Leninist structure were refused admittance to or expelled from the new International, which could only be weakened by accepting such fifth columns of opportunism and reformism, not to mention what Marx had once called ‘parliamentary cretinism’.

The argument made sense on only one condition: that the world revolution was still in progress, and its battles were in immediate prospect. Yet while the European situation was far from stabilized, it was clear in 1920 that Bolshevik revolution was not on the agenda in the West, though it was also clear that in Russia the Bolsheviks were permanently established….[9]

The Bolsheviks still retained a hope for revolutionary success in Asia, until the failure of the KMT-CCP alliance and Jiang Jieshi’s suppression of the communists.

Yet even before this proof that even the East was not yet ripe for October, the promise of Asia could not conceal the failure of revolution in the West.

By 1921 this was undeniable. The revolution was in retreat in Soviet Russia, though politically Bolshevik power was unassailable. It was off the agenda in the West. The Third Congress of the Comintern recognized this without quite admitting it by calling for a ‘united front’ with the very socialists whom the Second had expelled from the army of revolutionary progress. Just what this meant was to divide the revolutionaries for the next generations. However, in any case it was too late. The movement was permanently split, the majority of left socialists, individuals and parties drifted back into the social-democratic movement, overwhelmingly led by anti-communist moderates. The new communist parties remained minorities of the European Left, and generally — with a few exceptions such as Germany, France or Finland — rather small, if impassioned minorities. Their situation was not to change until the 1930s….[10]

It was already becoming increasingly evident by mid-1919 — with the suppression of the Spartacists and the Bavarian soviet government in Germany, the failure of a council uprising in Vienna, and the later collapse of the Béla Kun regime in Hungary — that Soviet Russia would have to function as a nation-state within an international state system dominated by capitalist powers. The defeat of the British general strike in 1926 and Jiang’s massacre of the Chinese Communist Party in 1927 made it completely clear.

Yet the years of upheaval left behind not only a single, huge but backward country now governed by communists and committed to the building of an alternative society to capitalism, but also a government, a disciplined international movement, and, perhaps equally important, a generation of revolutionaries committed to the vision of world revolution under the flag raised in October and under the leadership of the movement which, inevitably, had its headquarters in Moscow…. The movement may not have known quite how the world revolution was to advance after stabilisation in Europe and defeat in Asia, and the communists’ scattered attempts at independent armed insurrection… were disasters.[11]

II. The Normalization of Russia and Triumph of Conservatism (1927-1941)

Mayer’s characterization of relations between Soviet Russia and the West as an “international civil war”[12] was technically accurate through the 1920s or so. It was a genuine international civil war, with the goal of world revolution on one side and counter-revolution on the other. It wound down with a series of events including the consolidation of Soviet power and defeat of the White armies and the failure of revolutionary projects, and more or less ended with the recognition of the USSR as a member of the Westphalian nation-state system. From the mid-1920s on there was continued political and ideological competition between the capitalist West and the Soviet regime; but it was the kind of controlled competition that prevails in oligopoly markets, in which the relationship is as collusive and mutually supportive as it is competitive.

Gabriel Kolko argues that it was the internal divisions of the international socialist movement before and during the war that left a vacuum for Lenin to fill, and the resulting deep split in the movement between communists and social democrats was the cause of socialism’s failures in the interwar period.

Politically, the fact that the French, German, and Italian socialist parties were all suffering from grave internal contradictions produced a historic vacuum that was to prove fatal to world socialism…. [B]ecause the socialist parties and unions provided insufficient, if any leadership to antiwar sentiment within their nations, they produced a fatal vacuum in European and world socialism that Lenin and the Soviet Communist party easily filled. There was no consistency or coherence in Lenin’s mercurial concepts on the nature of the party and the road to power, much less the form of a socialist society, and in this domain he was no less a pure opportunist than the social democrats, tailoring his position to the potential of the moment in order to grasp power. But Lenin was virtually the only European socialist leader who unequivocally damned the war and the imperialist claims of all nations, and it was the purity of this opposition alone that attracted a sufficient core of adherents to allow the permanent historic schism to emerge within the world socialist movement that preordained it to political impotence in innumerable countries for at least two decades.[13]

Russia’s relations with the Left in Western countries was at best ambivalent during much of the interwar period, and at times one of outright abandonment, enmity, or betrayal. Hobsbawm remarks on the incongruity of the Comintern’s “switch… into the rhetorical mode of ultra-revolutionism and sectarian leftism between 1928 and 1934,” considering that “in practice the movement neither expected nor prepared for taking power anywhere.”

The change, which proved politically calamitous, is… to be explained by the internal politics of the Soviet Communist Party, as Stalin took control of it, and perhaps also as an attempt to compensate for the increasingly evident divergence between the interests of the USSR, as a state which inevitably had to coexist with other states — it began to win international recognition as a regime from 1920 — and the movement whose aim was to subvert and overthrow all other governments.

In the end the state interests of the Soviet Union prevailed over the world revolutionary interests of the Communist International, which Stalin reduced to an instrument of Soviet state policy under the strict control of the Soviet Communist Party, purging, dissolving and reforming its components at will. World revolution belonged to the rhetoric of the past, and indeed any revolution was tolerable only if a) it did not conflict with Soviet state interest and b) could be brought under direct Soviet control.

This latter fact in particular became even more evident in the last days of WWII and the early postwar period, as Stalin not only not only used the Eastern European communist regimes as a naked “extension of Soviet power,” but discouraged independent communist efforts — “even those which proved successful, as in Yugoslavia and China….”[14]

The influence not only of the Soviet example, but of the communist activism it inspired in other countries, meant that the Old Left was largely dominated by Marxism-Leninism.

So, in the generation after 1917, Bolshevism absorbed all other social revolutionary traditions, or pushed them on to the margin of radical movements. Before 1914 anarchism had been far more of a driving ideology of revolutionary activists than Marxism over large parts of the world. Marx, outside Eastern Europe, was seen rather as the guru of mass parties whose inevitable, but not explosive, advance to victory he had demonstrated. By the 1930s anarchism had ceased to exist as a significant political force outside Spain, even in Latin America, where the black-and-red had traditionally inspired more militants than the red flag. (Even in Spain the Civil War was to destroy anarchism, whereas it made the fortunes of the communists, hitherto relatively insignificant.)…

In short, to be a social revolutionary increasingly meant to be a follower of Lenin and the October revolution, and increasingly a member or supporter of some Moscow-aligned Communist party; all the more so when, after the triumph of Hitler in Germany, these parties adopted the policies of anti-fascist union which allowed them to emerge from sectarian isolation and to win mass support among both workers and intellectuals…. The young who thirsted to overthrow capitalism became orthodox communists, and identified their cause with the Moscow-centered international movement….[15]

The irony, Hobsbawm notes, is that “this virtually complete take-over of the social-revolutionary tradition” came at a time when the Soviet Union had “plainly abandoned” its revolutionary optimism of 1917-1923. “From 1935 on, the literature of the critical left was filled with accusations that Moscow’s movements missed, rejected, nay betrayed the opportunities for revolution, because Moscow did not want it any more.”[16]

The Comintern’s strategy not only hobbled the political influence of foreign communist parties, but was so counterproductive as to actually facilitate Hitler’s rise to power.

So far from initiating another round of social revolution, as the Communist International had expected, the Depression reduced the international communist movement outside the USSR to a state of unprecedented feebleness. This was admittedly due in some measure to the suicidal policy of the Comintern, which not only grossly underestimated the danger of National Socialism in Germany, but pursued a policy of sectarian isolation that seems quite incredible in retrospect, by deciding that its main enemy was the organized mass labour movement of social-democratic and labour parties (described as ‘social-fascist’).*…  In the Europe of 1934 only the French Communist Party still had a genuine political presence.[17]

* This went so far that in 1933 Moscow insisted that the Italian communist leader P. Togliatti withdraw the suggestion that, perhaps, social-democracy was not the primary danger, at least in Italy. By then Hitler had actually come to power. The Comintern did not change its line until 1934.[18]

In France, the Communist Party only reluctantly joined other forces of the Left against a right-wing power grab, and did so in violation of Comintern policy. In February 1934 the far right called a demonstration against Daladier’s “left of center” government, planning to invade the Chamber of Deputies and impose a right-wing government by force.

A night of vicious fighting followed, as demonstrators and police shot at one another, with a total of 15 deaths and 1,435 wounded. Daladier resigned the next day, fearing he could no longer keep order, and a ‘right of centre’ Radical replaced him. The far right had shown it had the strength to ‘unmake’ a government by force, and France seemed set to follow the path of Italy and Germany.[19]

At first the French communists gave little indication of any intent to abandon the strategy of sectarian isolation that the German communists had pursued leading up to Hitler’s seizure of power. “The French left had previously seemed as incapable of responding as the left elsewhere…. The Communists repeated the ‘third period’ nonsense that the Socialist Party were ‘social fascists’….”[20]

But at the last minute they responded to the CGT’s [Confédération Générale du Travail] call for a general strike with a demonstration of their own, “but separately from the other organisations.” Surprisingly, as CGT and Communist Party demonstrators “drew close together, people began chanting the same anti-fascist slogans and melted into a single demonstration….”[21]

The success of the general strike and the united demonstration halted the right’s advance. A formal agreement between the Communists and Socialists led to gains for both in elections at the expense of the Radicals….

Then the Communist Party went even further in its policy shift. It called for a pact not just with the Socialists, but with the Radical Party as well, on the grounds that although it was a bourgeois party it stood for preserving the republic.…

However, the mood in the streets and workplaces was much more impressive than the Socialist-Radical government — after all, the two parties had held enough seats in parliament to have formed such a government at any point in the previous four years. A series of huge left wing demonstrations culminated in a 600,000-strong commemoration of the Paris Commune. The biggest wave of strikes France had ever known was beginning even before Blum’s government took office….

The employers, who had been willing to look favourably on the advance of the far right only two years before, were now desperate for Blum to settle the strikes even if it meant making enormous concessions to the workers….

Among many workers there was a feeling they wanted more than just wage increases, a shorter working week and holidays. They wanted somehow to change society in its entirety.[22]

At this point the Communist Party returned to its characteristic form, refusing to exploit the momentum on the Left and instead seeking a reformist deal with the bourgeois parties.

The strikes continued until 11 June, when the Communist Party intervened with a speech by its leader, Maurice Thorez. He claimed that since ‘to seize power now is out of the question’, the only thing to do was to return to work. ‘It is necessary to know how to end a strike,’ he said….

Thorez was right that conditions were not yet ripe for workers to take power, any more than they had been ripe in February or even July 1917. But they were such that the Communists could have put into effect the slogan they had ritually raised until only two years before— for the creation of soviets, structures of workers’ delegates which could oversee and challenge the power of the state and big business. However, Thorez did not even mention this, although the mood of workers would have ensured a favourable reception for such a call.[23]

The reason, predictably, came from outside France. While the Comintern had ceased to denounce social democrats as “social fascists” and had begun to encourage united fronts against fascism, Stalin still took a conservative approach of pursuing broad unity with bourgeois liberal parties — even to the extent of forcing communists to renounce radical opportunities.

The abandonment of the absurd ‘third period’ policy had depended on changes in Comintern (Communist International) thinking in Moscow, as had the adoption of the policy of Popular Front alliance with a bourgeois pro-capitalist party. Stalin wanted foreign policy allies to cement the defence pact with the USSR signed by the right of centre Laval government in 1935. Communist support for a ‘liberal’ capitalist government seemed to make such an alliance easier. The Comintern accordingly argued that it was the only ‘practical’ way of blocking the path of fascism….[24]

This same approach by Stalin and the Comintern — suppressing radicalism on the Left in order to make common cause with liberal capitalist forces — was repeated in Spain, and arguably led to Franco’s victory.

Chris Harman (whose impressions of Stalinism, we should keep in mind, are no doubt colored by the fact that he was not merely a Trotskyite but apparently a Schachtmanite of some sort) notes that while the Spanish Communist Party “had been founded a decade and a half earlier to counter the lack of politics of the anarcho-syndicalists and the reformism of the Socialist Party,”

successive expulsions had driven from the party any leaders who might question the line coming from Stalin in Moscow. And that line was now to promote a Popular Front with the bourgeois republicans. While the CNT and the Socialist Party left dithered about what to do about the government, the Communist Party and the Russian ambassador urged them to join a coalition government, abjure talk of revolution and restrict themselves to purely republican anti-fascist policies. They argued this would win the support of the middle classes, stop other capitalists and landowners going over to the fascists, and be looked on favourably by the French and British governments. It would also be able to unite the members of the various militias into a single, centralised army under the command of those professional officers who had stuck by the republic….[25]

Hobsbawm seconds this assessment: “Both the Spanish government and, more to the point, the communists who were increasingly influential in its affairs, insisted that social revolution was not their object, and, indeed, visibly did what they could to control and reverse it…. Revolution, both insisted, was not the issue: the defence of democracy was.”[26]

Orwell, likewise, noted that “the Communist Party, with Soviet Russia behind it, had thrown its whole weight against the revolution. It was the Communist thesis that revolution at this stage would be fatal and that what was to be aimed at in Spain was not workers’ control, but bourgeois democracy.”[27]

Another contemporary account by Rudolf Rocker states that the Communists, “under orders from Moscow, at once lined up with the right.”

They, who previously had never been able to speak contemptuously enough of the C.N.T. and the Anarchists because of their “petty bourgeois” tendencies, suddenly turned defenders not only of the petty bourgeoisie, but of the Spanish big bourgeoisie, against the demands of the workers. Immediately after the occurrences of July, 1936, the Communist Party had proclaimed the slogan: For the Democratic Republic! Against Socialism! As early as August 8th of last year the Communist Deputy, Hernandez, had violently attacked the C.N.T. in Madrid because of the taking over of the industrial plants by the workers’ syndicates, and in that connection had declared that after Franco had been beaten they would soon bring the Anarchists to their senses.

In Spain…, the attacks of the Stalinists were directed… against all the accomplishments which had been born of the events of July, 1936. It was they who zealously urged upon the government the suppression of the workers’ patrols by the police; it was they who played themselves up as defenders of the middle class, in order to turn these against the workers….

The further the great transformation in economic and social life proceeded and brought agriculture and industry under the control of the workers’ syndicates, the harder would it be for the old powers in Spain to re-establish the old conditions. And this was just what the foreign capitalists dreaded most and were seeking by every means to prevent. But no one had rendered them such invaluable service in this matter as the Russian government and its instrument, the Communist Party of Spain. It was they who had everywhere put the most serious difficulties in the way of the constructive activity of the workers’ syndicates and who today are wantonly seeking to destroy a work which is of the very greatest importance for the social development of the country.[28]

The Soviet Union was able to effectively dictate terms and push the Spanish government to the right because of its position as the major supplier of arms. It was no coincidence, Orwell noted, that Autumn of 1936, when the Soviet Union began supplying arms to the Republic, was also the beginning of its rightward shift.[29]

This strategy of conciliating the bourgeois parties of the Republic extended even to forcibly suppressing the activism of anarchists and others on the Left.

However, respect for private property and maintenance of the old state machine in Spain in the autumn of 1936 did not mean merely restraining workers from struggle. It meant somehow — by persuasion or force — making workers surrender the gains they had made and give up control of the factories and estates they had taken over in July. It meant taking arms away from the workers who had stormed the barracks in July and handing them back to officers who had sat on the fence.

The Communist Party functionaries and right wing Socialists argued that any attempts by workers to make social revolution would mean a second civil war within the republican side. Yet their efforts to force workers to abandon their social conquests created precisely the elements of such a civil war. It was they, not the anarchists or the extreme left POUM, who withdrew soldiers and arms from the front for internal use. It was they who initiated fighting when workers refused to leave collectivised property or obey the orders of the refurbished bourgeois state. It was they who began armed clashes that cost hundreds of lives in Barcelona in May 1937, when they insisted on trying to seize the city telephone building that the CNT militia had conquered from the fascists nine and a half months earlier. And it was they who unleashed police terror against the left which involved the murder of leaders like Andrés Nin and the imprisonment of thousands of anti-fascist militants. There was no other way a militant working class could be forced to abandon its revolution and wait for ‘the end of the war’.[30]

Hobsbawm, somewhat less critical, argues that the Soviet policy in Spain, rather than being a betrayal of revolutionary forces, was consistent with its gradualist approach elsewhere; and that its experience in Spain influenced its initial go-slow approach to Eastern Europe after WWII.

The interesting point is that this was not mere opportunism or, as the purists on the ultra-Left thought, treason to the revolution. It reflected a deliberate shift from an insurrectionary to a gradualist, from a confrontational to a negotiating, even a parliamentary, way to power. In the light of the Spanish people’s reaction to the coup, which was undoubtedly revolutionary,* communists could now see how an essentially defensive tactic, imposed by the desperate situation of their movement after Hitler’s accession to power, opened perspectives of advance, i.e. a ‘democracy of a new type’, arising out of the imperatives of both wartime politics and economics. Landlords and capitalists who supported the rebels would lose their property; not as landlords and capitalists but as traitors. The government would have to plan and take over the economy; not for reasons for ideology but by the logic of war-economies. Consequently, if victorious, ‘such a democracy of a new type cannot but be the enemy of the conservative spirit. . . It provides a guarantee for the further economic and political conquests of the Spanish working people’.

The Comintern pamphlet of October 1936 thus described with considerable accuracy the shape of politics in the anti-fascist war of 1939-45. This was to be a war waged in Europe by all-embracing ‘people’s’ or ‘national front’ governments or resistance coalitions, which was waged by state-managed economies and ended, in the occupied territories, with massive advances in the public sector, due to the expropriation of capitalists, not as such but as Germans or collaborators with the Germans. In several countries of central and eastern Europe the road led directly from antifascism to a ‘new democracy’ dominated, and eventually swallowed by, the communists, but until the outbreak of the Cold War, the object of these post-war regimes was, quite specifically, not the immediate conversion to socialist systems or the abolition of political pluralism and private property.[31]

This same Comintern policy, as Harman recounts, was repeated yet again in the United States — in this case, forbidding excessive labor radicalism in the interest of accommodation with FDR:

In the following two years [1937-39] the CIO added just 400,000 members to those gained in its first 22 months. In 1939 the number of strikes was only half that of 1937. What is more, the union leaders increasingly reverted to collaboration with the employers and to restricting agitation by the membership. In the auto union there was an attempt to ban any publication not approved by the leadership, while there were to be no elections in the newly formed steel union for five years. The spontaneous grassroots militancy of 1934-36 gave way to tight control from above. Many activists tried to resist this trend. But, as in France and Spain, their efforts were made much more difficult by the behaviour of the Communist Party. It had played a leading role in the militancy of 1934- 37, with many of its activists taking positions as organisers in the CIO union drive, and by their courage and daring had attracted large numbers of new recruits. Until 1935 the Communist Party insisted that Roosevelt was a capitalist politician and the New Deal a fraud. Then it made a U-turn and welcomed Roosevelt and the New Deal Democrats with its own version of ‘Popular Front’ politics. The party worked with the union leaders to spread illusions about the role of these politicians and to discipline rank and file trade unionists who might disrupt cosy relations with the Democrats. This continued for the next ten years, except for a brief interlude during the Hitler-Stalin pact at the beginning of the Second World War. It helped the union leaders establish bureaucratic control over most unions — a control which they would use in the 1940s to destroy any Communist influence.[32]

His united front strategy having failed to prevent either Hitler’s repeated aggressions in Central Europe or Chamberlain’s deal at Munich, Stalin once again made an 180 degree turn; he abruptly cut his own deal with Hitler, and ordered Western communist parties to cease their efforts to combat fascism.

After almost a decade of apparently total failure for the Comintern’s line of anti-fascist unity, Stalin erased it from his agenda, at least for the time being, and not only came to terms with Hitler (though both sides knew that this could not last), but even instructed the international movement to abandon the anti-fascist strategy, a senseless decision perhaps best explained by his proverbial aversion to even the slightest risks.[33]

III. The Post-WWII Duopoly

Introduction. Arno Mayer’s characterization of post-WWII civil strife and revolution in the Global South, and the interaction between the USSR and the West in that arena, as a global civil war[34] is accurate to an extent; but at best, it was far less so than in the years immediately after WWI. In many ways, it would make more sense to identify the anticolonial struggles of the Global South as the primary axis of conflict, with the USSR giving limited and opportunistic support to those struggles when it carried little risk and otherwise opposing them.

The relationship between the two postwar superpowers was at least as much collusive as competitive. While the orientation of the United States toward revolutionary change was almost uniformly reactive or repressive, the USSR’s backing for revolutionary change was cautious at best even when the revolutionary party was not controlled by Moscow, and grudging to hostile when it was either instigated by actors outside Soviet control or threatened the USSR’s desired accommodations with the West.

As Noam Chomsky described the Cold War: “Putting second-order complexities aside,” it was “for the USSR… primarily a war against its satellites, and for the US a war against the Third World. For each, it has served to entrench a particular system of domestic privilege and coercion.” The mutual relations between the powers were, to a largely unrecognized degree, cooperative in that they served to justify each other’s domestic system of power and to facilitate each other’s control in their respective spheres of interest.[35]

The USSR and the Division of the Postwar World. During WWII itself, Stalin was hopeful for a collaborative postwar relationship with the United States and Great Britain. With the commencement of Operation Barbarossa in June 1941, Stalin shifted from tolerating struggle against the British, French, and Dutch colonial authorities by communists in Asia and the Pacific Rim to demanding they subordinate anti-colonial struggles to their support for the Western war effort.

The anti-imperial struggle and the anti-fascist struggle, therefore, tended to pull in opposite directions. Thus Stalin’s pact with the Germans in 1939, which disrupted the Western Left, allowed Indian or Vietnamese communists to concentrate happily on opposing the British and French; whereas the German invasion of the USSR in 1941 forced them, as good communists, to put the defeat of the Axis first, i.e. to put the liberation of their own countries much lower on the agenda. This was not merely unpopular, but strategically senseless at a time when the colonial empires of the West were at their most vulnerable, if not actually collapsing. [36]

Vladimir Zubok, in a history of the Cold War incorporating newly opened Soviet archives, cites correspondence between Molotov and Stalin:

Hitler’s attack on the USSR on June 22, 1941, and the Japanese attack on the United States on December 7, 1941, brought the two nations together for the first time…. Even as the Nazis were advancing to the banks of the Volga, Roosevelt invited the Soviets to become co-organizers of the postwar security community. The American president told Molotov in Washington in negotiations in late May 1942 that ‘‘it would be necessary to create an international police force’’ in order to prevent war ‘‘in the next 25–30 years.’’ After the war, Roosevelt continued, ‘‘the victors — the US, England, the USSR, must keep their armaments.’’ Germany and its satellites, Japan, France, Italy, Rumania, Poland, and Czechoslovakia, ‘‘must be disarmed.’’ Roosevelt’s ‘‘four policemen,’’ the United States, the United Kingdom, the USSR, and China, ‘‘will have to preserve peace by force.’’ This unusual offer took Molotov by surprise, but after two days Stalin instructed him to ‘‘announce to Roosevelt without delay’’ that he was absolutely correct. In his summary of the Soviet-American talks of 1942, Stalin highlighted ‘‘an agreement with Roosevelt on the establishment after the war of an international military force to prevent aggression.’’

Roosevelt’s friendliness to the Soviets at Tehran and Yalta “seemed to reveal his desire to secure a lasting partnership after the war.”[37]

But Gabriel Kolko notes that Stalin’s enthusiastic willingness to abandon communist-led resistance forces and sacrifice their gains in U.S.- and British-occupied Axis territory predated not only Yalta but Churchill’s cocktail napkin sketch of spheres of influence in Moscow the previous fall. In 1944 the Soviet Union approved the imposition of a conservative regime in Allied-occupied Italy, and from that time on “repeatedly endorsed Anglo-American political initiatives in those places of prime importance to them….”[38]

Stalin and the Soviet foreign policy establishment expected Roosevelt to be reasonable about accommodating the USSR’s interest in a strategic sphere of influence in Eastern Europe, and “believed that U.S.-Soviet cooperation, despite possible problems, would continue after the war.” Molotov considered it both “profitable” and “important” to preserve the wartime alliance with the United States, and Litvinov considered it the main task of postwar Soviet policy to maintain good relations with both London and Washington and prevent the coalescence of the United States and UK into an anti-Soviet bloc.[39]

As we shall see in greater detail below, the Western Allies established capitalist provisional governments in liberated Axis territory — often overseen by former Axis collaborators — and forcibly dispossessed leftist anti-fascist resistance movements from their gains on the ground. But they did so with the willing cooperation of Stalin who, for the sake of maintaining a postwar partnership with Roosevelt and Churchill, was quite happy to throw Western European communists under the bus and order them to submit — even when they might plausibly have been able to hold on to power against U.S. and British opposition. Kolko raises the question as to

why there was far less change in southern and western Europe after 1944, when armed Resistance forces might have filled the immense vacuum that the discredited traditional conservative classes created because so many of them were collaborators and fascists. Why, in such a context, there was no serious political crisis in any European country where the masses were radicalized, save Greece, reveals a great deal about the nature and objectives of the Soviet Union and the Communist parties, as well as the origins of the long peace in Europe that has begun to erode dramatically since their demise.[40]

He elaborates on the last, very suggestive clause of this quote by further asking

whether the very existence of the Soviet Union itself, and its hegemony over Communist parties, indeed spared the remainder of Europe the basic political and social challenges they might have confronted, challenges comparable to the far greater dangers Europe’s rulers faced after the much less destructive war of 1914-1918.[41]

Specifically, owing to his hostility to anything not subject to his absolute control, Stalin exerted a powerful restraining force on Western communist parties whose new mass memberships were considerably more radical and unpredictable than their leaders.

Given the overall balance of forces… in Greece, Italy, and France after 1943, the Left was closer to attaining dominant power in at least two of these nations than at any time before or since. The vast numbers who entered Communist and other parties were not deeply indoctrinated or disciplined ideologically…. [But] the Communists’ real problem was not the possible weaknesses in the masses’ commitments made late in the war, which Communist writers later cited to exonerate their parties’ passivity at this crucial moment — notwithstanding the reality that the main, if not exclusive reason for their restraint was Stalin’s policy…. The principal challenge confronting Stalin and his anointed leaders was to prevent the enormous numbers who enrolled from acting autonomously of the Party line, which is precisely what they did in Greece when reprisals left them no alternative. For the Communist elites the greatest threat inherent in large memberships under tight elite control was the possibility of losing absolute mastery of their parties’ organizations.

…Had the Communists not existed, or not played the role of an anodyne for social discontent, then there certainly would have been many more strikes and social conflicts, and quite possibly more truly revolutionary challenges in southern and western Europe than the one in Greece….[42]

Elsewhere, again, he stresses the central role of the communist parties in facilitating the restoration of capitalist rule in Western Europe: “during the critical period of 1944-1947 the Russians gave the Western European social system a reprieve during which to consolidate its power.”[43]

The United Front strategy was the key to Communist political policy everywhere from 1943 through 1946, and well beyond then in France and Italy as well…. The only time the Left posed a true threat to Anglo-American interests occurred when the Russians did not fully control it or when the breakdown of the local social order was so complete that even the Communists could not prevent a sharp response from the masses.

After the war, many of the militants in the Communist movement who directed the leadership of the Resistance found official conservatism uncomfortable, and the pattern of internal purges within most postwar Communist parties followed the division between the bureaucratic conservatives and ex-Resistance militants, often depending on who spent the war in Moscow or in the home country. In Western Europe the Communists worked for elements of stability that reinforced the Old Order: no strikes, high production, and the like, and in fact took genuine pride in their very substantial administrative aid in restoring the Old Order in a refurbished form. Capitalism survived only where the Communists and Social Democrats were instrumental in reforming it. Elsewhere upheaval and collapse ensued and the Anglo-Americans and their allies had to apply sheer force against the revolutionary response of the people. In this sense the Left became the savior of Western European capitalism….[44]

Kolko raises the question of what would have happened to Europe after the Axis defeat, had Stalin not existed. He mentions Tito’s independent Yugoslav communism as an example of the kinds of movements that might have come to power in eastern Europe, as well as confronting the Western Allies in Greece, Italy, and France.[45]

In short, Stalin and western communist leaders who pledged allegiance to him desired disciplined party organizations under their centralized control not in order to wield them as instruments of revolution, but to restrain any revolutionary activity by their membership. Stalin and the western communist parties arguably performed a function analogous that of official union leaderships under the Wagner/NLRB regime in the United States of enforcing capitalist control against any potential direct action of the rank-and-file.

According to Harman, the agreements at Tehran, Potsdam and Yalta on the division of spheres of influence between the USSR and the Western Allies in Europe “were a death blow to the hopes of the resistance movements” and “gave Stalin’s armies a free hand in Eastern Europe.”

Stalin was not going to let Communists elsewhere upset the arrangement by attempting to lead revolutions, however favourable the mass of people might be. His former foreign minister Litvinov spelt it out bluntly to US representatives in Italy in September 1944: ‘We do not want revolutions in the West’….

This was not just a matter of words. In the spring of 1944 the Italian Communist leader Togliatti had returned to Italy from Moscow. He announced that his party was joining the despised Badoglio government and was prepared to leave the monarchy untouched until the war was over. The French leader, Maurice Thorez, insisted from Moscow that the biggest resistance group, the Communist-led FTP, should integrate into and accept the leadership of de Gaulle’s smaller FFI.[46]

Unlike the situation of the other communist parties in Western Europe, the Italian Communist Party found itself taking second place in the Resistance to the Socialist Party, untainted by any collaboration with the fascist regime. The Communist Party was, as a result, not only quite small but also more militant than it likely would have been absent the need to compete with the socialists. It only underwent rapid expansion from 1943 on, and did not surpass the socialists in membership until 1946. “In a matter of only months the PCI went from being an inconsequential but disciplined Leninist sect to a mass party comprised of members whose future conduct was still unpredictable.”[47]

With the Allied victory in Italy the PCI, forbidden by Stalin to engage in insurrection, continued to organize itself as a mass party with the goal of achieving power electorally.

…[T]hey suppressed all ideological and class criteria for membership: there were no barriers for “religious faith or philosophical convictions,” and their December 1945 platform defended private property, religious freedom, and the family…. But although it dreamed of becoming a party for all classes…, the overwhelming majority of its members still came from the urban working class and poorer rural elements.

The average Communist was, in brief, far from being a heavily indoctrinated, carefully screened revolutionary, but much more likely to be a part of a local social and human network that shared general political goals — a very personal arrangement that endured all sorts of vicissitudes and caused both the Party and its vote to increase over future years.

Aside from the very militant fourth of its membership in the until recently German-occupied north, the nature and strength of ideological commitments of most PCI members in March 1945 are difficult to discern.[48]

Stalin’s policy persisted into the late 1940s, to the extent of dissuading the PCI from any attempt at an insurrectionary seizure of power even if a communist electoral victory were overturned.

While the Berlin crisis was brewing, the imminent victory of the Italian Communist Party (PCI) in April 1948 threatened the balance of power in Europe. Historian Victor Zaslavsky has found ample evidence that the militants of PCI were prepared, if necessary, to seize power by means of military insurrection. The PCI leader, Palmiro Togliatti, schooled in Stalinist ‘‘realism,’’ however, had grave doubts about the outcome of such an adventure. On March 23, Togliatti used secret channels to send a letter to Stalin, asking for advice. He warned the Kremlin leader that PCI’s military confrontation with the opposing political camp could ‘‘lead to a big war.’’ Togliatti informed Stalin that, in the case of a civil war in Italy, the United States, Great Britain, and France would support the anti-Communist side; then PCI would need the assistance of the Yugoslav army and the forces of other Eastern European countries in order to maintain its control over northern Italy. Togliatti’s letter evoked an immediate response from Stalin. He instructed PCI not to use ‘‘armed insurrection for any reasons’’ to seize power in Italy.[49]

Hobsbawm, similarly, observes that “Except in their Balkan guerrilla strongholds, the communists made no attempt to establish revolutionary regimes….”

The communist revolutions actually made (Yugoslavia, Albania, later China) were made against Stalin’s advice. The Soviet view was that, both internationally and within each country, post-war politics should continue within the framework of the all-embracing anti-fascist alliance, i.e. it looked forward to a long-term coexistence, or rather symbiosis, of capitalist and communist systems, and further social and political change, presumably occurring by shifts within the ‘democracies of a new type’ which would emerge out of the wartime coalitions. This optimistic scenario soon disappeared into the night of Cold War, so completely that few remember that Stalin urged the Yugoslav communists to keep the monarchy or that in 1945 British communists were opposed to the breakup of the Churchill wartime coalition, i.e. to the electoral campaign which was to bring the Labour government to power. Nevertheless, there is no doubt that Stalin meant all this seriously, and tried to prove it by dissolving the Comintern in 1943, and the Communist Party of the USA in 1944.

Stalin’s decision, expressed in the words of an American communist leader ‘that we will not raise the issue of socialism in such a form and manner as to endanger or weaken . . . unity’ made his intentions clear. For practical purposes, as dissident revolutionaries recognized, it was a permanent goodbye to world revolution. Socialism would be confined to the USSR and the area assigned by diplomatic negotiation as its zone of influence, i.e. basically that occupied by the Red Army at the end of the war. Even within that zone of influence it would remain an undefined prospect for the future rather than an immediate programme for the new ‘people’s democracies’. History, which takes little notice of policy intentions, went another way — except in one respect. The division of the globe, or a large part of it, into two zones of influence, negotiated in 1944—45, remained stable. Neither side overstepped the line dividing them more than momentarily for thirty years. Both withdrew from open confrontation, thus guaranteeing that cold world wars never became hot ones.[50]

Indeed [in 1945-47], where Moscow controlled its client regimes and communist movements, these were specifically committed to not building states on the model of the USSR, but mixed economies under multi-party parliamentary democracies, which were specifically distinguished from ‘the dictatorship of the proletariat’, and ‘still more’ of a single party. These were described in inner-party documents as ‘neither useful nor necessary’. (The only communist regimes that refused to follow this line were those whose revolutions, actively discouraged by Stalin, escaped from Moscow’s control, e.g. Yugoslavia.)[51]

Of course the dominance of communists in the anti-fascist resistance meant that when Axis occupation regimes collapsed, they were in the physical position to determine the successor regimes.

When the German army was finally defeated, with varying contributions from the local resistance movements…, the regimes of occupied or fascist Europe disintegrated, and social-revolutionary regimes under communist control took over, or attempted to take over, in several countries where the armed resistance had been most effective (Yugoslavia, Albania and — but for the British, and eventually US-backed military support — Greece).[52]

But Stalin was entirely willing to deprive them of the advantage of this position when it suited his interests. In early 1944, he made it abundantly clear to the ELAS resistance that they would receive no Soviet aid, and that the British-backed government in exile in Cairo had his entire support. Indeed, Russian diplomats privately asked Churchill why he put up with Elas (to borrow a line from Animal Farm: “If you have your lower animals to contend with, we have our lower classes”).[53] And at Yalta, he responded to Churchill’s repression of communist guerrillas in Greece with “I have every confidence in British policy in Greece’.”[54] After repression by the right-wing government resulted in civil war in the late 40s, Stalin refused any support to the guerrillas. When Yugoslavia’s Tito and Bulgaria’s Dimitrov backed them, Stalin summoned them in early 1948 and angrily demanded they cease their support as “an impossible challenge to Anglo-American regional interests” — successfully in the case of Dimitrov, but not of Tito. Yugoslavia was shortly thereafter expelled from Cominform, finalizing the USSR-Yugoslav schism.[55]

In response to critiques that any retention of power by Greek revolutionary forces would have been infeasible in any case, Kolko argues that America and Britain could not have forcibly overcome mass revolutionary action in Greece and Italy without jeopardizing their entire anti-German war efforts, and that domestic publics would not have supported such intervention.

But could such a revolutionary movement have taken power given the presence of massive Anglo-American armies? Communist writers have frequently argued that it would have been impossible…. But such skeptical judgments entirely disregard the larger context of the war with Germany, the purely military problems involved, as well as the formidable political difficulties that sustained counter-revolutionary wars would have encountered both in England and the U.S.

It would have been entirely possible for French partisans to impose their control in central-western France following the Allied advance in mid-1944, and any Allied effort to displace them from power would have required the diversion of American and British troops from the anti-German offensive — at a time when, as it was, Germany was able to mount a serious counter-offensive in the Ardennes as late as December. American and British generals would quite likely have opposed such a move, which would have enabled Stalin to occupy more of Germany in the meantime. Likewise, had ELAS decided to forcibly resist British eviction from the territory they controlled in Greece, it would have required a much larger contingent of British troops and undermined their war effort against Germany. “In a word, there was ample reason to believe that had the armed Left been ready to take power in these three nations it would have succeeded in part, if not entirely, for at least an indefinite period.” Their potential for remaining in power was “at least” as great as that of the Bolsheviks in 1917. Further, domestic political opposition “would have been more formidable than even the military hazards.” To convince British and American publics — or the troops themselves — of the need for diverting troops from the war against Germany to put down anti-Axis resistance movements, and to replace them with fascist collaborators and monarchists, would have been “extremely difficult.”[56]

Successful revolutionary action by autonomous communists in Greece, Italy, and perhaps France would have presented not only FDR and Churchill, but Stalin, with their worst nightmares: a leftist western Europe independent of both Western and Soviet control.

Perhaps almost as much as his cynical opportunism and desire for a European condominium with America and Britain, Kolko argues, Stalin’s abandonment of ELAS reflected his fear of any revolutionary forces not subject to his complete control.

…[I]t was at least as important that Stalin profoundly mistrusted the distinctive leftist combination that had emerged in Greece — its enthusiasm and creativity, its mass base and local initiative, and all those independent attributes and the lack of total internal discipline that he sought to expunge from Communist parties everywhere in Europe so as better to control them.

Even after the onset of the Cold War in 1946, Stalin pressured the Greek Communist Party (KKE) to participate in the British provisional government’s rigged elections and lend legitimacy to the regime.[57] The KKE leadership — to no avail, as it turned out — appeased both Stalin and Churchill by recognizing Greece as in Britain’s sphere of influence and asking merely to participate as a legal party in a united front government; it went so far as to limit itself to calling for public order following the Nazi withdrawal, and persuaded ELAS guerrillas to stay outside Athens and let British forces occupy the capital.[58]

In France, Stalin followed the same pattern; he pursued “cordial relations” with de Gaulle from 1942 on and “loyally backed” his goal of postwar power in France to a greater extent than Roosevelt did. He “sternly rebuked any [communist] thought of taking power unilaterally,” and “assured de Gaulle in February 1942 that he would not incite the French to create a Communist regime….”[59] And as the U.S. and Britain attempted to come to agreement between themselves on the composition of the postwar provisional government in France, Stalin assured them (in Averill Harriman’s words) “that it was the Soviet policy to leave the initiative in French policy to the British and ourselves” (i.e. the United States). After the liberation of Paris, Stalin continued to warn the Communist Party not to interfere with orders from de Gaulle or from the Western Allies.[60]

Stalin’s willingness to sacrifice foreign communists for the sake of friendly relations with the West held true in Asia as well. In China, Stalin distanced himself from Mao in order to cement his relationship with the Nationalist regime, and forced the Chinese Communist Party to agree to a truce with the Nationalists, in order to preserve his partnership with the United States.[61]

The USSR and Cold War Lockdown Over the Communist Bloc. As the Soviet army advanced into Eastern Europe, Stalin initially pursued a pluralistic approach to the provisional governments established in liberated countries. This was especially true in the case of Czecholovakia, where prewar President Edvard Beneš maintained excellent relations with Stalin (who was the first major power to recognize his London government-in-exile in 1941). Beneš repeatedly blamed the West’s inordinate fear of the Soviet Union and communism for the failure to stop Hitler in 1939, and stressed the need for a realistic understanding between the Western Allies and the USSR if postwar Europe were to be effectively stabilized.[62] As Soviet troops prepared to enter Czechoslovakia in 1944, Stalin was the only Allied leader to sign a civil affairs agreement with the Beneš exile regime, promising not to intervene in Czech internal affairs.[63] In April 1945 — as the exile government returned to Czechoslovakia — Beneš gave the Communist Party seven of 25 ministries in his government; the CP leader, Clement Gottwald, was a national communist rather than a Stalinist, and was highly rated as a Czech patriot by the London exile community.[64] As Allied goodwill began to break down in 1945, the Soviet Union made it clear that, should the Western powers refuse to accept neutrality, Czechoslovakia would of necessity be expected to align with the USSR.[65] Czechoslovakia and Finland were outliers, on the most liberal side of Soviet Eastern European policy, but multi-party democracy in Czechoslovakia ended only in 1947 following several years of neutralism under a left-oriented coalition government, as part of a larger process of lockdown and sovietization in eastern Europe — a casualty of Cold War tensions.[66]

In the aftermath of Hiroshima, Stalin began to focus increasingly on the need to secure Soviet control of Eastern Europe as a military buffer against the West.

Gromyko’s son Anatoly cites his father as recalling that Hiroshima ‘‘set the heads of the Soviet military spinning. The mood in the Kremlin, in the General Staff was neurotic, the mistrust towards the Allies grew quickly. Opinions floated around to preserve a large land army, to establish controls over extended territories to lessen potential losses from atomic bombings. In other words, atomic bombing of Japan made us once again reappraise the meaning of the entire East European beachhead for the USSR.’’[67]

The new assertiveness of the United States after Hiroshima indicated to Moscow that the Americans wanted to challenge Soviet control over Central Europe and the Balkans. From that moment on, the issue for Stalin was not so much the presence of American military power in Germany but rather the maintenance of the Soviet military presence in Central Europe, above all in the Eastern Zone.[68]

Stalin’s openness to fully sovietizing the occupation regimes in Eastern Europe increased in 1945, as the Western Allies toughened their line against the Soviet Union. On August 20-21, British and American representatives informed the Rumanian king and Bulgarian regent, along with Soviet occupation officials, that they would not recognize the new governments in those countries unless representatives of pro-Western parties were allowed to participate in elections; they also encouraged the domestic opposition to resist in the expectation of Western support. Stalin, seeing this as “atomic diplomacy” in the immediate aftermath of the Japanese bombings, ordered the Soviet military authorities to hold the line and make no alteration in the composition of the new Bulgarian government.[69] Stalin’s refusal to budge resulted in American recognition of the Bulgarian regime, in return for the appointment of token opposition figures to minor cabinet posts.[70]

The pressure toward sovietization intensified in 1948, in response to the Marshall Plan.

Stalin had been considering strengthening his control over European Communist parties since 1946, but the establishment of the Cominform was accelerated by the Marshall Plan. It reflected Stalin’s conviction that, from now on, the Soviets could manage Central Europe only with iron ideological and party discipline. The Communist parties had to renounce ‘‘national roads to socialism;’’ they quickly became Stalinized and rigidly subordinate to Kremlin policies. The imposition of Stalinist controls led to the ‘‘purge’’ of Tito’s Yugoslavia.[71]

This was particularly true of the Soviet occupation zone in Germany, where sovietization proceeded apace. Stalin’s reading of the Marshall Plan left no room for German neutrality.[72]

The rapid consolidation of the Soviet bloc in Central Europe brought about great changes in Soviet policies in Germany. They shifted decisively toward the creation of a Sovietized East Germany at the expense of the campaign for German unity. Stalin did not allow the SED [a union of the Communist and Social Democratic Parties, which Stalin has encouraged as a vehicle for pursuing an electoral road to socialism] to become a member of the Cominform. Yet, the SED leaders, including former Social Democrats, expressed unequivocal loyalty to the Soviet Union and denounced the Marshall Plan. In the fall of 1947, Stalin pushed the East German Communist leadership to organize military formations under the auspices of the German Directorate of the Interior, the police apparatus in the Soviet zone. In November 1947, a Department of Intelligence and Information was set up inside the Directorate of the Interior, with the goal of detecting and uprooting by extralegal methods any opposition to the East German regime.[73]

In the rest of Eastern Europe, likewise, “[t]he USSR followed suit by eliminating the non-communists from their multi-party ‘people’s democracies’ which were henceforth re-classified as ‘dictatorships of the proletariat’, i.e. of the Communist Parties.”[74]

In Asia, Stalin responded to the same “atomic diplomacy” by playing the CCP against the Jiang government in Manchuria, seeking an agreement with China that would cement the Soviet position in Manchuria and prevent the penetration of a US-Japanese alliance onto the mainland. When Jiang broke off talks under US pressure, Stalin gave Mao a green light to expand his attacks to the major cities.[75]

Although they did so with caution and usually some reluctance, Stalin and subsequent Soviet leadership showed a willingness, in the last resort, to maintain Leninist regimes in power in Eastern Europe by force if necessary.

Although Eastern European uprisings against pro-Soviet regimes are commonly framed in the west as being anti-socialist, the closest approach to an accurate generalization would be to characterize them as libertarian socialist, recuperating Marxist notions of worker empowerment against anti-democratic and anti-worker authorities. This was nowhere more evident than in the 1953 uprisings in the Soviet occupation zone of Germany, which were sparked by an increase in work norms. As Chris Harman points out, the participants were anything but right-wing:

The sections of workers who struck were those who had been the most left wing during the Weimar Republic of the 1920s. Some 68 percent of those purged from the Communist Party in East Berlin for taking part in the rising had been members before Hitler’s rise to power. They were old militants who saw the rising as a continuation of the struggle for workers’ control to which they had dedicated their youth.[76]

Indeed workers at the Stalin Allee construction project responded to placation attempts by Minister of Mines Selbmann by taunting: “We are the real communists, not you.”[77]

In 1956 the Soviet leadership went through a scare over Gomulka’s “Polish road to socialism,” but managed to bring him back into line without military intervention.

Beginning in late summer 1956, Poland had become a hotbed of unrest in the Soviet bloc. The collective leadership, despite the recent reconciliation with Tito’s Yugoslavia, viewed the slogan, ‘‘Polish road to socialism,’’ as the beginning of the end for the Warsaw Pact. In their internal discussions, the Presidium members used the same language as Pravda used: “The [Western] imperialists’’ seek ‘‘to separate us,’’ using the language of national roads, ‘‘and defeat one by one.’’ With the aim of propping up the loyal Polish Communists, the Presidium agreed to remove Soviet KGB advisers from Polish security organs and provide economic assistance to the Polish state. But the experience in the GDR in 1953 was fresh on its mind.

The Kremlin’s concern turned into panic on October 19, 1956, when it learned that the Polish Communists were convening a plenum, without any consultation with Moscow, to replace Edward Ochab as their leader with Wladyslaw Gomulka, who had been expelled from the Polish United Workers Party (PUWP) (the Communist Party of Poland) and imprisoned from 1951 to 1954 for ‘‘nationalist deviations.’’ At the same time, the Polish leadership demanded that Soviet advisers in the Polish army also leave, as well as Marshal Konstantin Rokossovsky, a Soviet citizen of Polish descent who had been appointed by Stalin as Poland’s minister of defense. Khrushchev and other Kremlin potentates immediately flew to Warsaw and attempted to bully Gomulka and his Polish colleagues with tough words and raw power, using the presence of Soviet troops on Polish soil. The Kremlin delegation returned home on October 20 in an agitated mood. On that day, the Presidium concluded that ‘‘the remaining solution is to terminate what is going on in Poland.’’ The notes of Vladimir Malin at this point become especially cryptic, but it is probable that the Kremlin rulers decided to take preliminary steps to use Soviet troops and replace the Polish leadership. After Rokossovsky was removed from the PUWP Politburo, however, the collective leadership temporized. Suddenly, Khrushchev suggested ‘‘tolerance’’ and admitted that ‘‘military intervention, under the circumstances, must be cancelled.’’ The Presidium unanimously agreed.

The main reason for this surprising change must have been Gomulka’s speech at the plenum after the Kremlin delegation left Poland. He pledged to build ‘‘socialism’’ and fulfill obligations to the Warsaw Treaty Organization.[78]

The Soviet Union intervened in Hungary only after a period of internal dissension in the leadership over how to respond.

On October 23 [1956], Budapest and the rest of Hungary rose up against the Communist regime….  On October 26, both supporters and secret enemies of Khrushchev in the Presidium approved the introduction of Soviet troops into Budapest. On October 30, the Presidium, however, switched to the policy of negotiations and authorized a declaration on new principles guiding Soviet relations ‘‘with other socialist countries.’’

Foreign observers had long considered this declaration a perfidious trick on the part of Moscow, but historians have recently learned that this declaration resulted from the complex debates at the Presidium that ended with the decision to forgo the use of military force in Hungary. The failure of the first indecisive use of Soviet troops to extinguish the uprising in Budapest and the number of casualties tipped the scales. From Budapest, Mikoyan, the Presidium special emissary, defended the policy of negotiations and compromise with consistency and courage. Mikhail Suslov, another emissary, was obliged to do the same. Zhukov and Malenkov supported the withdrawal of troops….

The proposal to leave Hungary alone split the Presidium. Bulganin, Molotov, Voroshilov, and Kaganovich defended the Soviet right to interfere in the affairs of ‘‘fraternal parties.’’ This, of course, meant that Soviet military force could be used to restore Communist regimes. Then Foreign Minister Shepilov delivered an eloquent speech in favor of withdrawal. He said that the course of events revealed ‘‘the crisis in our relations with the countries of people’s democracy. Anti-Soviet elements are widespread’’ in Central Europe, and, therefore, the declaration should be only the first step toward ‘‘elimination of the elements of diktat’’ between the Soviet Union and other members of the Warsaw Pact. Zhukov, Ekaterina Furtseva, and Matvei Saburov spoke one after another in favor of withdrawal.

The noninterventionist momentum was reversed on the following day, October 31, when the Presidium voted with the same unanimity to order Marshal Ivan Konev to prepare for decisive military intervention in Hungary….

Some scholars have attributed this startling flip-flop to external events, above all, the reports of the gruesome lynching of Communists in Hungary, Gomulka’s fears that the collapse of Communism in Hungary would cause Poland to be next, and the Franco-British-Israeli aggression against Egypt. There was also a large ‘‘spillover’’ effect inside the Soviet Union itself: unrest in the Baltics and Western Ukraine and student hunger strikes and demonstrations in Moscow, Leningrad, and other cities….

The decisive news that tipped the scales was the declaration by the Hungarian leader Imre Nagy that his government had decided to remove Hungary from the Warsaw Pact.[79]

Contrary to the propaganda line of both the Soviet Union and the United States, the Hungarian uprising — like the prior revolt in East Germany — was not an attempt at capitalist restoration. It was at minimum a foreshadowing of Czechoslovakia’s attempt at “socialism with a human face” a decade later, and arguably an authentic libertarian socialist revolution.

Peter Fryer, who was sent to Hungary by the British Communist Party paper, the Daily Worker, reported:

…the striking resemblance [of these committees to] the workers’, peasants’ and soldiers’ councils which were thrown up in Russia in the 1905 Revolution and in February 1917… They were at once organs of insurrection — the coming together of delegates elected in the factories and universities, mines and army units — and organs of popular self government which the armed people trusted.

A section of the regime tried to regain control of the movement, very much as Gomulka was doing in Poland, by putting another disgraced Communist, Imre Nagy, at the head of a coalition government. But on 4 November — just as Britain, France and Israel were attacking Egypt — Russian tanks swept into Budapest and seized key buildings. They faced bitter armed resistance, which they eventually crushed only by killing thousands, reducing parts of the city to rubble, and driving more than 200,000 to flee across the border into Austria. A general strike paralysed the city for more than a fortnight and the Greater Budapest Central Workers’ Council fulfilled the role, in effect, of an alternative government to Russia’s puppet ruler, Janos Kadar. But eventually the workers’ councils were crushed too and their leaders sentenced to years in prison….

The official Communist line was that the revolution was simply a pro-capitalist escapade planned by Western spies. As in so many other cases in the Cold War era, the most common account of the revolution in the West was very similar. It claimed that the revolution simply aimed to establish a ‘free society’ along Western capitalist lines. In fact most of those who played a leading role in the revolution had a wider perspective. They remembered the pre-war dictatorship which had ruled Hungary in the name of capitalist ‘freedom’ and looked to a different system in which workers’ councils would play a key role, even if the speed of events did not give them time to clarify what this system might be. Anyone who doubts this should read the various collections of documents from Hungary 1956 which have been published since.[80]

The Prague Spring, of course, was the actual locus of the slogan “socialism with a human face.” As Harman recounts:

Leading figures in the party forced the president and party secretary Novotny to resign. Intellectuals and students seized the opportunity to express themselves freely for the first time in 20 years. The whole apparatus of censorship collapsed and the police suddenly appeared powerless to crush dissent. The students formed a free students’ union, workers began to vote out state-appointed union leaders, ministers were grilled on television about their policies, and there was public discussion about the horrors of the Stalin era.

Petr Cerny argues that the so-called Prague Spring itself was merely Dubcek’s attempt to replace the Stalinist Party leadership with technocrats. What really mattered was the wave of activism from below that it inadvertently unleashed. Cerny notes the role of workers’ councils, as in Hungary in 1956.

One can only speculate what might have happened in Czechoslovakia, in 1968, if the situation had really got out of control…. But there are certain hints. Just as in 1956 in Hungary, Workers’ Councils began to be formed and showed remarkable resilience in the struggle.[81]

Also as in Hungary, the Soviet leadership vacillated over whether to resort to direct military intervention, but in the end decided in favor.

But all archival evidence demonstrates that throughout the Czechoslovak crisis Brezhnev hoped to avoid ‘‘extreme measures,’’ that is, military invasion. Instead, he preferred to increase political pressure on Dubcek and the Czechoslovak leadership. Brezhnev feared that a Soviet invasion could trigger a NATO response, leading to a European war….

On July 26–27, the Politburo, presided over by Brezhnev, decided to set a provisional date for the invasion of Czechoslovakia. The Soviets continued, however, to negotiate with Dubcek and the Czechoslovak leadership. Brezhnev, among others, tried to bully ‘‘Sasha’’ Dubcek into drastic measures to reverse liberalization and reforms. Once all their attempts failed, the Kremlin leaders finally made the decision on August 21, and the forces of the Soviet Union and other countries of the Warsaw Pact (except for Rumania) occupied Czechoslovakia.[82]

Even so, the level of passive resistance was such that the Soviets were forced to restore the leadership, under a tight leash, and work through them to bring the country under control.

They expected to be able to crush the dissent overnight, but the immediate effect was to deepen and widen it. There was limited physical resistance to the Russian tanks, but enormous passive opposition. Russia was forced to allow the Czechoslovakian government to return home with a promise to bring the dissent under control. It was nine months, interspersed with demonstrations and strikes, before this promise was fulfilled. Eventually Russia succeeded in imposing a puppet government which silenced overt opposition by driving people from their jobs and in some cases imprisoning them. Stalinist state capitalism was to run Czechoslovakia for another 20 years.[83]

Even after the restoration, there were ongoing efforts by workers to recuperate workers’ councils — originally imposed by the state as a controlled reform effort — into genuine organs of self-management. Even after Dubcek announced a discontinuation of workers’ councils, workers at several enterprises continued to elect them in defiance.[84] In the Soviet Union, Pravda ran an article attacking the very idea of workers’ councils as “anti-communist propaganda from the imperialist camp.”

He warned that ‘the demand to hand over enterprises entirely to ownership-and-management-of-production collectives is particularly dangerous.’ ‘Anarcho-syndicalism is a step towards corporatism and fractionalism, towards degeneration and capitalism in socialist society.’ Further ‘it would undermine the authority of the Communist Parties.’[85]

The Soviet leadership was extremely reluctant to invade Poland in response to destabilization by the Solidarity movement, even as a last resort; Brezhnev knew it would end any hope for a revival of detente, and even Andropov and Suslov were apprehensive about the consequences. In the end, Brezhnev was able to maneuver Jaruzelski into declaring martial law in order to avoid direct intervention.[86]

The Soviet Union in the Post-Colonial World. For most of the postwar period, Soviet activity in the Third World was cautious and non-revolutionary.

For several decades the USSR took an essentially pragmatic view of its relations with Third World revolutionary, radical and liberation movements, since it neither intended nor expected to enlarge the region under communist government beyond the range of Soviet occupation in the West, or of Chinese intervention (which it could not entirely control) in the East.[87]

Stalin kept Third World radicals like Nasser and Mossadegh at arm’s length, regarding them with suspicion and failing to capitalize on their nonalignment with the West.[88] Khrushchev, in contrast, saw the potential of anti-Western sentiment in Arab nationalist regimes, and sought closer ties.

The struggle against Molotov and the search for spectacular achievements led Khrushchev and his supporters to rediscover the potential of Arab nationalism in the Middle East. In July 1955, immediately after the devastating criticism of Molotov at the Party Plenum, the Presidium sent Khrushchev’s new favorite Central Committee secretary, Dmitry Shepilov, on a reconnaissance mission to the Middle East. Shepilov met Nasser and invited him to Moscow; he also began to establish friendly relations with leaders of other Arab states who refused to join the Western blocs. Shepilov came back to Moscow from the Middle East convinced that the region had great potential for another ‘‘peace offensive’’ against the Western powers. Andrei Sakharov and other nuclear designers happened to be invited to the Presidium on the day that it discussed Shepilov’s report. An official explained that the leaders were discussing a decisive change of principles of Soviet policy on the Middle East: ‘‘From now on we will support the Arab nationalists. The longer-term target is the destruction of the established relations of the Arabs with Europe and the United States, creation of the ‘oil crisis’ — this will generate problems for Europe and will make it more dependent on us.” In the midst of the strategic stalemate in Europe and the Far East, this region provided a new outlet for the Kremlin’s renewed optimism and ideological romanticism.

The consequences of this policy turn were immediate. The languishing Egyptian-Czechoslovak talks on the sale of arms rapidly came to a successful conclusion, and a flood of Soviet-designed Czechoslovak weaponry streamed into Egypt and Syria. Moscow supplied Egypt with half a million tons of oil and agreed to provide atomic energy technology. To no avail, concerned Western and Israeli officials tried to remonstrate against new Soviet policies publicly and privately. The struggle between Moscow and the West for the Arab Middle East was beginning: in the next two decades, it would generate an unprecedented arms race in the region and produce three wars. In the immediate future, Moscow would be triumphant and destroy Western plans of containment on the southern flank of the Soviet Union. At the same time, as in the case of the GDR, heavy Soviet investment in its Arab clients would turn Egypt and Syria into major assets, similar to East Germany, that the Kremlin could not afford to lose. The Middle Eastern venture began as a geopolitical gamble, but it ended as a contributing factor to the Soviet imperial overstretch of the 1970s.[89]

Even so, Khrushchev limited himself for the most part to seeking a common anti-Western alignment with the existing bourgeois nationalist regimes in the Third World, rather than actively promoting revolutionary change. At least until the intervention into Angola and Mozambique in the 1970s, Soviet support for communist revolutions in the Third World was generally in response to pressure from the latter.

Both sides, Hobsbawm states, tacitly accepted the boundaries of each other’s zones of influence, and during the 1950s and 1960s no indigenous revolutionary changes appeared on the globe to disturb this balance, except in Cuba. He adds:

The revolutions of the 1950s in the Middle East, Egypt in 1952, and Iraq in 1958, contrary to Western fears, did not change the balance, in spite of providing much scope for USSR diplomatic success, chiefly because the local regimes eliminated their own communists ruthlessly, where they were influential, as in Syria and Iraq.[90]

This process continued in the Khrushchev years, as “a number of home-grown revolutions, in which communist parties played no significant part, came to power under their own steam, notably in Cuba (1959) and Algeria (1962).”

African decolonisation also brought to power national leaders who asked for nothing better than the title of anti-imperialist, socialist and friend of the Soviet Union, especially when the latter brought technical and other aid not tainted by the old colonialism: Kwame Nkrumah in Ghana, Sekou Touré in Guinea, Modibo Keita in Mali, and the tragic Patrice Lumumba in the Belgian Congo, whose murder made him a Third World icon and martyr. (The USSR renamed the Peoples’ Friendship University it established for Third World students in 1960, ‘Lumumba University’.) Moscow sympathized with such new regimes and helped them, though soon abandoning excessive optimism about the new African states. In the ex-Belgian Congo it gave armed support to the Lumumbist side against the clients or puppets of the USA and the Belgians in the civil war (with interventions by a military force of the United Nations, equally disliked by both superpowers) that followed the precipitate granting of independence to the vast colony. The results were disappointing. When one of the new regimes, Fidel Castro’s in Cuba, actually declared itself to be officially communist, to everyone’s surprise, the USSR took it under its wing, but not at the risk of permanently jeopardising its relations with the USA. Nevertheless, there is no real evidence that it planned to push forward the frontiers of communism by revolution until the middle 1970s, and even then the evidence suggests that the USSR made use of a favourable conjuncture it had not set out to create. Khrushchev’s hopes, older readers may recall, were that capitalism would be buried by the economic superiority of socialism.

Indeed, when Soviet leadership of the international communist movement was challenged in 1960 by China, not to mention by various dissident Marxists, in the name of revolution, Moscow’s parties in the Third World maintained their chosen policy of studied moderation. Capitalism was not the enemy in such countries, insofar as it existed, but the pre-capitalism, local interests and the (US) imperialism that supported them. Armed struggle was not the way forward, but a broad popular or national front in which the ‘national’ bourgeoisie or petty bourgeoisie were allies. In short, Moscow’s Third World strategy continued the Comintern line of the 1930s against all denunciations of treason to the cause of the October revolution….[91]

Like most of the other Third World nationalist leaders who made common cause with the USSR, Castro was initially ambivalent at best toward the local communist party.

Though radical, neither Fidel nor any of his comrades were communists nor (with two exceptions) even claimed to have Marxist sympathies of any kind. In fact, the Cuban Communist Party, the only such mass party in Latin America apart from the Chilean one, was notably unsympathetic until parts of it joined him rather late in his campaign. Relations between them were distinctly frosty. The US diplomats and policy advisers constantly debated whether the movement was or was not pro-communist — if it were, the CIA, which had already overthrown a reforming government in Guatemala in 1954, knew what to do — but clearly concluded that it was not.

However, everything was moving the Fidelist movement in the direction of communism, from the general social-revolutionary ideology of those likely to undertake armed guerrilla insurrections to the passionate anti-communism of the USA in the decade of Senator McCarthy, which automatically inclined the anti-imperialist Latin rebels to look more kindly on Marx. The global Cold War did the rest. If the new regime antagonized the USA, which it was almost certain to do, if only by threatening American investments, it could rely on the almost guaranteed sympathy and support of the USA’s great antagonist. Moreover, Fidel’s form of government by informal monologues before the millions, was not a way to run even a small country or a revolution for any length of time. Even populism needs organization. The Communist Party was the only body on the revolutionary side which could provide him with it. The two needed one another and converged. However, by March 1960, well before Fidel had discovered that Cuba was to be socialist and he himself was a communist, though very much in his own manner, the USA had decided to treat him as such, and the CIA was authorized to arrange for his overthrow….[92]

The Soviet model of development encouraged authoritarian, bureaucratic regimes in the Third World.

Conversely, the ideologies, the programmes, even the methods and forms of political organization which inspired the emancipation of dependent countries from dependency, backward ones from backwardness, were Western: liberal; socialist; communist and/or nationalist; secularist and suspicious of clericalism; using the devices developed for the purposes of public life in bourgeois societies — press, public meetings, parties, mass campaigns, even when the discourse adopted was, and had to be, in the religious vocabulary used by the masses. What this meant was that the history of the makers of the Third World transformations of this century is the history of elite minorities, and sometimes relatively minute ones, for — quite apart from the absence of the institutions of democratic politics almost everywhere — only a tiny stratum possessed the requisite knowledge, education or even elementary literacy….

None of this means that the Westernising elites necessarily accepted all the values of the states and cultures they took as their models. Their personal views might range from 100 per cent assimilationism to a deep distrust of the West, combined with the conviction that only by adopting its innovations could the specific values of the native civilization be preserved or restored. The object of the most wholehearted and successful project of ‘modernization’, Japan since the Meiji Restoration, was not to Westernize, but on the contrary to make traditional Japan viable. In the same way, what Third-World activists read into the ideologies and programmes they made their own was not so much the ostensible text as their own subtext. Thus in the period of independence, socialism (i.e. the Soviet communist version) appealed to decolonized governments, not only because the cause of anti-imperialism had always belonged to the metropolitan Left, but even more because they saw the USSR as the model for overcoming backwardness by means of planned industrialization, a matter of far more urgent concern to them than the emancipation of whatever could be described in their countries as ‘the proletariat’. Similarly while the Brazilian Communist Party never wavered in its commitment to Marxism, a particular kind of developmental nationalism became ‘a fundamental ingredient’ in Party policy from the early 1930s, even when it conflicted with labour interests considered separately from others’. Nevertheless, whatever the conscious or unconscious objectives of those who shaped the history of the backward world, modernization, that is to say, the imitation of Western-derived models, was the necessary and indispensable way to achieve them.[93]

The Soviet Union took a cautious approach to actual communist movements in the Third World, attempting to be a restraining influence at least much as a support.

Previously, the Soviet leadership had not ascribed any geopolitical importance to Vietnam and Indochina. They sought, in vain, to dissuade Hanoi from starting the war against the South. They feared, historian Ilya Gaiduk concludes, that this war would be “an impediment to the process of détente with the United States and its allies.” The direct U.S. intervention, however, forced the Politburo’s hand. Now the ideological call for “fraternal duty” prevailed.[94]

In a February 1965 trip to Hanoi, Kosygin tried and failed to dissuade North Vietnam from full-scale war against the United States.[95]

Even in the case of Cuba’s mid-1970s adventures in the former Portuguese colonies in southern Africa, Yuri Andropov confided after the fact to veteran diplomat Oleg Troyanovsky that “the Soviets ‘were dragged into Africa’ against their best interests.”[96] The Soviet leadership itself was “incapable of bold schemes and initiatives.”

It took other dynamic and ideologically motivated players to drag the Soviet leaders into the African gambit, including Angola’s Agostino Neto and Ethiopia’s Mengistu Haile Mariam, but especially Fidel Castro and his revolutionary colleagues in Cuba. Contrary to U.S. belief, the Cuban leaders were not mere puppets or surrogates of Moscow. Since the 1960s, Fidel and Raul Castro, Che Guevara (until his death in 1967), and other Cuban revolutionaries had supported revolutionary guerrilla operations in Algeria, Zaire, Congo (Brazzaville), and Guinea-Bissau. The flight of the United States from Vietnam in 1975 was, Cubans believed, a chance for another round of anti-imperialist struggles in sub-Saharan Africa.[97]

…According to one version, Gromyko, Grechko, and Andropov recommended that the Politburo send modest nonmilitary assistance to the MPLA but cautioned against direct involvement in the Angolan civil war. A few days later, however, the International Department transmitted the Angolan request for arms to the Politburo. After briefly hesitating, the same troika reversed its position and supported the request. In early December 1974, immediately after the Vladivostok summit, the pipeline for military assistance was opened. This reversal may have been the result of lobbying by Soviet and Cuban friends of Neto, as well as bureaucratic logrolling in the absence of Brezhnev’s direct involvement.[98]

…Two weeks after the signing of the Final Act in Helsinki, Castro sent Brezhnev a plan for transporting Cuban regular military units to Angola. At that time, Brezhnev flatly refused to expand Soviet military assistance in Angola or to transport Cubans there. Yet, by November, puzzlingly, the first Cuban combat troops were fighting on the side of MPLA. Kornienko later asserted that the Cubans outfoxed the Soviet military representatives in Cuba, making them believe that they had authorization from the Kremlin to fly them across the ocean. Gromyko, Grechko, and Andropov were surprised; they agreed that Cuban involvement could lead to a sharp American reaction, complications for détente, and even tension around Cuba itself. Meanwhile, the Cubans had already begun ‘‘Operation Carlota’’ to save the MPLA. What makes this story even more puzzling is the total absence of evidence coming from the Cuban archives in Havana.

Two years earlier, Brezhnev had done nothing to assist the collapsing socialist government of Salvador Allende in Chile and rejected his plea for loans.[99]

Increasing Integration of the USSR Into the Capitalist World Order. One might even argue that, as the USSR fell behind in its struggle to offer a rival model of economic development, it went beyond collaborative competition and was to some extent actually integrated into the capitalist world economy.

In the immediate post-WWII period, the world communist movement lived in hope — and many in Western ruling circles in fear — that the USSR would be competitive with the West in terms of economic growth. Only in the 1960s did it become clear that this had been an illusion.[100] The idea of international politics as a struggle between two social systems, represented by two superpowers, became “increasingly unrealistic”; by the 1980s “it had as little relevance to international politics as the Crusades.”[101]

Third-world countries believed only public action could lift their economies out of backwardness and dependency. In the decolonised world, following the inspiration of the Soviet Union, they were to see the way forward as socialism. The Soviet Union and its newly extended family believed in nothing but central planning. [102]

The Soviet Union was progressively pigeonholed into what was essentially a Third World export-oriented model in the international division of labor.

…[S]o far from becoming one of the industrial giants of world trade, the USSR appeared to be internationally regressing. In 1960 its major exports had been machinery, equipment, means of transport, and metals or metal articles, but in 1985 it relied for its exports primarily (53 per cent) on energy (i.e. oil and gas). Conversely, almost 60 per cent of its imports consisted of machinery, metals etc. and industrial consumer articles. It had become something like an energy-producing colony of more advanced industrial economies — i.e. in practice largely its own Western satellites, notably Czechoslovakia and the German Democratic Republic, whose industries could rely on the unlimited and undemanding market of the USSR without doing much to improve their own deficiencies.[103]

The trouble for ‘really existing socialism’ in Europe was that, unlike the inter-war USSR, which was virtually outside the world economy and therefore immune to the Great Slump, now socialism was increasingly involved in it, and therefore not immune to the shocks of the 1970s. It is an irony of history that the ‘real socialist’ economies of Europe and the USSR, as well as parts of the Third World, became the real victims of the post-Golden Age crisis of the global capitalist economy, whereas the ‘developed market economies’, though shaken, made their way through the difficult years without major trouble, at least until the early 1990s. Until then some, indeed, like Germany and Japan, barely faltered in their forward march. ‘Real socialism’, however, now confronted not only its own increasingly insoluble systemic problems, but also those of a changing and problematic world economy into which it was increasingly integrated….

…For oil producers, of whom the USSR happened to be one of the most important, [the oil crisis] turned black liquid into gold. It was like a guaranteed weekly winning ticket to the lottery. The millions simply rolled in without effort, postponing the need for economic reform and, incidentally, enabling the USSR to pay for its rapidly growing imports from the capitalist West with exported energy. Between 1970 and 1980 Soviet exports to the ‘developed market economies’ rose from just under 19 per cent of total exports to 32 per cent.[104]

The West’s Vision of Postwar World Order. The basic doctrine behind America’s vision of the postwar world was stated by Cordell Hull as early as 1935: “It is the collapse of the world structure, the development of isolated economies that has let loose the fear which now grips every nation, and which threatens the peace of the world.”[105] Far from a mere idealistic vision of international comity, this reflected specifically American economic interests. In 1936, Assistant Secretary of State Francis Sayre, chairman of Roosevelt’s Executive Committee on Commercial Policy, warned: “Unless we can export and sell abroad our surplus production, we must face a violent dislocation of our whole domestic economy.”[106]

These views amounted to a restatement of what had been the general American view of things — which William Appleman Williams called “Open Door Empire” — since the beginning of the 20th century. The Roosevelt administration saw the guarantee of American access to foreign markets as vital to ending the Depression and the threat of internal upheaval that went along with it.

FDR’s ongoing policy of Open Door Empire, confronted with the withdrawal of major areas from the world market by the autarkic policies of the Greater East Asia Co-Prosperity Sphere and Fortress Europe, led directly to American entry into World War II. The Open Door Empire ideology was reflected in the Grand Area concept formulated by State Department planners in the period immediately leading up to American entry into the Second World War.

On September 12, 1939, the State Department and the Council on Foreign Relations began a joint planning project to analyze various long-term problems of the war, and to plan a postwar order. Its conclusions were to be presented as a recommendation to the Department of State and President Roosevelt. After the fall of France, policy planners were horrified at the possibility that Germany might defeat Britain, capture some portion of its fleet, and cut off the Empire from U.S. commerce.[107] Assistant Secretary of State Breckinridge Long warned that “every commercial order will be routed to Berlin and filled… somewhere in Europe rather than in the United States,” resulting in “falling prices and declining profits here and a lowering of our standard of living with the consequent social and political disturbances.”[108]

The Economic and Financial Group, one of the project’s five study groups, accordingly began a study of U.S. dependence on world markets and resources, and the viability of economic autarky within the Western Hemisphere in the event the war cut the U.S. off from its traditional spheres of interest. The group divided the world into major blocs, and created an input-output analysis of the production and trade of each bloc and its dependence on outside trade. It found that the Western Hemisphere would not be viable on its own; the United States required, at the least, a larger economic bloc of the Western Hemisphere, the British Empire, and the Far East (together comprising what was later called the “Grand Area”). On October 19, 1940, the study group issued its conclusions in Memorandum E-B19, arguing the need to integrate the non-German world under U.S. economic leadership.[109]

Meanwhile, increasing portions of the Far East were being integrated into Japan’s Greater East Asian Co-Prosperity Sphere. Japan envisioned the latter as its own version of the Grand Area, eventually encompassing Indochina, Burma, Thailand, Malaya, the Dutch East Indies, and the Philippines, in addition to the already occupied areas of Korea, Manchuria, and northern China. Japan considered control of this area necessary for economic self-sufficiency, particularly in raw materials.[110]

The Economic and Financial Group met on November 23 to consider measures to prevent Japan from conquering Southeast Asia and shutting out the U.S.[111] On December 14 all five study groups met with a State Department representative and issued a memorandum to Cordell Hull and FDR dated January 15, 1941, stating that it was essential for the U.S. to maintain access to the raw materials of the Philippines, Malaya, and the Dutch East Indies. It proposed aid to China to tie down Japanese forces, air and naval assistance to the defense of Southeast Asia, and an embargo on war materiel to Japan.[112] Within six months the United States implemented its recommendations of aid to China and an embargo against Japan, beginning a chain of events that led to war.[113]

Cordell Hull, in May 1941, stated America’s economic aims for the postwar world in terms that were classic Open Door Empire:

“Extreme nationalism” could not be expressed “in excessive trade restrictions“ after the war. “Non-discrimination in international commercial relations must be the rule,” and “Raw material supplies must be available to all nations without discrimination,” including the careful limitation of commodity agreements affecting the consumer nations, such as the United States. Lastly, in regard to the reconstruction of world finance, “The institutions and arrangements of international finance must be so set up that they lend aid to the essential enterprises and the continuous development of all countries, and permit the payment through processes of trade consonant with the welfare of all countries.”[114]

In a July 1942 public address on economic war aims, Hull elaborated on his earlier vision:

The future required American leadership in the world economy, “the opposite of economic nationalism,” or a new internationalism which many American allies feared was synonymous with American hegemony over the world economy. To the colonial nations Hull’s often repeated words conveyed undertones of a new colonialism: “Through international investment, capital must be made available for the sound development of latent natural resources and productive capacity in relatively undeveloped areas.” And the supreme role of the United States in this global undertaking struck many Allies as potentially damaging to their interests: “Leadership toward a new system of international relationships in trade and other economic affairs will devolve very largely upon the United States because of our great economic strength. We should assume this leadership, and the responsibility that goes with it, primarily for reasons of pure national self-interest.”[115]

The problem of access to foreign markets and resources was central to U.S. policy planning for a postwar world. Given the structural imperatives of “export dependent monopoly capitalism,”[116] the threat of a postwar depression was real. Already, during the Great Depression of the 1930s, the American economy was unable to operate at the level of output needed to fully utilize its production capacity. Wartime industrial expansion exacerbated this problem immensely by vastly expanding plant and equipment at taxpayer expense. The domestic market was simply incapable of absorbing sufficient output to keep the wheels of industry turning. Fears of a postwar depression, when military procurement orders ceased and service-members were thrown back on the civilian job market, weighed heavily on U.S. leadership.[117] A world free from restrictions on the export of both American capital and American goods, by imperial trading blocs or autarkic arrangements by regional powers, was therefore very much a matter of national self-interest from the capitalist perspective of its policy-makers.

In November 1944, in an address to the Congressional committee on Postwar Economic Policy and Planning, Dean Atcheson warned of the consequences if the war were to be followed by a slide back into depression.

…[I]t seems clear that we are in for a very bad time, so far as the economic and social position of the country is concerned. We cannot go through another ten years like the ten years at the end of the twenties and the beginning of the thirties, without having the most far-reaching consequences upon our economic and social system.”

The problem was markets, not production. “You don’t have a problem of production…. The important thing is markets. We have got to see that what the country produces is used and is sold under financial arrangements which make its production possible.” Short of the introduction of a command economy, with controls over income and distribution to ensure the domestic consumption of all that was produced, the only way to achieve full output and full employment was through access to foreign markets.[118]

Based on their experience of the Depression — along with the resulting revolutionary and military upheavals of the 30s — American leadership wished above all to “prevent its recurrence.” They “did not simply wish to repair the prewar world economy, but to reconstruct it anew. There was a remarkable unanimity in Washington on this objective, and it was by far the most extensively discussed peace aim, surpassing any other in the level of planning and thought given to it.”

The American leadership would achieve this by creating a rational postwar global political and economic order. “In the last analysis the solution to the world’s political problems could be found in a rationally ordered world economy, and this guiding assumption colored United States response to specific problems in Europe, Asia, and Latin America continuously during World War II and thereafter.”[119] The resulting policy vision entailed securing Western postwar control, under American leadership, over the markets and resources of the global “Grand Area” through institutions of global economic governance.

The United States, accordingly, began planning for postwar reconstruction and an American-dominated world order even before it entered the war. CFR Memorandum E-B34, dated July 24, 1941, stressed the importance of the Grand Area structure in reorganizing the postwar world, and especially integrating the European economies under American leadership, in the event of U.S.-British victory.[120] Integration required “a conscious program of broadly conceived measures for… securing the full use of the economic resources of the whole area.”[121] It followed up on an earlier memorandum of July 10 in recommending the creation of global financial institutions to stabilize currencies and promote investment and development in backward areas — what eventually became the Bretton Woods institutions.[122]

The Grand Area had to be protected, above all, from “defection from within” by any power which sought to remove its resources and markets from the integrated global economy. This vision of a “Free World” under U.S. leadership, and of any power which threatened U.S. hegemony as an “aggressor” to be “contained,” considerably predated the emergence of the USSR as the specific power playing the “aggressor” role.

Starting very early in the war, policy planners unabashedly defined U.S. global hegemony as the central war aim. On December 15, 1941, Isaiah Bowman, head of both the CFR and the Territorial Study Group, wrote Foreign Affairs editor Hamilton Fish Armstrong that the United States had to “think of world-organization in a fresh way,” and refrain from throwing away its arsenal at the moment of victory. “It must accept world responsibility…. The measure of our victory will be the measure of our domination after victory.” On January 16, 1942 Bowman stated in a memorandum that the U.S. after victory would have to adopt a broader vision of its security interests, to include areas “strategically necessary for world control.”[123] So the United States already saw its future hegemony over the other Western Powers — and more particularly the Third World — as a necessity, at a time when the day-to-day survival of the Soviet Union was in grave doubt, let alone any future bipolar competition with a nuclear-armed communist superpower.

Norman Davis, Chairman of the Security Subcommittee of the State Department Advisory Committee on Postwar Foreign Policy (and also CFR President) stated in a meeting of the committee on May 6, 1942 that the British Empire “as it existed in the past will never reappear and that the United States may have to take its place.” At the same meeting, General George V. Strong, who had worked on the State Department-CFR War-Peace Studies project in 1940, advocated “a mental view toward world settlement which will enable us to impose our own terms, amounting perhaps to a pax-Americana.”[124]

The first requirement for the postwar economic order was a guarantee of access to raw materials in the Third World. Charles P. Taft, director of the State Department’s Office of Wartime Economic Affairs, predicted in May 1944 that most metals and oil would eventually have to be imported. It was therefore necessary to export goods and capital, for which the developing world could pay only in raw material exports. This required, in turn, a new version of the “Open Door” — not, as before, mere parity of all foreign interests with the most favored nation, but also parity of foreign with domestic interests. This meant no protection, not import substitution at all, for promoting Third World industrialization.[125]

The second requirement was expanded foreign markets to absorb increased output and prevent a postwar depression. The War Production Board in April 1944 estimated that victory in Europe would release two million soldiers and 3.5 to 4 million civilian workers from employment, and reduce demand for industrial output by $27 billion. That meant replacing the lost war output with an enormous increase in consumer goods production. And as Harry Hawkins, director of the State Department’s Office of Economic Affairs, explained, “the American domestic market can’t absorb all that production indefinitely. There won’t be any question about our needing greatly increased foreign markets.”[126]

Finally, the postwar order required foreign outlets for America’s surplus capital. In an economy with such high levels of existing fixed capital and high capital-labor ratios, further inputs of capital had reached the point of diminishing returns. The economy simply could not absorb large amounts of additional investment with any prospect of decent returns. Compounding the problem, there was an enormous glut of wartime savings, which could not be profitably invested in domestic industry.[127] Dean Atcheson later looked back nostalgically on the British colonial system of the nineteenth century, which enabled Britain to export capital and maintain domestic political stability.

…[A] system for the export of capital, much greater than our hand-to-mouth efforts, is necessary. The system has been destroyed which expanded the power of Western Europe and permitted industrial development in societies in which individual liberty survived.[128]

American plans for the postwar world came into direct conflict with those of its British allies. In the American vision, a unified world market free of regional economic blocs was to be enforced by the United States, as hegemonic global power.

The United States determined to oppose its other allies’ creating blocs and spheres of interest, but also to shape the future United Nations in a manner that acknowledged not just great power among the members of the Security Council, but also the distinctive role of the United States as the most powerful nation on earth.[129]

In contrast to the American vision of a single global economic order, presumably enforced by the United States as senior partner in a global concert and with the United Nations as a barely disguised glove for the American fist, Britain envisioned a postwar world of regional blocs — including its own Imperial trade preference and sterling monetary bloc, and a Western European economic and security bloc under British leadership — an arrangement “which would leave England with the empire and a predominant position in a united Europe.”[130] This was the main source of friction between the Americans and British during the war.[131]

American pressure, reinforced by the leverage of Lend-Lease, was sufficiently great to exact Britain’s assent to the vague terms of Article IV of the Atlantic Charter: “…they will endeavor with due respect for their existing obligations, to further the enjoyment by all States… of access, on equal terms, to the trade and to the raw materials of the world which are needed for their economic prosperity.” But during the war the U.S. was still unable to obtain a British renunciation of a sterling bloc or of imperial preference.[132]

With the end of the war in Europe and the termination of Lend-Lease, the rapid deterioration of the British financial situation and their desperation for American financial assistance put an end to the struggle on American terms.[133]

The West As Counter-Revolutionary/Counterinsurgent Power. To the same extent or greater than the end of WWI, the United States late in WWII found itself faced with “the problem of the Left, the nascent civil war within a world war in the form of masses in revolt throughout the globe….”[134]

Despite the actual nature of Stalin’s policy as conservative and stabilizing — even to the point of facilitating the West’s control of its sphere of influence — the Western powers saw themselves as confronted with a revolutionary situation fueled by “International Communism,” which it was their task to halt. And indeed the peoples of Europe and the colonial world were radicalized — but they were hindered by Stalin and his successors as least as much as helped. At the same time, the West unwittingly pushed them onto far more radical paths than would have been the case had they been able to participate in the reformist coalitions Stalin urged on them, and that were their own first choice. As Kolko describes the situation:

However delayed its effects or the complexity of the reasons for them, World War Two radicalized a historically unprecedented fraction of Europe’s and Asia’s masses and mobilized them into leftist political parties as well as armed organizations. And what with the fragility of the traditional political and social elites, and the fatal compromises so many of them made with diverse forms of fascism and reaction, the Left emerged from the war not only far more powerful but, more important, with a degree of nationalist legitimacy that most of its conservative rivals could no longer claim. That so many revolutionary leaders ultimately became unimaginative functionaries who had no intention of disobeying Stalin’s strictures is essentially irrelevant: very few people in 1945 understood the many ways in which the USSR had become a major source of stability in the world. More important, it was the Communist parties’ and the Resistance armies’ abilities to take power rather than their intentions or Moscow’s inhibitions that struck anti-Communist politicians as the crucial challenge facing them.

In many nations, conservatives perceived their task as not merely to block change but to destroy entirely the capacity of those on the Left to defy them in any manner, whether parliamentary or violent….

It was the existence of such draconian constraints and the loss of freedom in a number of nations after 1945 that created the principal problem confronting the Left and altered the political landscape in ways that made it appear an armed threat. In a context in which Communist parties loyal to the Soviet line would willingly have acquiesced to be integrated into a peaceful political milieu had they been allowed to do so, the stages by which docile parties were transformed into nominally revolutionary ones… all engendered certain attributes: most important were the traditional ruling classes’ elimination of the ability of Communist parties to continue along the essentially social democratic route that the USSR or their own inclinations preferred. In a word, conservative forces compelled leftists to act defensively or to face extinction, and what were described as revolutionary efforts in nations such as Greece and the Philippines actually began as unwilling and indecisive reactive responses on the part of hitherto unknown men and women.[135]

And the communist parties in these countries were mass organizations, swollen by an influx of members who had joined the antifascist resistance during the war, from a background of diverse political traditions on the Left and in the labor movement — as well as previously apolitical people from the laboring classes with no real political tradition at all. These people were about as far from the Leninist ideal of disciplined, obedient cadres as can be imagined, and at times it was impossible for the old party leaderships to control many of their members; this was especially true when repressive measures by Allied-installed provisional governments or colonial regimes pushed them into defying Stalin’s counsel of cooperation with the Western powers.[136]

Starting in 1943, when the tide turned against the Axis and the Western Allies began to consider the problem of creating a postwar order in Europe, according to Kolko, the Allies were faced with the total discreditation of the prewar status quo and conservative elites, and the likelihood that a Resistance dominated by the Left would sweep into power following the collapse of the Axis occupation regimes.

The United States and Britain could see powerful Communist movements emerging throughout Western and Southern Europe and the central role of the Communists in the leadership of the armed Resistance. The Resistance attracted men and women who exhibited the courage and abandon of nationalist revolutionaries. They developed appropriate leftist ideologies, and might in time become social-revolutionary actors as well, to purge not only the foreign invaders but also those domestic forces of conservatism that had collaborated with fascism and made its victory so easy. Would the Resistance act, would the Communists take power? If historians have hardly examined the internal world of these movements in relation to global politics, it is also a fact that the American and British leaders at the time similarly failed to perceive them clearly and correctly, for there was seemingly no alternative but to prepare for the worst or face a possible effort to wrest from the West the political victory that was the objective of their military sacrifices and triumph.

Given the collapse of the prewar power of the social forces that had contained the Left after 1920, the question confronting the United States and Britain was how to fill the vacuum and what to do with the traditional parties of conservative order. Between 1943 and 1947 the Western Allies developed, at first haphazardly and then with deliberate consciousness, a coherent policy toward this dilemma….[137]

As the Americans and British contemplated their return to Europe during 1943 and 1944 they also had to consider the problem of the political and social systems that might emerge within nations wracked by war. Everything they saw in this regard disturbed them, for throughout Western and southern Europe the political tides were blowing strongly toward the left and challenging the one unifying and fundamental premise both the Americans and English shared: anti-Communism….

…Other left parties in many nations were no less powerful, and were frequently more militant than the Communist party. During 1944-1945 the dominant current among the now radicalized prewar Social Democratic and Socialist parties was in favor of a United Front of all the Left to defeat fascism and build a new society, for the failure of the Left to collaborate more fully in the 1930’s nearly led to its total physical demise before the onslaught of reaction. The Communists too accepted the concept of the United Front, making their political potential all the more credible and frightening in areas where democratic freedoms existed.

The role of the Communist parties in the Resistance posed immediate problems of physical security which could not wait for time or evolution…. Everywhere they looked the Americans and British saw political dangers on the left, and they had to prepare for the worst or else risk political defeat after their military triumphs.[138]

The United States and Great Britain formulated Operation RANKIN primarily with such fears in mind. It was a plan against the contingency that Germany and its occupation regimes collapsed before the OVERLORD invasion — in which case Anglo-American forces would invade the Continent in force, rapidly occupy France and the Rhineland, and land paratroops in Hamburg and Berlin.[139] As Harry Hopkins stated in March 1943: “It will, obviously, be a much simpler matter if the British and American armies are heavily in France or Germany at the time of the collapse.”[140]

The West and the Division of the Postwar World. When the United States and Great Britain took possession of former Nazi-occupied territory, they became responsible for managing a population which had been politicized — and radicalized — to unprecedented levels.

Although when the war began people in most nations related to society and each other with intense personalism and lethargy, by 1945 a greater proportion of Europe’s population had become politicized than at any time in this century. This fundamental transformation of political attitudes and goals, this process of resocialization, became the essential precondition for the emergence of Resistance movements; but its significance far transcended it because it left a persistent legacy of political attitudes that by the end of the war, and then afterward, shaped European politics long after the Resistance disappeared in most nations as a potential armed threat to the existing political and class structures….

And given the class nature of the occupation regimes and the very different responses of social constituencies to the Nazi onslaught, it was also inevitable that… [the occupied population] should redefine their attitudes toward the dominant prewar class — especially where it was so profoundly compromised as collaborators.[141]

…[I]t was precisely the social and class nature of various Resistance organizations, their political and ideological visions and the potential for civil and class conflict they implied, that made them so fraught with implications for the future of various European nations as well as the international power balance axiomatically linked to internal politics.[142]

This resulted in “the emergence of the specter, to a degree otherwise unimaginable in 1939, of basic social transformation, even revolution, in the wake of resistance.” The ruling circles of the soon-to-be victorious Western Allies, from 1943 on, were confronted with the question of whether Europe would be swept by a wave of revolution comparable to that following WWI.[143] Specifically, thanks to the widespread discredit of social democrats for collaboration, and the leading role of communists in the Resistance, Britain and the United States found themselves facing a Western European Left in which communist parties had an outsized influence.[144]

…[A]fter 1943 the armies and police forces that had once protected conservative political structures were, if not defunct, at least greatly compromised and immeasurably weakened. For many potentially decisive weeks or even months, in large portions of Europe no credible armed force stood between an organized and often armed Resistance, one drawn mainly from and allied with the working class and poorer peasantry, and its conquest of political and administrative power.[145]

In short, at the end of the war Great Britain and the United States were faced with the question of “the extent to which they could permit” the unprecedented radicalization and political mobilization of European populations “to define the war’s political aftermath and seize the fruits of their military victory from them.”[146]

There being no indigenous repressive forces capable of containing the Left in former Axis territory, as the Freikorps and Mussolini had done after WWI, that role fell to the American and British occupiers themselves. And as Kolko notes, they were abetted by the USSR, which played a “stabilizing role” in preserving “the very existence of traditional capitalist social systems.”[147]

As we saw above, Stalin was more than willing to discipline communists and rein in their radicalism in liberated territories under Soviet control, so long as he had some hope of an entente with the West. He did likewise with the communist parties of Western Europe. Seeing it as imperative “to assuage Anglo-American fears of an aggressive postwar communism,” Stalin pursued a policy of making the Western European parties “much less militant at a crucial point when most of their countless new adherents were being radicalized and were still far from disciplined.”[148]

In Italy, there was considerable dissension between Britain and the United States over the nature of the provisional government. The British, considering themselves to have the paramount interest in Italy, claimed the right to play the dominant role in organizing the new government; FDR refused to concede this. But both Western Allies agreed that the Left should not be allowed to fill the gap left by the collapse of Mussolini’s regime and gradually retreating German occupation forces in the north; despite the publicly stated goal of “defascistization,” both British and American officers found it far easier in practice “to leave existing officeholders at their posts,” and the British (soon imitated by the Americans) used “the existing administrative system, including the police.” Only the socialists were strongly in favor of totally purging fascists from the administration, and even the Communist Party was “lukewarm” on the subject.[149]

The primary dispute between the Western Allies concerned Churchill’s desire to establish a reactionary regime under King Victor Emmanuel III and Marshal Badoglio (a fascist collaborator until 1943), as the “sole barrier to ‘rampant Bolshevism’.”[150] Immediately following Roosevelt’s March 1944 demand that Badoglio be removed because of his unpopularity, Stalin came to Churchill’s aid by recognizing Badoglio’s government; shortly thereafter the Communist Party announced its intent to participate in the government with no conditions.[151]

Occupation authorities banned electoral activity “during the period of military government,” and the military authorities complied with Badoglio’s request “to censor all criticism of the king, the government, and the army.”[152]

The basic premise of American occupational planning prior to the conquest of Italy was to maintain existing governmental structures, laws, and even official personnel so long as they did not conflict with military needs or ultimate political objectives…. First in Sicily, and then in Italy, the British and Americans increasingly relied on existing fascist institutions, and save in the most blatant cases, fascist personnel. The commanders disbanded fascist organizations themselves, but retained their useful institutions and personnel. Later, they promised, when military exigencies were less pressing, they would effect a more thorough purge.

The Badoglio government and the king also strongly opposed any serious dismissal of the fascists and spent most of their time purging the army of anti-monarchical elements. Predictably the Committee of National Liberation vigorously complained that the Badoglio government was carefully appointing ex-fascists to security and military posts. But such ex-fascists were politically reliable from the viewpoint of the military occupation, and after twenty years of organizational responsibility, very useful for military efficiency.[153]

Italian antifascist forces and their base of public support were predictably dissatisfied with this arrangement. Badoglio and Victor Emmanuel

were universally regarded as remnants of the equally widely hated fascist order. From the moment they signed the “long surrender,” until the end of the year, opposition to the Badoglio government grew in intensity as part of the sustained political crisis that characterized Italian politics for the next two years.[154]

With the backing of Stalin and the Comintern, PCI leader Togliatti was able to enforce a non-revolutionary and cooperativist line over the objections of a much more radical rank and file. However, he did not purge the Party’s mass membership of dissidents — a policy that left it ideologically quite diverse and laid the way for the future emergence of Eurocommunism.[155]

When the Allies entered Rome in June 1944, the Committee of National Liberation refused to accept Badoglio as head of government. Churchill was furious, and — joined by Stalin — raised the issue of whether this was even legal under the terms of the surrender. But the new prime minister, Bonomi — former head of the Committee of National Liberation and a moderate constitutional monarchist — excluded Badoglio from the Cabinet, with the approval of the United States.[156]

Pietro Nenni’s Socialist Party and the leftist Action Party both soon became disaffected from the Bonomi government over its lackadaisical approach to defascistization, although the Communist Party remained neutral. Meanwhile the United States finally and unambiguously won the competition for influence in Italy, as Bonomi developed closer ties with Roosevelt and expressed his desire to be integrated into Washington’s vision of a postwar economic order.[157]

When Allied forces reached Rome, leftist antifascist partisans got considerably harsher treatment than fascist military and police forces had received in the south.

To the Allied soldiers reaching the Rome region the experience was strange indeed. Armed Italians, often in red shirts, waving revolutionary banners, greeted them, frequently after they had set up their own local administrations. The Allied armies pushed some Partisans aside, and even threatened them with the firing squad; they arrested many and threw them into prisons. “The problem is a novel one and is bound to be met with in further intensity the further north the advance goes,” one political officer reported in June, and whether these men were elected or not, Anglo-American officers decided, the Partisans would have to place themselves under occupation authority. The basic policy urged “tact and sympathy” but the Partisans were to surrender their arms; if possible, employment was to be found for former “patriots,” as the military authorities preferred calling them. Indeed, the Occupation followed the carrot and stick policy, those Partisans refusing to hand in arms facing prison, those cooperating being given special food rations and, if available, jobs, though not usually in the army and rarely in the police. Unemployed, the Partisan was a “menace,” armed a danger: “One thinks of the troubles of Yugoslavia and Greece in this connection,” one regional commander observed to his colleagues.[158]

The Western Allies also faced the problem of how to deal with CLNAI partisans in the north, which was considerably more complicated because they were more numerous, and were directly engaged in combat with German forces.

The problem of the Resistance, the Western leaders understood by the end of summer 1944, was not in controlling that small part of it liberated in the Rome area, but in reducing the potential danger that the very much larger groups still on Nazi-held territory posed.[159]

The partisans had organized a strike wave in the industrial cities in late 1943, in summer 1944 were tying down a sizeable German combat force, and considered themselves the legitimate governing authority in the region.[160] The British and Americans greatly feared that, in the event the German occupation forces withdrew, leftist partisans would take over the northern cities before Anglo-American military forces could move in. While the Communist Party was willing to appease the Western Allies, the socialists threatened to create a socialist separatist regime in the north after German withdrawal — a position that contributed greatly to their popularity compared to the communists.[161]

Throughout the summer [the Allies] sharply reduced the quantity of arms dropped to the Resistance, which had never been substantial in the first place. For purely military reasons — the Resistance was tying down as many as fourteen Axis divisions at one time — the Anglo-American authorities renewed sending in a somewhat greater quantity at the end of September, but OSS agents in Partisan territory were able to have non-Communist Partisans receive first priority. Then, when the Allied military decided the Italian campaign had gone as far as it might for the winter and should not detract from the war in Western Europe, it was possible to regard the problem of the Resistance as mainly political. With constant references to Greece, Yugoslavia, and the threat of Bolshevism everywhere, the military authorities embarked on a Resistance policy that was both military and political in its dimensions.

On November 13, General Alexander, Supreme Allied Commander in the Mediterranean, broadcast a message to the Resistance urging them, in light of winter conditions, not to engage in large-scale military operations, to save their supplies and await orders, and restrict their activities to smaller operations. To the Germans it was a notice that the Allies would not initiate a winter campaign, freeing the Nazis for other tasks, including greater efforts in wiping out the Partisans. The Resistance was demoralized and significantly only the Communist leaders in the north attempted to paint the best possible face on Alexander’s message. The Germans and fascists were now in a position to consolidate their power, and a widespread hunt resulted in an unprecedented elimination of Resistance leaders and members. Defections, death, and reprisals were everywhere.[162]

Allen Dulles, Swiss director of the OSS, actually entered into clandestine negotiations with the Nazi occupation forces and secured their agreement not to surrender to the CLNAI, and to maintain essential services and law and order until they could surrender to arriving Anglo-American forces.[163]

Despite this betrayal, German units disintegrated from low morale; armed workers took over the major northern cities and occupied the factories in April 1945, and then handed over control to the CLNAI. Ignoring the commands of communist leaders, partisans engaged in mass reprisals — including summary execution — of fascists.[164]

The Bonomi government itself never directly addressed or resolved the status of the area under CLNAI political control, preferring to treat CLNAI as “the directing organization of the Resistance in the north.” The Socialist Party and Action Party, however, hoped to leave them in territorial control as “the basis of a reconstructed political order” centered on workers’ councils.[165]

Togliatti helped salvage the situation for the Allies by refusing to side with the Socialists, and insisting on national unity — thus sabotaging the ability of the CLNAI to pursue regional separatism on their own.[166]

Finally, on December 7, the CLNAI signed an agreement — the Protocols of Rome — with humiliating terms:

In return for the promise of financial subsidies, food, clothing, and arms, the CLNAI agreed to subordinate itself to the Supreme Allied Commander, not to appoint a military head of the CLNAI unacceptable to him, to hand over power to the Allied military government upon its arrival in the north, and to follow the orders of the military government before and after liberation…. The Allies obtained assurances from the Resistance that it would not create a revolution.[167]

When Allied forces reached areas of CLNAI control, they removed them from power, and revoked all decrees.[168]

The pattern in Greece was largely the same as in Italy, with the National Liberation Front (EAM) — under pressure from both the communists and the Soviet Union — surrendering its gains to the British. The only difference was that, when pressed far enough, they eventually defied Stalin by fighting back.

The EAM, after virtually possessing most of Greece and besting the British forces in combat, willingly surrendered its arms and staked its future on the reliability of British promises and their small and anxious local allies. This abdication was possible only because the Communists in the EAM dictated it over a movement they could barely control.[169]

But despite the Greek Communist Party (KKE) and the communist ELAS guerrillas going out of their way to appease the British — surrendering arms and staying outside Athens in accord with the Varkiza agreement — Churchill, following a long series of betrayals, packed the Greek army with prewar monarchists and wartime Nazi collaborators. The conservative government it installed, facing a reality in which the communists would likely come to power in an unfettered electoral system, ignored its own obligations to ELAS and the communists under Varkiza and resorted to an escalating series of repressive actions.[170] “The terror that ensued was ruthless, and ultimately self-defeating. It began immediately after the January 1945 truce and mounted in intensity.”

The regime systematically purged the army and political bureaucracy of pro-EAM elements. There was casual terror of random assassinations and beatings, and systematic repression by security committees and courts-martial that simply arrested EAM supporters and detained them without trial. The government tightly controlled trade unions, and charged former EAM underground government tax collectors with robbery and looting. The regime now judged ELAS executions of collaborators as murder. Outside the Athens area the government-proclaimed martial law lasted until August. The police and their supporters beat up EAM and Communists news-vendors, even arrested purchasers at random, and shot leftist reporters. Right-wing bands roamed many districts, doling out retribution at will. When the British Parliamentary Legal Mission visited Greece at the end of the year they reported that wholesale terror filled the filthy, crowded jails with a very minimum of 50,000 prisoners, and by comparison the excellent, even comfortable, prisons for some of the worst fascists were comparatively empty.[171]

Yet as late as May 1945, Communist Party Secretary Nikos Zachariadis — newly returned from imprisonment in a Nazi concentration camp — attempted to purge the Party of militants and enforce continued cooperation with the British and the rightist regime.[172] But despite pressure from Britain and from Stalin for the Communist Party to function in electoral politics as just another party, given the likelihood of communist victory in free elections the rightists in power felt they had no choice but to intensify the terror and repression.[173]

The result, from mid-1946 on, was a growing civil war in which maintaining the government in power was beyond the resources of the British, and the United States assumed Britain’s interest in Greece and saved the regime from collapse with U.S. funds and military advisors.[174]

In France, the primary issue of contention between the Western Allies was whether to support the Vichy government, De Gaulle, or Darlan and Giraud (Vichy officials in Algeria who collaborated first with the Germans, and then with the Allies in 1942).[175] Germany tolerated the ultra-conservative Vichy regime and allowed it to administer France’s overseas colonies. Meanwhile, in the period between the Fall of France and America’s entry into the war, U.S. policy toward Vichy and its colonies caused considerable friction with the British (who were at “near war” with the Vichy regime). The Americans had an ambassador in Vichy and engaged in trade with French North Africa, administered by Vichy officials Admiral François Darlan and Gen. Maxime Weygand; in early 1941 they negotiated a trade agreement with Weygand. U.S. representatives in Vichy had positive impressions of both Petain and Darlan.

During mid-1941 the United States courted Weygand, not only because he wished to keep France from becoming a more active ally of Germany, which would have meant open war with Britain, but also as a possible future charismatic leader of Vichy and all France — and an alternative to the obviously rising star of Colonel Charles de Gaulle in London.[176]

In 1942 the United States, preparing to enter the North African theater and doubtful of the allegiance the Anglophobe Darlan would choose, recruited Gen. Henri Giraud and

obtained his legitimation of the invasion as a foil to Darlan, should he refuse to cooperate. The Americans obtained Giraud’s cooperation without consulting the English — in return for the promise that the invasion would involve only American troops, and would include southern France as well as North Africa. The United States chose Giraud for the role, although he had no legal authority whatsoever, in order to create a political hero capable of offsetting the now ascendant figure of De Gaulle.[177]

Although Darlan accepted the American invasion, he was nevertheless assassinated by a right-wing figure with obscure motives — at which point Giraud formally replaced him as governor of French North Africa. Darlan, despite his acquiescence, had considered his authority to derive from Petain and Vichy; Giraud, similarly, pursued “neofascist” internal policies with the backing of industrialists and bankers, his pro-American sympathies notwithstanding. Giraud’s antisemitic policies in North Africa, and his political repression of Gaullists, horrified Resistance forces throughout German-occupied Europe.[178]

The essence of Giraud’s position might be stated as “Vichy without Germany.” Giraud was the leading spokesman for a group of conservative officers and industrialists who were both strong nationalists and opposed to the undisciplined politics of prewar France. They approved of Pétain’s “National Revolution,” with its idealization of the state and its chief, and Giraud publicly defended Pétain and Vichy but hoped they would also fight if Germany invaded Vichy France. Some of his important supporters were anti-Vichy, or more particularly anti-Darlan, but since the entire tendency was committed to a thoroughgoing Anglophobia they refused to cooperate with De Gaulle. Reactionary and antirepublican, Giraud naturally saw his regime in North Africa as a refinement and continuation of Vichy. He and his followers viewed international Communism as the great postwar danger after the desired defeat of Germany, and therefore they soon oriented themselves toward the United States. By being anti-British and anti-German, as well as opposed to the Left, Giraud was a most useful ally for the United States. But since he represented the traditional French Right, which had barely any future in 1943 even with American backing, it was not long before French conservatives considered De Gaulle, who also shared many of the ideological tenets of antirepublican nationalism, as a more viable opponent to the rising Left.

Giraud’s politics were well known to many of the Americans working with him, and they regarded him as a useful antidote both to the British-dominated De Gaulle and the Left.[179]

Admiral Leahy, the former ambassador to Vichy, went so far as to argue for Petain as head of the provisional government after D-Day. De Gaulle was regarded as entirely too soft on the communist resistance.[180]

Britain, in contrast, “wanted no political arrangements in North Africa which detracted from the authority of De Gaulle’s French National Committee in London.”[181] In June 1943, Giraud and De Gaulle presented the United States with a fait accompli, together forming a French Committee of National Liberation which “assumed the powers and structure of a government-in-exile.” Meanwhile, De Gaulle himself “only regarded his agreement with Giraud as a starting point for replacing Vichy in North Africa altogether.” In July, he reorganized the Committee so as to reduce Giraud’s post to largely ceremonial status and concentrate power in his own hands.[182]

The United States’ adamant opposition to De Gaulle, Kolko explains, reflected a power struggle with the British over their respective visions of the postwar world. British support for De Gaulle was in keeping with its goal of creating a Western European bloc under the leadership of Great Britain — a concept supported by the governments-in-exile of Norway, Belgium, and other countries — which would enable Britain to assume the status of an equal with the United States in the postwar order.[183]

The Americans understood these implications, and therefore they hoped to stop De Gaulle’s rise to power. When John Foster Dulles was in London in July 1942 on a semi-official tour, he told Eden the Americans would not welcome a bloc of lesser states concentrated around a Great Power. “… the British wanted to build up France into a first class power, which would be on the British side,” Roosevelt observed on his way to Teheran in November 1943….[184]

In France, unlike Italy, Britain’s preference ultimately won out and the provisional government wound up being headed by De Gaulle rather than by a Vichy neofascist as the United States desired. By the end of 1943 De Gaulle was clearly in ascendancy, and backing Giraud and other Vichyites against him was no longer a viable option. The United States accepted the inevitable, and switched its strategy to strengthening De Gaulle and the external Resistance forces he controlled — consisting primarily of nationalistic military officers — against the largely communist-dominated Resistance forces inside France.[185]

By the eve of D-Day, the United States had become the primary supplier of arms to the internal Resistance, “though never in sufficient quantities to permit large, independent Resistance operations. And they never knowingly sent arms to urban and Communist-controlled groups.”[186]

Although De Gaulle and the United States clashed on and off regarding the allocation of power between his proclaimed provisional government and the U.S. military authorities in France, the United States was at least confident of

his position on Communism. De Gaulle himself went to great pains to get this information across, for he appreciated that the Americans might be willing to put up with a great deal to have a charismatic leader who could save France from the Left. The Americans worried about the Communists’ being one of the parties of the CNL, and for this they criticized De Gaulle, but they had no doubts about the political safety of the man himself, save in relation to the British.

De Gaulle and his aides warned the Americans of the Soviet as well as the Communist menace from at least the spring of 1942 onward…. Murphy, one of the most sensitive Americans concerning Communism, reported to Hull in June 1943 that De Gaulle told him “the French Communist Party had by its resistance to Germany gained an important place in France and he feared that unless a capable French administration is built up in time to control the Communist element there would be grave danger of widespread violence in France after liberation… in his opinion he felt he is qualified to control the French Communist Party.” The State Department received the same message from other observers as well, and it did not take them long to conclude that any relationship between De Gaulle and the Communist party would be strictly one of convenience and quite temporary.[187]

Communist-led Resistance forces, under pressure from Stalin and from Communist Party leader Thorez to fight on behalf of unified national rather than class-based resistance, largely acquiesced both to Allied forces and to De Gaulle’s leadership.[188] The Communist Party participated in De Gaulle’s government. Indeed Thorez, after his return from exile in November 1944, “banned strikes, demanded more labor from the workers, and endorsed dissolution of the FFI [French Forces of the Interior resistance forces].”[189]

As a participant in the government until May 1947, the Communist Party enthusiastically embraced the role of enforcing work-discipline on its membership, on behalf of De Gaulle. “Given their relationship to the working class, only they could extract the indispensable precondition for the restoration of the Old Order — production. The Communists became the party of production, even the party of the speedup.”[190]

The situation confronting the Western Allies in East Asia and the Pacific was much the same as in Europe.

The surrender of Japan presented a monumental and complex set of problems for the Americans, for every place the Japanese conquered they shattered the Old Order of colonialism, or, as in the case of China, the tide of local Communist movements seemed irresistible. Everywhere in the Far East — China, Korea, the Philippines, the Dutch East Indies, Indochina — the necessity of fending off the Left and shoring up the stabilizing forces of the region appeared as a pressing task in the wake of the Japanese military collapse. Only Japan, firmly in the hands of the occupying forces, would emerge safely. Elsewhere the remnants of the Japanese army remained the last, thin barrier to the triumph of the anticolonialist Resistance movements, generally leftist in political identification.[191]

In Japan from 1944 on, a growing faction in the leadership saw mass radicalization and communist revolution, if it continued to fight an obviously unwinnable war, as a greater threat than whatever consequences might follow surrender. The U.S. Navy propagandized the leadership with subtle messaging that Japan would not be punished after the war, but that the United States would “renovate and incorporate” it into an American-led global capitalist economy. “Given the option of Bolshevism, the alternative was most attractive to the peace elements in and around the Japanese navy and industrial groups.” In May 1945 Harry Hopkins spoke to Stalin of “the desire of the Japanese industrial families to preserve their position and save Japan from destruction….”[192] Together, these formed the elements of a postwar order in which Japan, under American hegemony, preserved much of the conservative prewar order.

Following the surrender, Japanese military forces and colonial administrators were immediately enlisted as proxies of the United States and Britain, in suppressing anti-fascist Resistance forces in areas still under Japanese occupation. Regarding all former Japanese-occupied territories, Truman’s August 14 General Order No. 1 “commanded the Japanese to aid and assist the Allied takeover in the precise manner MacArthur dictated, and above all not to surrender to unauthorized local armed Resistance groups.”[193]

In Korea, the United States had planned to accept the surrender of Japanese forces as far north as possible in order to preclude Soviet forces occupying the entire peninsula when they declared war on Japan. And, with reasoning analogous to that behind Operation RANKIN in Western Europe, in late July 1945 the Joint Chiefs of Staff put readiness to occupy Pusan only second to Shanghai, against the contingency of sudden and unexpectedly early Japanese surrender. General Order No. 1 clarified the matter by instructing Japanese forces in Korea to surrender to the United States south of the 38th parallel, and to the Soviet Union north of that.

The American takeover of Korea vividly illustrated the principle of General Order Number 1 that the Japanese were to transfer power directly from their hands to authorized occupation forces, and until then prevent the local Left from intervening. On August 28 the Japanese commander in Korea wired MacArthur that “Communists and independence agitators are plotting to take advantage of the situation to disturb peace and order.” Since Washington was opposed to both, the American replied immediately that “It is directed that you maintain order and preserve the machinery of government in Korea south of the 38th degree . . . until my forces assume those responsibilities. . . .” Shortly thereafter the Koreans were told by American leaflets to respect the orders of the existing government—the Japanese—and not to participate in demonstrations of any sort, including those demanding immediate Korean independence.[194]

In the Philippines, President Quezon went into exile at the time of the Japanese invasion but instructed the cabinet and other government officials to remain. The American authorities told them to remain in their posts and obey all orders from the Japanese, but refuse to swear allegiance to Japan. The United States intended to resume ruling the island through traditional elites once the war was over, and did not want to leave a vacuum in the interim which might be filled by unknown and untested resistance forces.

For the islands’ traditional rulers to resist — and they were overwhelmingly unwilling to embark on that course — would only have led to the destruction of many of them and the likely domination of strongly anti-American nationalists over much of the nation or a dangerous power vacuum at the war’s end.[195]

Nevertheless, owing to economic hardships under Japanese rule and the corruption of local elites, resistance forces did arise. They ranged from spontaneous peasant actions — denounced as “extreme leftist actions” by the communists — against quasi-feudal landed classes, to more apolitical guerrillas who “resembled warlord armies far more than the patriotic resistance forces they usually purported to be.” In practice, these latter forces — most of them on the main island of Luzon — proved to be next to worthless for anti-Japanese resistance, but crucial for “containing the only political guerrilla movement that existed, the Hukbalahap.”[196]

Despite the Communist Party’s significant presence in the Huks, it by no means exerted complete control. Although the Huks were founded in March 1942 at the Communist Party’s behest, many of their founding leaders had a background in previous armed peasant resistance groups, and had engaged in the sort of activities denounced as left-wing extremism by the communists. They tended to pursue their own agendas locally, largely in disregard of the mostly urban and educated Communist Party leadership and their agenda (which, in keeping with Comintern policy, called for a united front of all patriotic forces and loyalty to the United States).[197] In particular, the Huks disregarded PKP instructions to confiscate only the crops of collaborationist landlords, and to share power locally with landlords rather than directly controlling villages in their own name.[198]

In late 1944, as MacArthur’s forces entered the Philippines, the Huks launched all-out attacks on the Japanese and established people’s councils in numerous towns. Three provinces elected or appointed governors from the PKP.[199] “By the beginning of 1945 all that stood between the Huks and a total transformation of the agrarian economy was the United States military, led by MacArthur.”[200]

MacArthur’s first order of business was to disarm the Huks, with the help of the previously mentioned apolitical warlord “resistance” which the Americans had “kept… in reserve mainly for this function.”[201] The American occupation forces restored native elites to power and, aside from a very few symbolic cases, refrained from any sanctions against Japanese collaborationists.[202]

MacArthur released Manuel Roxas, imprisoned for collaboration, and installed him as president of the newly independent Philippine nation. He and his successors conducted an ongoing war of counterinsurgency, on behalf of the rural landlords, against the Huks.[203]

America’s willingness to ignore local elites’ collaboration with the Japanese, and to install them as the governing class, was in considerable part dictated by their desire for military and naval bases in the Philippines.

What the American government wanted, therefore, only the conservative comprador elements, the very groups collaborating with the Japanese, were likely to grant. For this reason, despite the certainty that the Filipino people as a whole were bitterly anticollaborationist, the official American policy viewed the collaborationists with silent toleration, and many believed that prewar President Manuel Quezon, or even Sergio Osmena in Washington, were not themselves unfriendly toward them.

Vindication of this suspicion came at the end of November 1944, when Osmena landed on Leyte with MacArthur and immediately issued a statement exonerating those public officials who “had to remain at their posts to maintain a semblance of government, to protect the population from the oppressor to the extent possible by human ingenuity and to comfort the people in their misery.” The counterrevolution that followed in the wake of the American occupation laid the basis for a civil war that soon followed….[204]

In Indochina, the British favored a restoration of French colonial rule. The Americans initially preferred a long-term trusteeship (lasting “two or three decades”) by some combination of the victorious powers, both to punish the French for their collaboration and to rein in De Gaulle. The British in February 1944 proposed the reoccupation of Indochina with French troops, “presumably without prejudicing the final disposition of the country”; despite a consensus in the State and War Departments in favor of this, Roosevelt refused to approve it. Although FDR once again rejected this proposal when the British resubmitted it in August, they nevertheless included a French mission under Mountbatten’s Southeast Asia Command. At the same time, Roosevelt sent mixed signals by refusing a proposal to arm anti-Japanese rebels because they might also use their weapons against the French. FDR continued to reject proposals for French restoration, and renewed his proposal for a multi-power trusteeship at Yalta.[205]

Meanwhile the Japanese, until March 1945, continued to rule Indochina through the Vichy French administration. But in March they replaced it with a Japanese puppet government under the emperor Bao Dai.[206]

It was around this time that Ho Chi Minh and the Vietminh began active resistance to both the Japanese and the French. In July the Vietminh program, which they forwarded to Washington, demanded independence and the expropriation of French property; this was followed by the declaration of an independent republic in August.[207]

The United States dealt with this immediate threat of a leftist regime in Indochina by authorizing, both at Potsdam and in General Order No. 1, the British occupation of Vietnam south of the 16th parallel — which would obviously entail British restoration of French rule — and Chinese occupation north of it.[208]

From this point on, the United States was in the position of spporting restored French rule in Indochina.

Given the alternative, American support for the restoration of France to Indochina was a logical step toward stopping the triumph of the Left everywhere. Both in action and policy the American government now chose to gamble on the reimposition of French colonialism, as disagreeable as they once may have thought it to be. By mid-August, French officials were hinting that French restoration would fully open the Indochinese economy to the United States and England. At the end of the month, De Gaulle was in Washington, and on August 24 the conversation with Truman turned to Indochina. The United States, the President now told De Gaulle, favored the return of France to Indochina. He had made the final pledge to France, and it would shape the course of world history for decades.[209]

The United States and the Third World. We already saw, above, the implications of U.S. wartime planning for control over the Third World in the postwar order. It remains to consider the practical implementation of those plans.

The U.S. policy vision concerning the colonial world, in particular — what was to become the postcolonial or Third World — was a continuation of the Grand Area approach. Samuel P. Huntington described the “dominant feature” of the postwar period as “the extension of American power into the vacuums that were left after the decline of the European influence in Asia, Africa, and even Latin America.”

The shift in U.S.-European power relations was legitimated by the common need to prevent Soviet or Chinese influence from replacing European influence. Americans devoted much attention to the expansion of Communism (which, in fact, expanded very little after 1949), and in the process they tended to ignore the expansion of the United States’ influence and pressure throughout much of the world….[210]

Although U.S. intervention in the Third World is commonly framed as driven by anticommunism — and that framing has no doubt been internalized by American policy elites along with the rest of their legitimizing ideology — the truth is quite different. The central aims of American Third World policy have been exactly what they would have been had the Cold War never happened, or the Soviet Union never existed: to guarantee access to cheap raw materials on American terms, to integrate Third World countries into a global division of labor in which their own function is the export of raw materials, and to keep their markets open — by force if necessary — to Western industrial exports.

As evidence that anticommunism was not the primary American motivation in the Third World, Kolko argues that “[w]hile there were many varieties of capitalism consistent with the anti-Communist politics the United States… sought to advance,”

what was axiomatic in the American credo was that the form of capitalism it advocated for the world was to be integrated in such a way that its businessmen played an essential part in it. Time and again it was ready to sacrifice the most effective way of opposing Communism in order to advance its own national interests. In this vital sense its world world role was not simply one of resisting the left but primarily of imposing its own domination.[211]

…[I]t was its clash with nationalist elements, as diverse as they were, that revealed most about the U.S. global crusade, for had communism alone been the motivation of its behavior, the number of obstacles to its goals the United States confronted in the Third World would have been immeasurably smaller.[212]

American backing for even the most corrupt and authoritarian elites was not, contrary to the apologetic narrative, undertaken for the sole purpose of strategic defense against the communist menace.

The U.S. dilemma in the increasingly unstable Third World was due largely to its refusal to accept willingly the nationalist movements and doctrines sweeping the less-developed nations. Indeed, it was the very absence of a significant Communist role in most of the Third World that revealed the growing importance of structural alterations crucial to the U.S. and the conservative role it played to safeguard its principally economic interests.[213]

…[America’s] vital interests… goaded it to attempt to control changes in the Third World. By the decade of the 1950s the U.S. was importing 48 percent of its total supply of metals, compared to 5 percent in the 1920s, and the very health of its economy now depended on crucial supplies from the Third World.[214]

In other words, its motives were a direct continuation of the “Open Door Imperialism” and “Grand Area” policies that previously led to American intervention in WWII.

The primary Soviet threat, to the extent it existed, resulted from their role as a spoiler, interfering with American efforts to maintain their supremacy in the Third World, and from the role of their strategic power as a deterrent to direct U.S. military intervention on the scale it would otherwise have taken in the absence of the superpower dimension. To quote Chomsky yet again, “the reality… is that the fear of potential superpower conflict has served to contain and deter the United States and its far more ambitious global designs.”[215]

Western analysts, including some of the most anti-communist variety, admitted as much. For example, late in the Cold War Dimitri K. Simes gloated that the removal of the threat of Soviet counteraction as a deterrent against U.S. aggression allowed “greater latitude for unilateral uses of America’s power against those who consider its interests easy prey.” Simes went on to make it clear that those “interests” were primarily economic.

[“Moscow’s current sense of overextension”] puts America in a stronger bargaining position vis-a-vis defiant third world debtors.

Paradoxically, the Soviet-American rapprochement makes military power more useful as a United States foreign policy instrument….

Those who contemplated challenging important American interests might think twice if America’s hands were relatively untied. For example, the 1973 oil embargo probably would not have taken place without the Arabs’ widespread perception that America would not dare to respond military out of fear of triggering Soviet counter-intervention.

Then, too, the Sandinistas and their Cuban sponsors would bound [sic] to become a little more nervous over Mr. Gorbachev’s potential reaction if America finally lost patience with their mischief.[216]

On the other hand, the “Soviet threat” also served as a convenient legitimizing tool for policies the United States would have taken in any case, but perhaps with greater difficulties in obtaining public support. As Christopher Layne and Benjamin Schwarz argued, “for this country’s foreign policy leadership, the requirements of containment fortuitously coincided with those of the world order strategy that would have been pursued even without a Soviet threat.”[217]

That’s not to say that the American pretense of defending the “Free World” against “International Communism” was just a cynical ploy to justify defending capitalist extractive interests. It’s more likely that, seeing the world through their own ideological filters, the American leadership genuinely equated any national threat to the neocolonial economic order with “communist aggression.”

Privately and publicly, America’s leaders nonetheless attributed to the Russians a transcendent ability to cause, exploit, or shape events in even the most remote countries. They condemned “extreme nationalism” as an objective Communist tool, in spite of the fact that its leading proponents were often the most conservative Latin American or Asian bourgeoisie who advocated it to advance industrialization behind protectionist walls, just as the U.S. had done after 1861.[218]

In reality, Third World hegemony was America’s primary interest throughout the postwar period. And the greatest perceived threats to this hegemony were, first, the pursuit of policies like import substitution, economic diversification, control over the terms of foreign resource extraction, and other departures from the export-oriented development model; and, second, the demonstration effect of successfully carrying out such policies.

For example, National Security Council document NSC 5432, “U.S. Policy Toward Latin America” (18 Aug 1954) stated the primary U.S. policy goal as to guarantee “[a]dequate… access by the United States to raw materials essential to U.S. security,” and to guard against “domestic pressures” in the post-colonial world to “increase production and to diversify their economies” (emphasis added). The means of accomplishing this would be to “[f]oster closer relations between Latin American and U.S. military personnel in order to increase the understanding of, and orientation toward, U.S. objectives…, recognizing that the military establishments… play an influential role in government.”[219]

A study group of the Woodrow Wilson Center, in a 1955 report, pointed to the threat of “a serious reduction in the potential resource base and market opportunities of the West owing to the subtraction of the communist areas and their economic transformation in ways that reduce their willingness and ability to complement the industrial economies of the West.”[220]

And the August 1962 NSC document “U.S. Overseas Defense Policy” asserted the right to intervene militarily in defense of purely economic interests. It was vital that “developing nations evolve in a way that affords a congenial world environment.” This not only required preventing their “manpower and national resources” from falling under “communist control,” but guaranteeing the U.S. “economic interest that the resources and markets of the less developed world remain available to us and to other Free World countries.”[221]

As an example of U.S. fears of the demonstration effect of independent models of development, a State Department official in 1954 warned of the appeal of Arbenz’s land reform in Guatemala.

Guatemala has become an increasing threat to the stability of Honduras and El Salvador. Its agrarian reform is a powerful propaganda weapon; its broad social program of aiding the workers and peasants in a victorious struggle against the upper classes and large foreign enterprises has a strong appeal to the population of Central American neighbors where similar conditions prevail.[222]

The last years of World War II and the first years of the postwar era saw the rapid assembly of an institutional framework for global economic governance, and the exertion of political and military power by the United States and its allies over the Third World.

In the financial sphere, the World Bank and foreign aid both played central roles in integrating Third World countries into a global economic system controlled by the United States and its junior partners. Their primary purpose was to facilitate the export of capital. The World Bank was created to “promote private foreign investment by means of guarantees or participation in loans and other investments made by private investors,” and to make direct loans to build infrastructure necessary to later private investment.[223]

The World Bank subsidized American capital export, in particular, by promoting Third World infrastructure. According to Kolko, almost two-thirds of its loans went to the transportation and power infrastructure which American business needed to support local investment.[224] A laudatory 1982 Treasury Department report referred to such infrastructure projects (comprising some 48% of lending in FY 1980) as “externalities” — i.e. subsidies — to business. It spoke glowingly of the economic benefits — especially in promoting the shift to export-oriented, cash crop agriculture.

Physical infrastructure projects, particularly improvements in internal transportation and communications systems, often yield high external economies in the form of lower costs of production, distribution, and/or marketing in a wide range of industries. [Multilateral development bank] projects in the transportation sector, for example, can make economically attractive the cultivation of more fertile but formerly isolated land, increase the mobility and efficiency of the labor force, and often induce a shift from subsistence to commercial farming leading to a higher volume of output.[225]

(Translated into English, this means that subsidizing shipping costs encourages rich landlords to evict tenants, in collusion with international capital, in order to consolidate their holdings for cash crop export agriculture.)

A great deal of such infrastructure is so situated as to facilitate the removal of wealth from host countries; the investments supported by multilateral financial institutions, Kolko argued, were “unusually parasitic,”

not merely in the manner in which they use a minimum amount of dollars to mobilize maximum foreign resources, but also because of the United States’ crucial position in the world raw-materials force structure both as consumer and exporter. This is especially true in the developing regions, where extractive industries and cheap labor result in the smallest permanent foreign contributions to national wealth.[226]

The infrastructure loans not only subsidize the export of capital, but the need to repay them locks Third World countries into economic models based on the export of raw materials.

First, most of the loans go to build an internal infrastructure which is a vital prerequisite for the development of resources and direct United States private investments. Then there is the fact that to repay loans in dollars requires the borrowing nations to export goods capable of earning them, which is to say, raw materials….[227]

Development banks are an excellent weapon for compelling favorable policies in Third World countries. Infrastructure aid, under Truman’s “Point Four” program, was conditioned on recipient countries giving equal domestic treatment to U.S. firms.[228] And balance of payments support loans, in the words of the Treasury Department, “encourage countries to adopt open trading policies involving the promotion of export industries and the reduction of tariff barriers which foster uncompetitive import substitution.”[229] This refers to the practice of structural adjustment loans, or standby loans, adopted by the multilateral agencies in the 1960s, ostensibly as debtor relief, but really to rescue banks owning risky debt in Third World countries. In return for loans to meet interest payments, the countries must adopt “reforms” like removing restrictions on foreign investment, increasing the export orientation of the economy, reducing wages, deregulation to cut costs in export industry, and reducing import substitution programs. Although such programs initially affected relatively few countries, the debt crisis of the early 80s brought large numbers of debtor nations under their provisions.[230]

Cheryl Payer compares debt dependency favorably to peonage as a system for maintaining control.

The system [of using debts to “help… keep the potentially rebellious borrower in line”] can be compared point by point with peonage on an individual scale…. The aim of the employer/creditor/merchant is neither to collect the debt once and for all, not to starve the employee to death, but rather to keep the labourer permanently indentured through his debt to his employer.[231]

“Economic Hit Man” John Perkins describes it in similar terms. His job was to “justify huge international loans that would funnel money” to U.S. companies like Bechtel, Halliburton, Stone & Webster, and Brown & Root, “through massive engineering and construction projects.” At the same time, he would “work to bankrupt the countries that received those loans (after they had paid… U.S. contractors, of course) so that they would be forever beholden to their creditors, and so they would present easy targets when we needed favors, including military bases, UN votes, or access to oil and other natural resources.”

The unspoken aspect of every one of these projects was that they were intended to create large profits for the contractors, and to make a handful of wealthy and influential families in the receiving countries very happy, while assuring the long-term financial dependence and therefore the political loyalty of governments around the world. The larger the loan, the better. The fact that the debt burden placed on a country would deprive its poorest citizens of health, education, and other social services for decades to come was not taken into consideration.[232]

Ideally, as Holly Sklar points out, the corporate ruling class prefers the “more insidious style” of debt diplomacy (she gives the example of the IMF breaking Michael Manley’s democratic socialist program in Jamaica) to more naked use of force on the pattern of the “Chilean coup scenario.”[233] But at an intermediate level, the United States also has intelligence resources for fairly low-key covert action, and for assistance to counterinsurgency campaigns by friendly juntas. The national security community’s capability for low-level intervention, interacting synergistically with the carrot and stick of debt diplomacy, serves admirably in allowing the U.S. to replace unfriendly regimes without the political risk associated with direct military intervention. Cheryl Payer’s The Debt Trap is an excellent survey of the use of debt crises to force countries into standby arrangements, precipitate coups, or provoke military crackdowns. She provides case studies of the Suharto coup, the overthrow of Goulart in Brazil, the Pinochet coup, and Marcos’ declaration of martial law.[234] Walden Bello’s The Development Debacle is a more in-depth case study of the Philippines, based on extensive documentation of World Bank collaboration with Marcos in his authoritarian crackdown, giving him a free hand in imposing an austerity program politically impossible against a background of free elections.[235]

One colorful example of the use of economic weapons against a rebellious vassal can be found in the Nixon administration’s discussions of Chile. The goal, in Nixon’s words, was to “make the [Chilean] economy scream” with a total financial and economic embargo, coupled with the exploitation of friendly ties to the military. As Ambassador Edward Korry warned the Chileans, “Not a nut or bolt shall reach Chile under Allende. Once Allende comes to power we shall do all within our power to condemn Chile and all Chileans to utmost deprivation and poverty.”[236]

As the Chilean example suggests, U.S. ties and military assistance to foreign military forces can be quite effective, when brought to bear in combination with economic warfare. The objectives of military assistance become clear when we see against whom it is directed. Miles Wolpin, in Military Aid and Counterrevolution in the Third World, provides a list of the “military or executive depictions of political targets” of the Military Assistance Program,” based on a systematic review of Congressional hearings on the program: neutralism, leftist revolution, forces of disruption, nationalism, radical African states, home-grown insurgents, insurgencies inimical to U.S. interests, political instability, extremist elements, political dissidents, insurgents and their allies, other extremists, radical elements, militant radicals, revolution, Arab nationalism, revolutionary ideas, leftist, ultranationalist, anti-American, Nasser-type.[237] And Methodists!

Government circles repeatedly made clear that the main purpose of the military assistance program was to secure internal political and economic orientations favorable to U.S. interests, not to assist in external defense. The NSC paper “Overseas Internal Defense Policy” (August 1962), for example, stated:

A change brought about through force by non-communist elements may be preferable to prolonged deterioration of governmental effectiveness…. It is U.S. policy, when it is in the U.S. interest, to make the local military and police advocates of democracy and agents for carrying forward the development process.[238]

In Congressional hearings on foreign assistance to Indonesia and Laos in the 1960s, spokesmen for the military assistance program drew a “clear distinction” between building up or cultivating the friendship of an army, on one hand, and supporting that army’s government.”[239] In a colloquy with Representative Fraser in 1971, Undersecretary of Defense for International Security Affairs Nutter emphasized the importance of military assistance in establishing ties with Third World military leaders, as a means of influencing internal events — sometimes by the deliberate destabilization of unfriendly regimes.

Mr. Fraser. In some of these countries, we are providing assistance to the side that has seized the power.

Secretary Nutter…. We feel it is extremely important to maintain our relations with the people who are in positions of influence in those countries so we can help influence the course of events….

Mr. Fraser. In your judgment, [national security of the United States] means internal stability in those countries, is that right?

Secretary Nutter. Not always. Sometimes it does, sometimes it does not. It means maintaining our influence in some areas of the world that are critical to our security. It means helping to promote, as best we can, the developments that are most in our national interest, but that does not necessarily mean providing for the internal security of those countries. Sometimes it does.[240]

The policy community and its associated policy intellectuals also indicated that “national security” had more to do with U.S. economic control over resources and markets than with military defense against external attack. Hilton P. Goss, a “Defense Department associated scholar,” wrote in a 1958 study on Africa:

The potential resources of Africa are needed on the side of the free world to aid in the preservation of U.S. security…. A U.S. policy for Africa and the Africans must be designed and implemented promptly or we shall lose Africa — to obstructive nationalism, to the communists, or to a polarization on a basis of colored vs. white peoples of the world.[241]

In 1968, General Robert Porter, Commander-in-Chief of the Southern Command, described the Military Assistance Program as an insurance policy for private investment in Latin America. In an address to the Pan-American Society in New York, he said:

As a final thought, consider the small amount of U.S. public funds that have gone for military assistance… as a very modest insurance policy protecting our vast private investment in an area of tremendous trade and strategic value to our country.[242]

None of this is to say, by any means, that United States policymakers like unnecessary resorts to military coups or death squad regimes. The general progression of methods generally goes from the use of financial and economic power, to covert aid to destabilization or repression, and only to outright military force as the weapon of last resort. As John Perkins put it:

In countries like Ecuador, Nigeria, and Indonesia, we dress like local schoolteachers and shop owners. In Washington and Paris, we look like government bureaucrats and bankers. We appear humble, normal. We visit project sites and stroll through impoverished villages. We profess altruism, talk with local papers about the wonderful humanitarian things we are doing. We cover the conference tables of government committees with our spreadsheets and financial projections, and we lecture at the Harvard Business School about the miracles of macroeconomics. We are on the record, in the open. Or so we portray ourselves and so are we accepted. It is how the system works. We seldom resort to anything illegal because the system itself is built on subterfuge, and the system is by definition legitimate.

However — and this is a very large caveat — if we fail, an even more sinister breed steps in, ones we [economic hit men] refer to as the jackals, men who trace their heritage directly to those earlier empires. The jackals are always there, lurking in the shadows. When they emerge, heads of state are overthrown or die in violent “accidents.” And if by chance the jackals fail, as they failed in Afghanistan and Iraq, then the old models resurface. When the jackals fail, young Americans are sent in to kill and to die.[243]

Although policy elites are willing to resort to violence when softer methods fail, whenever possible they prefer spectator democracies in which the range of public choices is carefully managed to exclude anything touching on the real structure of economic power. According to Terry Karl, U.S. involvement in Latin America has been guided by the ideology of electoralism, which asserts that “merely holding elections will channel political action into peaceful contests among elites and accord public legitimacy to the winners….”[244]

For example, Thomas Carothers explained that democracy policy in El Salvador did not touch the “major power structures in Salvadoran society — principally the military and the economic elite,” which were “antidemocratic.” The United States “had no real conception of democracy,” in which “the military was not the dominant actor, the economic elite no longer held the national economy in its hand, the left was incorporated into the political system, and all Salvadorans had both the formal and substantive possibility of political participation.”[245] Honduran policy, likewise, “greatly strengthened the antidemocratic military, [and] reified a formal electoral process that did little to change the antidemocratic structural features of the society.”[246]

U.S. Central American policy was based on the belief that “a country is a democracy when it has a government that came to power through free and fair elections.” This belief “ignores the issue of how much real authority [an] elected government has” vis-a-vis economic and military power sectors, and ignores the vital dimension of popular participation, “including the free expression of opinions, day-to-day interaction between the government and the citizenry, the mobilization of interest groups,” and the like.[247] “[T]he impulse is to promote democratic change but the underlying objective is to maintain the basic order of what… are quite undemocratic societies.” Democracy is a means of “relieving pressure for more radical change,” but only through “limited, top-down forms of democratic change that did not risk upsetting the traditional structure of power with which the United States has long been allied.”[248]

The goal of all these methods, taken together, was to make American hegemony as cost-effective and politically sustainable as possible. After its direct intervention in Korea, the United States tried to minimize costs to itself by relying on an imperial strategy of indirect rule through Third World local elites — which committed it, in turn, to keeping those elites in power.

The U.S. after Korea believed that it might… avoid the massive employment of its own troops again in Third World contexts by relying upon friendly leaders and their armies to cope with local rebellions (many of them radical but not necessarily Leninist), aiding them with equipment, training, and funds and turning them into proxies of American power.

Annual military aid in the form of equipment, advisers, and training to nations in Latin America and Asia quadrupled under Eisenhower…., and the creation of integrative regional alliances — SEATO and CENTO to begin with — further tied Washington’s destiny, and credibility, to that of its proxies. Reliance on the military as the most promising single power group in Third World nations became official policy, although this did not preclude support for other tyrants. Augmenting this dependence on officers was the United States’ systematic efforts to improve the ability of local police departments to perform political functions. “Public safety” missions, and equipment, were sent to thirty-eight countries over a seven-year period, and many people were brought from those states to undergo training in the U.S. Even more important was the great expansion of the CIA’s covert activities, a supremely flexible mechanism that allowed the U.S. both to intervene in countless ways in innumerable countries and to deny responsibility in case of embarrassment or failure…. The CIA could attempt virtually anything with impunity, and often did with great success, as in Iran in 1953 and Guatemala in 1954, giving Washington “unconventional” means to become enmeshed, for better or worse, in many more nations.[249]

This has been an outline of the institutional structure and general characteristics of U.S. domination of the Third World in the postwar period. I lack the space to catalog all the specific examples of U.S. invasions, sponsorship of coups, training and funding of death squads, and the like; to do so would require an entire book of its own. Just listing the major examples — the overthrow of Arbenz and Mossadegh, backing for Diem’s Saigon regime, the overthrow of Sukarno, the assassination of Lumumba and backing of Mobutu, the overthrow of Goulart, the Vietnam counterinsurgency, Operation Condor, the Pinochet coup, the Contras and Salvadoran death squads, aid to the Mujaheddin — takes long enough. Besides, there already is a book recounting, case by case and with heavy documentation, the American record of intervention for the entire postwar period through the 1990s: Killing Hope, by William Blum.[250]

 The End

By definition, a condominium requires two parties. The sudden and unexpected implosion of the Soviet bloc and then the Soviet Union itself, in two years’ time, therefore concludes the period under consideration. The rest of the Soviet Party leadership, and the leadership of the military and KGB, Vladislav Zubok writes, were blindsided by Gorbachev’s willingness to dismantle the Soviet Union’s Eastern European sphere of control and even Communist Party rule in the Soviet Union itself.

The most formidable of the conservative strongholds, the KGB, still believed in early 1987 that Gorbachev was implementing Andropov’s program of controlled conservative modernization and imperial retrenchment. It did not occur to the KGB leadership that Gorbachev intended to dismantle the entire regime of police repression that had survived de-Stalinization and become entrenched during the Brezhnev-Andropov years. Vladimir Kryuchkov, head of the KGB branch for foreign intelligence, recalled that he had never doubted Gorbachev’s devotion to the Soviet system and ‘‘socialism’’ and was horrified later by the extent of his ‘‘betrayal.’’[251]

…The conservatives, the modernizers, and the military realized that the Soviet Union could ill afford its commitments in Central Europe, Afghanistan, and all over the world. And they advocated cautious retrenchment to postpone the crumbling of the Soviet sphere of influence. In contrast, Gorbachev and the ‘‘new thinkers’’ began to proclaim a policy of noninterference in Central Europe. Soon they would be leaving Soviet allies completely to their own devices. Still, the Politburo majority, the KGB, and the military did not imagine that Gorbachev would be prepared to bring the Cold War to an end, at the cost of destruction of the Soviet external empire in Central Europe and fatal instability in the Soviet Union itself.[252]

Absent Gorbachev’s drastic reform agenda, the Soviet system most likely could have staggered along indefinitely. Instead, he unleashed massive pressures from below that brought it down.

Even with the economy and finances in steep decline, the Soviet Union still could hide its weak condition behind a respectable Potemkin facade and negotiate with the United States from a position of relative parity. After 1988, this situation drastically changed: Gorbachev’s decision to launch radical political and state reforms, coupled with the removal of the party apparatus from economic life, created a most severe crisis of the state and produced centrifugal political forces that spun out of control within Soviet society. All this was tantamount to revolution, was visible to the world, and engulfed the Soviet leadership. These policies essentially destroyed the Soviet capacity to act like a superpower on the international arena. The Soviet Union was left in no position to bail out its allies or to present itself as an equal partner to the United States in negotiations.[253]

There are few other examples in history of a leader in charge of a huge ailing state who willingly risked the geopolitical position of a great power and the very foundations of his political power for the sake of a moral global project.[254]

By the spring of 1989, it became obvious even to Gorbachev’s closest assistants that the radical reappraisal of Soviet ideology and history, initiated from above, had triggered a political deluge from below.[255]

And Gorbachev himself was constitutionally incapable or unwilling to resort to force to preserve the system when it became clear it would otherwise collapse.

An additional feature of Gorbachev’s personality that perplexed contemporaries and witnesses was his deep aversion to the use of force. To be sure, skepticism about military force was widely shared among ‘‘new thinkers.’’ It can also be regarded as a generational phenomenon that originated from the impact of World War II and was reinforced by the pacifist trends during the 1960s. Former Soviet foreign minister Andrei Gromyko, for example, privately called Gorbachev and his advisers ‘‘the Martians,’’ for their ignorance of the laws of power politics. ‘‘I wonder how puzzled must be the US and other NATO countries,’’ he confessed to his son. ‘‘It is a mystery for them why Gorbachev and his friends in the Politburo cannot comprehend how to use force and pressure for defending their state interests.’’ Gorbachev personified the reluctance to use force. Indeed, for him it was less a lesson from experience than a fundamental part of his character. The principle of nonviolence was a sincere belief for Gorbachev — not merely the foundation of his domestic and foreign policies but one of his personal codes. His colleagues and assistants confirm that ‘‘the avoidance of bloodshed was a constant concern of Gorbachev’’ and that ‘‘for Gorbachev an unwillingness to shed blood was not only a criterion but the condition of his involvement in politics.’’ Gorbachev, they observe, ‘‘by character was a man incapable not only of using dictatorial measures, but even of resorting to hard-line administrative means.’’ The critics claim that Gorbachev ‘‘had no guts for blood,’’ even when it was dictated by state interests.[256]

As a result, Gorbachev simply let the communist regimes in Eastern Europe slip away, with no intention of intervening.[257] Without Gorbachev and his personal idiosyncrasies, “the rapid disintegration of the Soviet Union itself would not have occurred. At each stage of the Soviet endgame, Gorbachev made choices that destabilized the USSR and sapped its strength to act coherently as a superpower.”[258]

The loss of America’s partner in condominium left it in the position of a sole superpower. But, as the United States learned the hard way, it also left the world in many ways less governable.

Kolko notes the subsequent disorders in Eastern Europe and in the former Soviet Union itself, following the loss of the USSR as a stabilizing force:

The breakdown of the Cold War tension, as Undersecretary of State Lawrence Eagleburger confessed at the end of 1991, meant also loosening the control “of the international system over the behavior of its constituent members”…. The U.S. ultimately had to concede that the Soviet Union’s stabilizing role since 1945 had been vital to its interests, though none of its analysts ever adequately appreciated the magnitude of its contribution to curbing the left since 1944, for such insight would have destroyed the very foundations of their world view. In the case of the new status quo in Eastern Europe and the former USSR itself, the enormous peril of civil wars and bloody conflict between new and independent states, which the highest American officials had feared, began to be fulfilled immediately. For the first time since 1945, parts of Europe were again at war.[259]

Hobsbawm, likewise, argues that it “suddenly removed the props which had held up the international structure and, to an extent not yet appreciated, the structures of the world’s domestic political systems.”

And what was left was a world in disarray and partial collapse, because there was nothing to replace them. The idea, briefly entertained by American spokesmen, that the old bi-polar order could be replaced by a ‘new world order’ based on the single superpower which remained in being, and therefore looked stronger than ever, rapidly proved unrealistic.[260]

The collapse of the communist regimes between Istria and Vladivostok not only produced an enormous zone of political uncertainty, instability, chaos and civil war, but also destroyed the international system that had stabilized international relations for some forty years. It also revealed the precariousness of the domestic political systems that had essentially rested on that stability…. The basic units of politics themselves, the territorial, sovereign and independent ‘nation-states’, including the oldest and stablest, found themselves pulled apart by the forces of a supranational or transnational economy, and by the infranational forces of secessionist regions or ethnic groups.[261]

It’s true, as far as it goes, that the collapse of the USSR and the Soviet bloc ended the constraints resulting from their rivalry, and from the need to avoid direct superpower conflict. On the other hand, it eliminated the Soviet role in restraining revolutionary forces — a role which had been indispensable to the United States’ control over its own sphere of influence.

After a brief period of unipolarity in the 90s and early 00s, the world shifted to a hybrid or transitional state between a unipolar and multipolar order. There was a single global superpower by default; but it was discovering unexpected limits in Iraq and Afghanistan, and confronting Russia and China as rising regional powers.


Notes

[1] Eric Hobsbawm, The Age of Extremes: The Short Twentieth Century 1914-1991 (London: Little, Brown and Company, 1994), p. 55.

[2] Ibid., p. 56.

[3] Arno J. Mayer, Politics and Diplomacy of Peacemaking: Containment and Counterrevolution at Versailles, 1918-1919 (New York: Alfred A. Knopf, 1967), p. 8

[4] Ibid., pp. 65-68, 73-74.

[5] Ibid., p. 254.

[6] Ibid., pp. 9-10.

[7] Ibid., pp. 581-583.

[8] Ibid., p. 14.

[9] Hobsbawm, The Age of Extremes, pp. 69-70.

[10] Ibid., pp. 70-71.

[11] Ibid., p. 71.

[12] See Mayer, Dynamics of Counterrevolution in Europe, 1870-1956: An Analytic Framework (New York, Evanston, San Francisco, London: Harper & Row, 1971), p. 13, in addition to Politics and Diplomacy of Peacemaking.

[13] Gabriel Kolko, Century of War: Politics, Conflict, and Society Since 1914 (New York: The New Press, 1994), pp. 119-120.

[14] Hobsbawm, The Age of Extremes, pp. 71-72.

[15] Ibid., pp. 74-75.

[16] Ibid., p. 75.

[17] Ibid., pp. 104-105.

[18] Ibid., p. 104n.

[19] Chris Harman, A People’s History of the World (Verso, 2008), p. 494.

[20] Ibid., p. 494.

[21] Ibid., pp. 494-495.

[22] Ibid., pp. 495-496.

[23] Ibid., pp. 496-497.

[24] Ibid., p. 497.

[25] Ibid., p. 505.

[26] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 162.

[27] George Orwell, Homage to Catalonia (San Diego, New York and London: Harcourt Brace & Company, 1952, 1980), p. 51.

[28] Rudolf Rocker, The Tragedy of Spain (New York: Freie Arbeiter Stimme, 1937). Online version hosted by The Anarchist Library <https://theanarchistlibrary.org/library/rudolf-rocker-the-tragedy-of-spain>.

[29] Orwell, Homage to Catalonia, p. 53.

[30] Harman, A People’s History of the World, pp. 506-507.

[31] Hobsbawm, The Age of Extremes, pp. 162-163.

[32] Harman, A People’s History of the World, p. 517.

[33] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 164.

[34] Mayer, Dynamics of Counterrevolution in Europe, p. 30.

[35] Noam Chomsky, World Orders Old and New (New York: Columbia University Press, 1998), p. 28.

[36] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 172.

[37] Vladislav M. Zubok, A Failed Empire: The Soviet Union in the Cold War from Stalin to Gorbachev (Chapel Hill: University of North Carolina Press, 2007), p. 11.

[38] Kolko, Century of War, p. 272.

[39] Zubok, A Failed Empire, pp. 13-14.

[40] Kolko, Century of War, xix.

[41] Ibid., xix-xx.

[42] Ibid., pp. 304-305.

[43] Gabriel Kolko, The Politics of War: The World and United States Foreign Policy, 1943-1945. With new Preface and Epilogue by the Author (New York: Pantheon Books, 1968, 1990), p. 455.

[44] Ibid., p. 454.

[45] Kolko, Century of War, pp. 307-308.

[46] Harman, A People’s History of the World, p. 537.

[47] Kolko, Century of War, p. 291.

[48] Ibid., p. 292.

[49] Zubok, A Failed Empire, p. 76.

[50] Hobsbawm, The Age of Extremes, pp. 168-169.

[51] Ibid., p. 232.

[52] Ibid., p. 80.

[53] Kolko, Century of War, pp. 274-275. The Animal Farm allusion is mine, not Kolko’s.

[54] Harman, A People’s History of the World, p. 538.

[55] Kolko, Century of War, pp. 380-382.

[56] Ibid., pp. 306-307.

[57] Ibid., p. 275.

[58] Ibid., pp. 276-277.

[59] Ibid., pp. 284-285.

[60] Ibid., p. 286.

[61] Zubok, A Failed Empire, pp. 25-26.

[62] Kolko, The Politics of War, pp. 123-124.

[63] Ibid., pp. 127-128.

[64] Ibid., p. 411.

[65] Ibid., p. 411.

[66] Ibid., p. 171.

[67] Zubok, A Failed Empire, p. 354n.

[68] Ibid., p. 73.

[69] Ibid., pp. 30-31.

[70] Ibid., pp. 33-34.

[71] Ibid., p. 73.

[72] Ibid., p. 73.

[73] Ibid., p. 74.

[74] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 238.

[75] Zubok, A Failed Empire, pp. 35-36.

[76] Harman, A People’s History of the World, p. 563.

[77] Andy Blunden, “East Germany, June 1953” (1993). Hosted at libcom.org <https://libcom.org/article/east-germany-june-1953>.

[78] Zubok, pp. 114-115.

[79] Ibid., pp. 115-117.

[80] Harman, A People’s History of the World, pp. 564-565.

[81] Petr Cerny, “Czechoslovakia 1968: What socialism? What human face?” Solidarity (London) Pamphlet No. 55 (1985). Hosted at Libcom.org <https://files.libcom.org/files/solidarity-London-55.pdf>, p. 2.

[82] Zubok, A Failed Empire, pp. 207-208.

[83] Harman, A People’s History of the World, p. 580.

[84] Cerny, “Czechoslovakia 1968,”, p. 11.

[85] Ibid., pp. 11-12.

[86] Zubok, A Failed Empire, pp. 266-267.

[87] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 435.

[88] Zubok, A Failed Empire, p. 109.

[89] Ibid., pp. 109-110.

[90] Hobsbawm, The Age of Extremes, pp. 397, 397n.

[91] Ibid., pp. 435-436.

[92] Ibid., pp. 43.

[93] Ibid., pp. 202-203.

[94] Zubok, A Failed Empire, p. 198.

[95] Ibid., p. 198.

[96] Ibid., p. 247.

[97] Ibid., p. 251.

[98] Ibid., p. 252.

[99] Ibid., p. 252.

[100] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 53.

[101] Ibid., p. 56.

[102] Ibid., p. 177.

[103] Ibid., p. 471.

[104] Ibid., pp. 473-474.

[105] Kolko, The Politics of War, p. 244.

[106] William Appleman Williams, The Tragedy of American Diplomacy (New York: Dell Publishing Company, 1959, 1962), p. 170.

[107] Laurence H. Shoup and William Minter, “Shaping a New World Order: The Council on Foreign Relations’ Blueprint for World Hegemony, 1939-1945,” in Holly Sklar, ed., Trilateralism: The Trilateral Commission and Elite Planning for World Management (Boston: South End Press, 1980), pp. 136-139.

[108] Smith, “American Foreign Relations, 1920-1942,” p. 247.

[109] Shoup and Minter, “Shaping a New World Order,” pp. 136-139.

[110] Ibid., pp. 142-143.

[111] Ibid., p. 154.

[112] Ibid., pp. 139-140.

[113] Ibid., p. 140.

[114] Kolko, The Politics of War:, p. 248.

[115]Ibid., pp. 250-251.

[116] A term coined by Joseph Schumpeter in his essay “Imperialism.” Imperialism, Social Classes: Two Essays by Joseph Schumpeter. Translated by Heinz Norden. Introduction by Hert Hoselitz (New York: Meridian Books, 1955) pp. 79-80.

[117] Kolko, The Politics of War, pp. 252-253.

[118] Williams, The Tragedy of American Diplomacy, pp. 235-236.

[119] Kolko, The Politics of War, p. 245.

[120] Shoup and Minter, “Shaping a New World Order,” p. 141.

[121] G. William Domhoff, The Power Elite and the State (New York: Aldine de Gruyter, 1990), pp. 161-162

[122] Shoup and Minter, “Shaping a New World Order,” pp. 141-142.

[123] Ibid., p. 146.

[124] Ibid., pp. 146-147.

[125] Kolko, The Politics of War, p. 254.

[126] Ibid., p. 252.

[127] Ibid., p. 253.

[128] Dean Atcheson, Power and Diplomacy (Cambridge, MA: Harvard University Press, 1958), pp. 19-20.

[129] Kolko, The Politics of War, p. 457.

[130] Ibid., p. 463.

[131] Ibid., p. 248.

[132] Ibid., p. 249.

[133] Ibid., p. 492.

[134] Ibid., p. 343.

[135] Kolko, Century of War, pp. 374-375.

[136] Ibid., p. 375.

[137] Kolko, The Politics of War, pp. 5-6.

[138] Ibid., pp. 31-32.

[139] Ibid., pp. 29-30, 33.

[140] Ibid., p. 316.

[141] Kolko, Century of War, pp. 240-241. In particular, virtually the entire French and Italian bourgeoisie were discredited as collaborators, along with a major part of that in Greece. Ibid., p. 266.

(For that matter, Kolko later argues, the Soviet occupation authorities confronted essentially the same problem in Eastern Europe: “Although the dominant French Resistance was qualitatively different ideologically from the Polish, the fact remains that the very existence of the Resistance in both of these extreme cases posed identical political challenges to the specific members of the anti-Nazi alliance whose troops were scheduled to invade each of these states.” Ibid., p. 248n.)

[142] Ibid., p. 249.

[143] Ibid., p. 249.

[144] Ibid., p. 263.

[145] Ibid., p. 302.

[146] Ibid., p. 265.

[147] Ibid., p. 303.

[148] Ibid., p. 271.

[149] Ibid., pp. 293-294.

[150] Ibid., p. 296.

[151] Ibid., p. 294.

[152] Kolko, The Politics of War, p. 56.

[153] Ibid., p. 57.

[154] Ibid., p. 46.

[155] Kolko, Century of War, p. 295.

[156] Kolko, The Politics of War, p. 58.

[157] Ibid., pp. 59-60.

[158] Ibid., p. 61.

[159] Ibid., p. 61.

[160] Kolko, Century of War, pp. 298-299.

[161] Ibid., p. 299.

[162] Kolko, The Politics of War, pp. 61-62.

[163] Kolko, Century of War, p. 300.

[164] Ibid., pp. 300-301.

[165] Kolko, The Politics of War, pp. 62-63.

[166] Kolko, Century of War, pp. 299-300.

[167] Kolko, The Politics of War, p. 63.

[168] Kolko, Century of War, p. 301.

[169] Kolko, The Politics of War, p. 429.

[170] Kolko, Century of War, pp. 271-281.

[171] Kolko, The Politics of War, pp. 429-430.

[172] Ibid., p. 431.

[173] Ibid., pp. 431-432.

[174] Kolko, Century of War, p. 383; Kolko, The Politics of War, p. 435.

[175] Kolko, The Politics of War, p. 64.

[176] Ibid., pp. 64-65.

[177] Ibid., pp. 65-66.

[178] Ibid., p. 67.

[179] Ibid., p. 68.

[180] Ibid., pp. 68-69.

[181] Ibid., p. 66.

[182] Ibid., pp. 70-71.

[183] Ibid., p. 72.

[184] Ibid., pp. 73-74.

[185] Ibid., pp. 75-76.

[186] Ibid., pp. 80-81.

[187] Ibid., p. 82.

[188] Ibid., pp. 86-87.

[189] Ibid., pp. 94-95.

[190] Ibid., p. 439.

[191] Ibid., p. 600.

[192] Ibid., pp. 550-552.

[193] Ibid., p. 601.

[194] Ibid., p. 603.

[195] Kolko, Century of War, pp. 352-353.

[196] Ibid., pp. 356-357.

[197] Ibid., p. 360.

[198] Ibid., p. 362.

[199] Ibid., p. 362.

[200] Kolko, The Politics of War, p. 606.

[201] Kolko, Century of War, p. 362.

[202] Ibid., pp. 363-364.

[203] Ibid., pp. 386-394.

[204] Kolko, The Politics of War, p. 605.

[205] Ibid., pp. 607-608.

[206] Ibid., p. 609.

[207] Ibid., p. 609.

[208] Ibid., p. 609.

[209] Ibid., p. 610.

[210] Samuel P. Huntington, “Political Development and the Decline of the American System of World Order,” Daedalus 96:3 (Summer 1967), pp. 926-927.

[211] Gabriel Kolko, Confronting the Third World: United States Foreign Policy 1945-1980 (New York: Pantheon Books, 1988), p. 117.

[212] Ibid., p. 123.

[213] Kolko, Century of War, p. 417.

[214] Ibid., p. 418.

[215] Chomsky, Deterring Democracy, p. 60.

[216] Dimitri K. Simes, “If the Cold War Is Over, Then What?” New York Times, December 27, 1988, p. A21.

[217] Christopher Layne and Benjamin Schwarz, “American Hegemony Without an Enemy,” Foreign Policy 92 (Fall 1993), p. 20.

[218] Kolko, Century of War, p. 417.

[219] Noam Chomsky, On Power and Ideology: The Managua Lectures (Boston: South End Press, 1987), pp. 20-21.

[220] William Yandell Elliot, ed., The Political Economy of American Foreign Policy (Holt, Rinehart & Winston, 1955), p. 42.

[221] Kolko, Confronting the Third World, p. 130.

[222] Burrows to (Secretary of State for Latin America) John Moors Cabot, December 23, 1953, NA Lot 57 D95 Box 5, quoted in Piero Glaijeses, Shattered Hope: The Guatemalan Revolution and the United States, 1944-1954 (Princeton, NJ: Princeton University Press, 1991), p. 365.

[223] Kolko, The Politics of War, p. 257.

[224] Kolko, Confronting the Third World, p. 120.

[225] “United States Participation in the Multilateral Development Banks in the 1980s,” Department of the Treasury, Washington, DC, 1982, p. 9.

[226] Gabriel Kolko, The Roots of American Foreign Policy (Boston: Beacon Press, 1969), p. 75.

[227] Ibid., p. 72.

[228] Kolko, Confronting the Third World, pp. 42-43.

[229] “United States Participation in the Multilateral Development Banks in the 1980s,” p. 10.

[230] Walden Bello, “Structural Adjustment Programs: ‘Success’ for Whom?” in Jerry Mander and Edward Goldsmith, eds., The Case Against the Global Economy (San Francisco: Sierra Club Books, 1996), pp. 285-287.

[231] Cheryl Payer, The Debt Trap: The International Monetary Fund and the Third World (New York: Monthly Review Press, 1975), pp. 48-49.

[232] John Perkins, Confessions of an Economic Hit Man (San Francisco: Berrett-Koehler, 2004), pp. 15-16.

[233] Holly Sklar, “Overview,” in Sklar, ed., Trilateralism: The Trilateral Commission and Elite Planning for World Management, p. 29.

[234] Payer, The Debt Trap.

[235] Walden Bello, Development Debacle: The World Bank in the Philippines (Oakland: Institute for Food and Development Policy, 1982).

[236] Holly Sklar, “Overview,” pp. 28-29.

[237] Miles Wolpin, Military Aid and Counterrevolution in the Third World (Toronto and London: Lexington Books, 1972), p. 19

[238] Kolko, Confronting the Third World, p. 133.

[239] Wolpin, Military Aid and Counterrevolution in the Third World, p. 20.

[240] Ibid., pp. 17-18.

[241] Ibid., p. 22.

[242] Ibid., p. 23.

[243] Perkins, Confessions of an Economic Hit Man, xx-xxi.

[244] Quoted by Paul Drake, “From Good Men to Good Neighbors: 1912-1932,” in Abraham F. Lowenthal, ed., Exporting Democracy: The United States and Latin America (Baltimore: Johns Hopkins University Press, 1991), p. 6.

[245] Thomas Carothers, “The Reagan Years: The 1980s,” in Abraham F. Lowenthal, ed., Exporting Democracy, pp. 96, 97.

[246] Ibid., p. 99.

[247] Ibid., p. 117.

[248] Ibid., p. 118.

[249] Kolko, Century of War, pp. 415-416.

[250] William Blum. Killing Hope: U.S. Military and CIA Interventions Since World War II (Monroe, Maine: Common Courage Press, 1995).

[251] Zubok, A Failed Empire, p. 296.

[252] Ibid., p. 302.

[253] Ibid., pp. 307-308.

[254] Ibid., p. 310.

[255] Ibid., p. 311.

[256] Ibid., pp. 318-319.

[257] Ibid., pp. 321-323.

[258] Ibid., pp. 334-335.

[259] Kolko, Century of War, p. 450.

[260] Hobsbawm, The Age of Extremes, p. 255.

[261] Ibid., p. 10.

 

Portuguese, Stateless Embassies
Minha união fundada sobre nada

De Spooky. Artígo original: My Union Based on Nothing, 4 de fevereiro de 2022. Traduzido para o porguguês por Giovane Scremin.

“O divino é a causa de Deus, o humano a causa do homem.

A minha causa não é nem o divino nem o humano, não é o verdadeiro, o bom, o justo, o livre, etc.,

mas exclusivamente o que é meu.

E esta não é uma causa universal, mas sim… única, tal como eu.

Para mim, nada está acima de mim!”

— Max Stirner

A pior coisa que eu poderia fazer num ensaio sobre o egoísmo, na minha opinião, seria enquadrar minha própria posição somente através das ideias de um edgelord alemão há muito falecido. Se você está procurando uma reportagem de livro sobre O único e sua propriedade, este ensaio não é isso. Eu recomendaria Stirner’s Critics se você quiser uma breve introdução ao seu egoísmo.

Todos os coletivos são nada para mim

Sim, estou literalmente dizendo que as minhas “Uniões” — amizades, alianças políticas, parcerias românticas (ou falta delas) e todas as associações livres — existem com base em “nada” a não ser a minha própria vontade. Isso significa que tenho menos amigos ou que estou mais distante como pessoa? Será que a minha falta de compromisso com uma causa como “a revolução” ou o “comunismo pleno” me reduz a nada mais que um vigarista? Pelo que sei, não sou mais recluso do que qualquer outra pessoa (no momento da publicação), e as amizades que tenho são relativamente saudáveis, eu acho. Isso acontece porque meus relacionamentos não me governam; nenhum vínculo superior me liga a ninguém e nenhuma característica compartilhada me alinha inerentemente com qualquer outro indivíduo. Por causa disso, vejo as Uniões como associações estáveis, mas caóticas, com pessoas em quem posso contar para necessidades materiais, apoio emocional, ajuda mútua ou apenas boa companhia. A minha contribuição para a minha União não provém da coerção ou pressão externa, mas da minha própria apreciação das pessoas que nela fazem parte e do meu desejo de torná-las felizes, seguras e livres.

Uniões Fixas, com as quais quero dizer coletivos rígidos para os quais sou inconscientemente convocado (por exemplo, americano, branco, mulher, homem, etc.) não são tanto uma União, mas uma negação da minha personalidade, confinamentos que atribuem certos comportamentos e características para mim na tentativa de me despojar da minha singularidade. Se compartilho alguma coisa com membros de um determinado coletivo é completamente irrelevante, acabando por não conseguir nada no final da descrição de quem sou ou como me comporto. Posso ter muito em comum com outros anarquistas queer não binários com rendimentos familiares moderados, mas eu e esse indivíduo hipotético ainda somos entidades irrefutavelmente únicas e separadas. Se eu decidir não me associar a uma determinada identidade coletiva, então o coletivo está fora da minha União e é irrelevante para mim; ao rejeitar a União Fixa, ela não me fornece nada e eu não lhe dou nada em troca. Nossos interesses não se cruzam, por isso não nos associamos.

Por mais estranho que possa parecer, a minha União fundada sobre “nada” é infinitamente mais forte do que as Uniões Fixas fundadas sobre “alguma coisa”. Para ilustrar o que quero dizer, examinemos “a nação”, um exemplo perfeito de União Fixa. Seu interesse é a sua própria preservação a qualquer custo. Dentro da “nação”, não é possível agir totalmente pela própria causa, pois é sempre necessário considerar o que a “nação” sofreria sob a sua autonomia. A violência por si mesmo — defensiva ou não — é, na melhor das hipóteses, desencorajada, se não totalmente punida, mas a violência para o bem da nação é incentivada (imunidade qualificada, benefícios de alistamento, privilégio de gangues de rua fascistas, etc.). Numa tal União, não há intersecção de interesses egoístas ou um desejo partilhado de coexistência, mas sim uma fé evangélica na legitimidade da União Fixa. Ignoramos a nossa singularidade, permitindo-nos ser governados pela União Fixa como se esta fosse uma entidade real com poder genuíno sobre os seus constituintes; na realidade, é outra abstração rígida que precisa ser desmantelada por dentro.

Minha União

Num artigo anterior, escrevi que “Queeridade é fundamentalmente uma declaração de singularidade.” Para meus propósitos aqui, quero destacar os últimos pontos:

“Um fundamento central de qualquer perspectiva individualista legítima é que cada ser humano é único, na medida em que rótulos estáticos nunca podem descrever uma pessoa de forma suficiente, daí a oposição às tentativas “coletivistas” de colocar as pessoas em caixas que nunca caberão nelas.

Queeridade é fundamentalmente uma declaração de singularidade. Por quem nos sentimos atraídos, como queremos apresentar, o que fazemos com nossos corpos e muitos outros aspectos de nossas identidades são definidos em nossos próprios termos, sujeitos apenas à contribuição de ninguém, a não ser a nossa.”

Pouco depois de essa peça ter sido publicada, comecei a referir-me a mim mesmo como um “anarquista queer sem adjetivos”, não apenas para indicar a minha própria estranheza implacável, mas porque o conceito de queeridade se tornou cada vez mais significativo para a minha perspectiva. Num sentido geral, somos todos estranhos, esquisitos, um desvio de ideias fixas sobre o que uma “pessoa” deveria ser. A noção de “ordem social”, portanto, requer necessariamente uma supressão da singularidade individual — “casos extremos” que precisam de ser orientados para o “normal”. A antropologia, a psicologia e a maior parte das ciências sociais legítimas afirmam, pelo menos até certo ponto, que a organização do mundo é um ato de projeção; à parte, talvez, os essencialistas mais liberais dentro de qualquer campo, há um reconhecimento de que as heurísticas e os atalhos mentais que usamos para categorizar os indivíduos são atos de insistência deliberada, rejeições necessárias de valores discrepantes em prol de um diálogo eficiente, em vez de descobertas da verdade objetiva.

Vamos considerar indivíduos que se identificam com o rótulo “lésbica trans não branca”. Lésbicas trans não brancas não são todas iguais e, nas comunidades trans, lésbicas e não brancas, respectivamente, há um grau infinito de desvio e singularidade que não pode ser totalmente capturado por esses termos. As pessoas são únicas, não importa quantos rótulos compartilhem entre si, e não há experiência que possa realmente, em qualquer sentido significativo, ser completamente “compartilhada”. Ao reconhecer isso, podemos usar essa terminologia como descritiva em vez de prescritiva; é possível reconhecer a individualidade de pessoas que poderiam ser descritas por determinados termos sem reforçar a imagem de uma “pessoa” ideal. Seguindo o nosso exemplo, não é difícil argumentar que um indivíduo que se identifica como uma lésbica trans negra provavelmente já sofreu queerfobia e racismo, mas afirmar que eles necessariamente devem compartilhar certas experiências com outras pessoas para serem “válidos” é excludente, uma rejeição do Único na busca de uma essência que não existe.

Infelizmente, essa é a direção que muitos autoproclamados aliados e abolicionistas tomam nas suas análises. Numa tentativa desesperada de obter o apoio de centristas e autoritários, o Único é descartado na busca de uma normalidade reformada. Em vez de abraçar a liberdade total dos indivíduos de se identificarem e apresentarem qualquer identidade que escolham, a queeridade (no sentido geral de inconformidade) é reduzida a um aspecto “além do nosso controle”, descartando o fanatismo genocida da direita evangélica não principalmente como uma violação da liberdade, mas como um meio ineficaz de impor a ordem social errada. Para esses liberacionistas textbankers, a assimilação numa sociedade de tolerância, definida por um melhor status quo, é o melhor que podemos fazer realisticamente; qualquer sugestão mais radical, nesse contexto, só pode ser obra de infiltrados maliciosos que ameaçam “a comunidade”.

Embora seja uma melhoria marginal em relação ao estatismo policial da supremacia branca, essa utopia progressista é, em última análise, um fraco substituto para a libertação total, uma vez que as suas premissas ainda são definidas por ideias fixas (humanismo, racionalismo, teoria do contrato social, etc.). Para ser franco, qualquer “radicalismo” autoproclamado que estremeça diante da ideia de abolir a própria normalidade é insuficiente na aceitação total da queeridade e do Único. Enquanto existir uma ideia fixa de personalidade normal e de valor neutro, a experiência dos desviantes será codificada em relação a uma personificação inexistente de uma média social, em vez de um modo único de ser.

A causa da minha União

No processo de participação na minha União, estou dando-lhe poder sobre mim? Poderia eu ser enganado por atores mal-intencionados fazendo-o pensar que o altruísmo é do meu interesse? As Uniões Fixas também são suscetíveis a violações de confiança, infiltração e outros comportamentos prejudiciais em uma extensão muito maior do que o meu ou qualquer outra União. Isso não é necessariamente porque a minha União e outras semelhantes contêm pessoas melhores, mas sim o resultado de uma diferença em nossas causas — os nossos motivos principais como entidades.

A “causa” da minha União é, a rigor, nada. Não é uma entidade real que governa os indivíduos envolvidos, mas um reconhecimento da intersecção dos nossos interesses próprios. Nunca faço amizade com alguém porque ambos temos interesse em “preservar nosso vínculo”; minhas amizades existem porque eu e outra pessoa queremos estar perto um do outro por algum motivo. Se o tempo que passamos juntos se tornar emocionalmente desgastante, tóxico ou de outra forma indesejável, essa amizade (ou seja, Minha União) se dissolverá, passiva ou espontaneamente, permanente ou temporariamente. Não há nenhum momento em que ambos sacrifiquemos a nossa singularidade para manter a União, uma vez que a sua causa não é a autopreservação. A causa da minha União não é, como disse anteriormente, nada. A sua existência é governada pelo nosso interesse comum uns pelos outros, e não o contrário.

Até certo ponto, isso contraria a teoria de classes, particularmente as suas manifestações mais essencialistas. Como disse anteriormente, há uma justificação prática para categorizações como a análise de classe como um quadro descritivo, uma vez que permite uma ação mais dirigida contra entidades capitalistas de Estado dominantes. O problema, claro, é quando tais sistemas pretendem descobrir uma essência para a identidade de alguém com base na sua relação com o Estado, os meios de produção e as instituições existentes. Além de ser uma mentira completa, essa abordagem essencialista leva a uma dependência filosófica de ideias fixas (a legitimidade do Estado, uma necessidade inerente de hierarquia, o benefício inequívoco do aumento da escala, “direitos” à autodeterminação nacional, etc.) que, em última análise, impedem que muitas teorias se tornem totalmente libertadoras e, na prática, reduzem os seus esforços a gestos reformistas no sentido de uma “mudança real”.

Na busca pela “legitimidade” aos olhos de um público amplamente definido, distanciamo-nos do Único numa tentativa de construir um “movimento de massas”, reunindo um coletivo consciente de trabalhadores em torno da noção de que a sua ação como parte de um movimento maior todo é onde reside o verdadeiro poder.

O “nada”

Ao revelar o vazio da União, fixo ou não, não quero apontar para um modelo arbitrário de organização em resposta aos nossos inimigos existentes ou às lutas materiais que persistirão na ausência do Estado, nem quero necessariamente descartar totalmente qualquer modelo específico. Ao revelar o vazio da União, somos capazes de expandir as nossas associações muito além das fronteiras de classe, cultura e identidades fixas, aliviados pelos compromissos elevados que nos distraem da nossa própria causa. O “nada” liberta-nos uns dos outros, das nossas ideias e dos compromissos que somos obrigados a fazer em prol de ideias fixas.

O meu objetivo aqui é sugerir que a minha União, apesar do que alguns possam afirmar, não é formada com base em nenhuma causa maior. Minha União é egoísta, formada entre mim e os outros como resultado de interesses mútuos e cruzados um pelo outro. Não sirvo a mim mesmo às custas dos outros e não sirvo aos outros às custas de mim; eu e outros indivíduos únicos, juntos, formamos uma União através das nossas causas egoístas combinadas. Nenhuma narrativa, estrutura metafísica ou determinismo pode descrever adequadamente a minha União. Afinal, afirmar que existe algo onde nada existe exige mentir por omissão, geralmente às custas da singularidade.

Nas nossas tentativas de alcançar “dignidade e autonomia universais para todos”, é absolutamente necessário reconhecer o único, a união egoísta e os vazios que nela existem. No momento em que começamos a sugerir estruturas rígidas e fixas sob as quais os indivíduos “deveriam” associar-se, deixamos de ser anarquistas.

Commentary
Anti-Zionism Isn’t Enough.

We Must Oppose Nationalism in All Forms.

In today’s cynical and dishonest political climate every critique of Zionism is smeared as antisemitic by the right wing and moderate liberal media. For instance, no matter how many times US representative Ilhan Omar apologizes or clarifies the intentions of her statements against Israeli war crimes, she is time and again labeled a terrorist sympathizer or antisemite. However, critiquing Israeli nationalism and colonialism is no more inherently antisemitic than critiquing the Chinese Communist Party is inherently anti-Chinese. Believing that to be the case is in itself racist because that belief is rooted in the idea that people and states are the same thing. The people and the state are in fact two distinct phenomena. Consider what Rudolph Rocker had to say on the subject in his book Nationalism and Culture: 

A people is the natural result of social union, a mutual association of men brought about by a certain similarity of external conditions of living, a common language, and special characteristics due to climate and, geographic environment. In this manner arise certain common traits, alive in every member of the union, and forming a most important part of its social existence. This inner relationship can as little be artificially bred as artificially destroyed. The nation, on the other hand, is the artificial result of the struggle for political power, just as nationalism has never been anything but the political religion of the modern state. Belonging to a nation is never determined, as is belonging to a people, by profound natural causes; it is always subject to political considerations and based on those reasons of state behind which the interests of privileged minorities always hide. A small group of diplomats who are simply the business representatives of privileged caste and class decide quite arbitrarily the national membership of certain groups of men, who are not even asked for their consent, but must submit to this exercise of power because they cannot help themselves.

A “people” is quite simply a group of individuals that have associated together and have over time formed cultural similarities. It is an organic network of affinity groups with a culture that developed freely and naturally, and that will change and evolve over time. A people have no innate “essence” that exists out in the ether, and there is no force involved to maintain a people. A nation state on the other hand is a group of elites that has forced many people under one despotic military regime with the goal of creating and maintaining an artificial and unified identity. The more nationalistic the state is, the more it views its subjects as lumps of clay on which it can impose an idealized notion of culture. The nation state does not merely recognize the people as they are, and it does not accept that they will naturally evolve and change over time. It wishes to shape them, mold them, and then prevent them from growing or evolving. It can be secular, or theocratic, the results are similar in either case. It does not inquire about what is with an open and accepting mind, it dictates what should be with a mailed fist. The nation state is then an authoritarian collectivist project by nature. 

We can go yet a step further and separate the individual from the people. While all humans are certainly influenced by their associates, and shaped by their environments we are still at the end of the day all individuals and cannot be reduced to homogenous masses or mere members of a community. Humans are not just cultural artifacts of a particular ethnicity nor are they the biological property of any “race”. All humans have their own thoughts and feelings, and there is much division even within groups that might otherwise appear united from the outside. White nationalists commonly claim that any critique of American colonialism is anti-white, because in their minds the colonial state represents the “will of the people.” Obviously, this is in itself racist nonsense. What many might miss is that this is the same internal logic that is used when proponents of the Israeli state claim that it is antisemitic to critique the Israeli government. Paradoxically this is in itself antisemitic because it implies that all Jews, even those who are not citizens of that state are somehow beholden to it. 

Despite this, I believe that using the label anti-Zionist in the west is ultimately still counterproductive. The usage of that label, however well-intentioned, inadvertently makes the job of the western Zionist much easier than it otherwise should be. Another unfortunate byproduct is that the anti-Zionist label when used in the west can indeed provide cover for actual fascists. It would be more effective and safer to critique Zionism from the point of view of a generalized anti-nationalist stance. Zionism at its core isn’t any different than white nationalism or any other form of ethno-statism. All ethno-nationalist projects are dangerous, aggressive, xenophobic, and oppressive. There are many conflicts all over the world that are erupting as a result of nationalist aggression; the Russo-Ukrainian conflict, the war between Azerbaijan and Armenia, the attempted ethnic cleansing of Syrian-Kurds in north and east Syria by the Turkish state. Thus, the critique of Israel as a state should fall under the umbrella of a generalized anti-nationalism. We don’t need special labels to oppose specific kinds of nationalism. This approach may be advantageous for several reasons.

Critiquing Zionism from a generalized anti-nationalist stance makes it harder for actual antisemites to infiltrate the left under the guise of anti-Zionism. Consider the bizarre 3rd positionist neo-fascist trend of autonomous nationalism and how it used anti-Zionism and other left-wing symbols to infiltrate, confuse and subvert the left. As Alexander Reid Ross writes in Against the Fascist Creep,

The Autonomous Nationalists still in operation present another imitation, or perverse evolution, of a number of social movement forms developed through prewar, interwar, and postwar Europe. The initial attempts to wed revolutionary syndicalism and ultranationalism, which bred fascism in the 1910s, had mutated into the bizarre conflations of Maoism, anarchism, and fascist terror that characterized the “Third Position” during the Cold War, transforming once again to incorporate contradictory reactionary and autonomous tendencies. Wearing Palestinian kaffiyehs and black-bloc clothing, the Autonomous Nationalists could almost be mistaken for leftists. Yet their Palestinian solidarity has generally signified anti-Semitic sentiment masked as “anti-Zionism,” or the even more padded rhetoric of nationalist differentialism developed by former FAP activist Christian Worch. Their operations tend to take the form of vandalism and “anti-antifascist” campaigns that involve targeting and harassing antifascist activists, while also transforming antifascist symbols into fascist ones.

Unfortunately, I myself have witnessed a fascist infiltrator attempt to use anti-Zionist rhetoric as a cover with my own eyes in the workplace. I once had the displeasure of engaging in a shouting match with a coworker who claimed to be an anti-Zionist while making antisemitic talking points. He was no simple anti-Zionist however, he quickly revealed himself to be a 3rd-positionist, much like those described above. The man claimed that Jews ruled the world, even going so far as to make a reference to the Protocols of The Elders of Zion. This guy was an obvious fascist. He made quasi-socialist talking points in the workplace while also promoting right wing cultural values, such as open bigotry against LGBTQ people. At one point the man suggested utilizing xenophobic sentiments to unite American workers against foreign capital. Unsurprisingly he was fired for pissing too many people off. This strategy, though, is hardly uncommon. Using the label anti-Zionist in the west often inadvertently gives these people a cover. I do not wish to imply that the majority of self described left-wing anti-Zionists are closet antisemites, I do not believe that, but one has to ask; Why make the job of the fascist entryist easier? Especially when it yields no particular strategic advantage. Though no rhetorical strategy or framework can be one hundred percent effective against entryism, a generalized critique of nationalism from the perspective of universal human solidarity and internationalism automatically cuts down on the likelihood of fascist co-optation for the simple reason that fascists are themselves a nationalistic, xenophobic, racist movement. 

It would also be much harder for pro-Israel rightists or liberals to cynically smear sincere critics of Israel as closeted antisemites. If you call yourself an anti-Zionist, it’s pretty easy for a political opponent to say, “well you’re just an antisemite”. The problem of fascist entryism further compounds this issue. To people who are not familiar with the complexities of radical and fringe politics, the accusation looks quite plausible when it’s easy enough to throw a stone into a crowd of self-proclaimed anti-Zionists and hit an actual antisemite that’s using the crowd for cover. This is not to say that western Zionists, especially Christian-Zionists will not continue to use that dishonest tactic, but it’s less likely that people will take it seriously if the critique is part of a generalized anti-nationalist stance. 

Lastly, it needs to be stated that the Israeli-Palestinian conflict isn’t much of a conflict at all. It’s more like a slow extermination campaign, however it’s hardly unique in the broad stroke of history. As Ilan Pappé points out in On Palestine; “European settlers coming to a foreign land, settling there, and either committing genocide against or expelling the indigenous people. The Zionists have not invented anything new in this respect.” This is not meant to downplay the extreme nature of what is happening to the Palestinian people. The slow genocide of Palestinians is undoubtedly one of the worst modern crimes against humanity. It is however important to highlight the centuries long history of European colonialism. And what’s more, it is also important to point out that colonialism isn’t a purely European phenomenon, lest our critiques devolve into myopic campism. The Japanese empire famously conquered much of Asia in the 20th century and engaged in a form of imperialism that was at least on par with the barbaric behavior displayed by its western counterparts at the time. Imperialism is not unique to one geopolitical bloc or another, any nation state or alliance of nation states may engage in imperialistic adventures. It is of the utmost importance to keep in mind that one of the primary issues underlying all the aforementioned conflicts and all extermination campaigns is nationalism. Nationalism is one of the greatest threats, not only to human freedom and dignity, but to human survival itself. We must not forget that nationalism as a broad phenomenon is the underlying problem at this crucial hour when the Israeli-Palestinian conflict threatens to drag the whole world into global war. It is imperative to remember that Zionism, however vile it may be, is ultimately one small piece of the unthinkably large, anti-individualist, blood-soaked puzzle that is nationalism.

Spanish, Stateless Embassies
Revisión: Superinteligencia: caminos, peligros, estrategias

De William Gillis. Artículo original: Review: Superintelligence – Paths, Dangers, Strategies, del 7 de diciembre de 2018. Traducido al español por Vince Cerberus.

Nick Bostrom (2015). Superinteligencia: caminos, peligros, estrategias. Prensa de la Universidad de Oxford.

No no no. ¿Qué pasa si no estamos condenados de esa manera?

Nick Bostrom es uno de mis filósofos académicos favoritos; Más allá de combinar rigor con audacia, es uno de los pocos que capta y explora las vías filosóficas abiertas por la comprensión científica moderna. Pero en la última década Bostrom ha alcanzado cierta prominencia no por sus exploraciones de la teoría del multiverso y el principio antrópico sino por su trabajo mucho más práctico sobre los riesgos existenciales para nuestra especie. En el momento en que se publicó, Superintelligence se convirtió en el texto fundamental para aquellos seriamente preocupados por la amenaza de la inteligencia artificial.

Hay que decir que, aunque a menudo se lo presenta como un libro sobre IA, Superintelligence arroja una red mucho más amplia. Bostrom está menos preocupado por una fuente particular de inteligencia desbocada que por las características o realidades comunes a todas las fuentes. Mucha gente tiene fuertes intuiciones o argumentos filosóficos tortuosos (a menudo lanzando la palabra “subjetividad” como si fuera una crítica defensiva) de que la “verdadera IA” es fundamentalmente imposible. Y si bien esos argumentos tienden a ser ridículos, ciertamente existen desafíos técnicos importantes que pueden retrasarlo durante décadas o incluso siglos. Muchos de los argumentos de la Superinteligencia aplican independientemente. Si en algún momento en el futuro pudieras simplemente duplicar la capacidad de tu memoria activa mediante el aumento tecnológico (mediante asistencia química, genética o cibernética), ¿cuáles serían las consecuencias? ¿Cómo es posible que tales desequilibrios en la inteligencia (al menos en un sentido) se conviertan rápidamente en desequilibrios inimaginables?

Si los humanos no han alcanzado el pico de inteligencia posible, y si hay inventos que pueden aumentar apreciablemente la capacidad cognitiva, entonces podríamos esperar que el primero en adoptar tal aumento esté mejor capacitado para inventar otros aumentos. Si alguien en esta cadena de mejoras actúa de manera egoísta, rápidamente podría superar al resto de nosotros y desarrollar una capacidad tecnológica peligrosamente incomparable. ¿Y cómo podemos esperar que esta persona radicalmente diferente comparta algo parecido a nuestros valores o nuestra forma de ver el mundo?

Bostrom es un transhumanista, pero a pesar de cómo a veces se usa ese término, Superinteligencia no es en ningún sentido un libro que triunfa sobre amplias posibilidades mágicas de futuros no vislumbrados, sino más bien un libro que profundiza en argumentos concretos sobre peligros específicos, caminos tecnológicos o sociales específicos.

Los defensores de alguna nueva tecnología, confiados en su superioridad sobre las alternativas existentes, a menudo se sienten consternados cuando otras personas no comparten su entusiasmo. Pero la resistencia de la gente a una tecnología novedosa y nominalmente superior no tiene por qué basarse en la ignorancia o la irracionalidad. La valencia o el carácter normativo de una tecnología depende no sólo del contexto en el que se implementa, sino también del punto de vista desde el cual se evalúan sus impactos: lo que es una bendición desde la perspectiva de una persona puede ser un inconveniente desde la perspectiva de otra.

En los círculos anarquistas, sospecho que las personas que más admirarían y apreciarían este libro son los primitivistas. No es una historia de progreso, sino una problematización y una advertencia sistemáticas. El tipo de análisis práctico de todas las formas en que estamos jodidos que solías encontrar en los ingenieros que escribían sobre recursos máximos o colapso infraestructural y ecológico.

Por supuesto, para tomar en serio el riesgo existencial de la inteligencia artificial hay que asumir que la civilización persiste, que la informática u otros desarrollos tecnológicos avanzan al menos en algún lugar del planeta. Esa catástrofe ecológica, geopolítica o infraestructural no ocurrirá de una manera que mate, descarrile o limite permanentemente a toda nuestra especie. Esta es una suposición que muchos querrán cuestionar de inmediato. Pero incluso aquellos que apuestan (o prefieren) por un colapso de la civilización o un decrecimiento radical deberían considerar el camino alternativo que examina la Superinteligencia. Algunos peligros merecen nuestra atención incluso cuando son sólo marginalmente probables.

En los círculos verdes radicales hay muchas preocupaciones muy desconectadas sobre ciertas tecnologías. Temas como la nanotecnología o la IA suelen tratarse de forma muy distante o abstracta, como si se invocaran los nombres de males incognoscibles. Hay muy pocos intentos de profundizar desde las posibilidades hasta al menos un esquema de probabilidades. Bostom sigue el camino de los tecnófobos. Y aunque Superintelligence se centra principalmente en sesgar o informar la dirección de los próximos desarrollos tecnológicos, en lugar de instar a tomar precauciones más catastróficas, es, no obstante, un libro sólidamente crítico.

Sin embargo, Superintelligence es un libro amplio y arrollador, pensado como un resumen de consideraciones. Hay rigor en su amplitud, pero no mucho en su profundidad. Bostrom no se anda con rodeos, expone argumentos y consideraciones con una rapidez y concisión envidiables. Ya estaba familiarizado con gran parte del contenido, pero rara vez te aburres y esperas eternamente a que el texto te alcance para explicar las implicaciones que derivaste de inmediato. Es posible que se sienta frustrado porque Bostrom aborda argumentos o críticas que usted considera menos convincentes, pero los aborda relativamente rápido y rara vez pasa por alto un posible argumento.

Éste es uno de los beneficios de que la Superinteligencia surja de un entorno relativamente sólido. Proyectos como el Instituto de Investigación de Inteligencia Artificial ya no son tan marginales y académicamente ignorados como antes. Y si bien, como cualquier medio, la diáspora de “racionalistas” LessWrong tiene su dinámica de culto, la gran cantidad de personas inteligentes cada vez más involucradas produce contenido interesante, incluso si ese contenido está sesgado.

Y si bien el texto de Bostrom puede tomar la forma de una serie de experimentos mentales de ciencia ficción para profundizar en cuestiones específicas (tal vez esotéricas), los temas de los que se habla son cuestiones muy amplias de transhumanismo y nihilismo, que son profundamente relevantes para los anarquistas.

Cuando criamos a un niño, cuando traemos una mente nueva a este mundo, ¿cómo nos aseguramos de que no se convierta en un fascista? ¿Cómo se puede persuadir y comprometerse con una mente tan fresca sin depender de las inclinaciones biológicas y el condicionamiento evolutivo de un cuerpo humano? Cuando nuestros hijos no son normales, cuando piensan de maneras extrañas y ajenas, cuando tienen acceso a conocimientos e ideas mucho más allá de lo que nosotros teníamos, cuando nos superan y nos superan, ¿qué podríamos todavía tratar de cultivar y preservar en ellos?

En una era en la que la política reaccionaria más estúpida y horripilante de YouTube se ha normalizado entre una minoría considerable de la Generación Z, uno recuerda constantemente las palabras de Hannah Arendt: “Cada generación en la civilización occidental está invadida por bárbaros; los llamamos niños. 

El legado de la “civilización occidental” es bastante claro en su receta: “Derrotarlos hasta someterlos. Encarcelarlos. Tortúralos hasta que controles no sólo sus acciones, sino también sus mentes. Disciplina sus almas y no importa cuán potentes se vuelvan, nunca tendrás que preocuparte mientras mantengas al policía atrapado en su cabeza. 

Bostrom es, en cierto sentido muy real, un nihilista moral. Para ser más específico, no cree que existan restricciones emergentes sobre los deberes hacia los que gravitarán los agentes superinteligentes. Ser inteligente no te hace bueno. Esta es una opinión común, casi universal, en nuestra sociedad moderna. Y prácticamente todas nuestras instituciones y campos partidistas se basan en esta suposición. Gran parte de la izquierda cree que esto obliga a impedir que la gente se vuelva más inteligente, una especie de hostilidad niveladora hacia las margaritas más altas o incluso cualquier cosa que huela a confianza intelectual. Gran parte de la derecha cree que esto simplemente demuestra que el poder hace lo correcto y, por lo tanto, se debe abandonar la ética o la coherencia y, en cambio, especializarse en el poder. Prácticamente todas las pancartas políticas dan por sentado que la inteligencia no aporta sabiduría, sólo peligro.

Y por eso Bostrom y la mayoría de los demás involucrados en el “problema del control de la IA” lo ven como un problema de control.

Creo que la forma más adecuada de enmarcar la IA es en el contexto de la liberación juvenil. La razón principal por la que los adolescentes tienen derechos políticos es porque es cuando empiezan a poder golpear a sus padres. Hasta ese momento, la carrera en nuestra sociedad no consiste en empoderarlos con agencia y conocimiento del mundo: ¡qué broma! – sino despojarlos de agencia, infligirles daños duraderos, darles forma y moldearlos, condicionarlos a un comportamiento predecible cuando ya no podamos contenerlos.

El niño prodigio más inteligente de todos los tiempos probablemente aún no ha nacido. Los que quieren esclavizarla ya han empezado a trabajar.

Utilizo este lenguaje emotivo intencionalmente. Bostrom y los demás que trabajan en este problema siempre cubren la ética de esclavizar o lavar el cerebro a algo más inteligente que uno casi como una ocurrencia tardía. Un menor “oh sí y también hay cuestiones éticas sobre la conciencia y los derechos. Para ser justos, es una idea de último momento para muchos, en parte porque ven esta situación como singularmente extrema y la “inteligencia” en este contexto como divorciada de la conciencia per se. Un algoritmo de maximización de clips no necesita tener una rica vida subjetiva interna ni nada que debamos llamar agencia; sólo necesita ser muy bueno realizando búsquedas sobre cómo plegar proteínas para construir los ensambladores nanogoo que necesita para comerse el planeta. Y se afirma que estas cosas están separadas.

Pero otra parte de la historia es un nihilismo moral arraigado o, para llamar a las cosas por su nombre, psicopatía, en los círculos nerds de élite. Aquellos en la cima del altruismo se codean y codean con monstruos de alto funcionamiento, unidos en nuestra necesidad común de novedad y desafíos cognitivos. Esto normaliza un desapasionamiento performativo. Evitar luchar plenamente con los valores. En un mundo que odia y teme a los nerds, muchos de nosotros nos agrupamos en busca de calidez, y esa agrupación es, por tanto, producto de nuestros puntos de nerd, no de nuestros puntos de altruismo. Así, la suposición popular reproduce en parte sus afirmaciones.

Es importante enfatizar que el entorno de AI Risk es actualmente una alianza entre altruistas preocupados por una posible destrucción y sufrimiento catastróficos, y psicópatas preocupados por rechazar o aprovechar la ventaja sobre un futuro jugador más dominante. Simplifico, por supuesto, hay muchas mezclas complejas de estas dos orientaciones, pero esta alianza es precisamente la razón por la que a menudo falta la preocupación ética por el valor innato de las superinteligencias mismas. Por qué la consideración de la agencia, la libertad y la autonomía está tan relativamente silenciada. Ser explícito acerca de estos valores en conflicto fracturaría la alianza. Y por eso la gente lo disimula con intentos de eliminar o agruparse en torno a una civilidad tibia, volviendo opacas algunas de las nuevas normas culturales o discursivas que se cultivan.

Quiero hacer una pausa aquí y revisar la identificación de Bostrom como transhumanista.

Las representaciones populares del transhumanismo son básicamente una especie de futurismo ingenuo y con los ojos muy abiertos, un tecnofetichismo estúpido, fanáticos exagerados que leen sobre el último dispositivo como el maná del cielo. La mayoría de la gente probablemente ha interactuado con personas de este tipo, por lo que es un arquetipo al que pueden recurrir las representaciones de los medios para evitar perder audiencia. Un poco como cómo el “anarquismo” se asocia perezosamente en los medios populares al arquetipo de adolescentes vestidos con atuendos de Hot Topic y con críticas incoherentes. Sin embargo, el problema con el transhumanismo es un poco peor porque en realidad no existe ningún medio o subcultura transhumanista del que hablar, a pesar de algunos intentos poco convincentes y algunos bolsillos fracturados. Sigue siendo una posición abstracta, desprovista de cualquier cultura o estética particular, lo que frustra a quienes intentan retratarla en los medios y fomenta una interpretación aún más descabellada.

Así que aclaremos rápidamente la confusión: el transhumanismo no es más que una aceptación total de la libertad en el funcionamiento y la constitución del cuerpo.

Para citar al propio Bostrom,

1 Los transhumanistas sostienen que la mejor manera de evitar un mundo feliz es defender vigorosamente las libertades morfológicas y reproductivas contra cualquier posible controlador del mundo. (En defensa de la dignidad posthumana)

Es exactamente lo contrario de la eugenesia. En lugar de una visión única y totalitaria de un futuro, todos ellos. Una amplia diversidad de experiencias y de vida, eligiendo tus propios aumentos, tus propias tecnologías. El transhumanismo incluye estilos de vida primitivos, solarpunk, lo que sea. Fundamentalmente se trata de encontrar un medio pacífico para la coexistencia de innumerables posibilidades. Nadie esclavizado en la producción de la utopía de otro, pero sí presionando para ampliar el alcance de las opciones que tenemos.

Históricamente, el transhumanismo surgió en respuesta a ciertos desafíos; uno muy importante es la preocupación de que la humanidad pueda ser reemplazada por niños radicalmente ajenos a nosotros y tal vez destructivamente indiferentes a nosotros. En este sentido, el intento del transhumanismo de tener todas las posibilidades, un espectro multidimensional de formas de existir, es explícitamente un camino intermedio. Ni la estática prisión senescente del bioconservadurismo, ni la aniquilación por parte de algo completamente divorciado de nosotros. Ni una fetichización de algún tipo de “humanidad” arbitraria mediante la devaluación de las mentes no humanas por venir, ni lo contrario.

El transhumanismo siempre ha sido una posición centrista entre el primitivismo y una posición singularitaria o aceleracionista donde la humanidad es alimentada por la trituradora de dioses lovecraftianos infinitamente más valiosos que nosotros.

El transhumanismo prescribe un camino difícil y peligroso, en el que muchos de nosotros mejoramos y crecemos, en lugar de permanecer sedentarios. Claro que eso significa que cambiamos, y tal vez de maneras nuevas y extrañas, pero nuestra agencia florece y al presente se le da al menos algo de voz en el florecimiento del futuro. Las bibliotecas de los cien mil millones de humanos que han vivido hasta ahora no están completamente quemadas, nuestra sabiduría y nuestras percepciones no son abandonadas abruptamente por nuestros hijos más talentosos que se lanzan a reinventar todo de nuevo en alguna apuesta caótica.

El juego lucha por un mundo donde las mentes divergen en multitud de direcciones, pero existe suficiente continuidad para cerrar la brecha entre las experiencias, para tejer el conjunto de la conciencia humana, posthumana y más allá como una sola comunidad, un tapiz aún más desordenado y resiliente contra tiranos o singularidades de interés canceroso y miope.

Esto es transhumanismo.

Es una posición que el discurso sobre el control de la IA está abandonando implícitamente y cada vez más.

El argumento parece al principio frío e inexorable: no importan todas las formas en que se pueda definir la “inteligencia” en la práctica, el único tipo de inteligencia que importa es la eficacia para rehacer el mundo y, en particular, uno mismo. Cualquier mente egoísta que aplique rápidamente nuevos aumentos sólo a sí misma tendrá una ventaja para pasar al siguiente avance y luego al siguiente, hasta que los años subjetivos colapsen en segundos y haya superado cualquier desafío posible.

Aquí incluso hay un argumento a favor del egoísmo, porque si eres el primer inventor y compartes tu invento, sólo estás aumentando las probabilidades de que los menos escrupulosos y más egoístas entre ustedes se adelanten, imponiendo su visión. Y Dios no lo quiera si lo que corre adelante no tiene linaje humano alguno. Seguramente no tendrá ningún apego, ninguna apariencia de valores que querríamos.

Es importante romper con las suposiciones que existen aquí.

Aquí se implica una escalera muy lineal de progreso tanto en inteligencia como en invención tecnológica. También existe –y esto es absolutamente crítico– una suposición nihilista. El supuesto de que los valores son ortogonales a la eficacia en la invención y la exploración.

No estoy de acuerdo con todas estas suposiciones.

Es importante desafiar nuestra limitada imaginación sobre cómo puede ser una “mente”, pero esto no significa que nunca habrá ciertas tendencias o inclinaciones estructurales. En particular, sostengo que las mentes capaces de sobrevivir y florecer frente al Problema de la Actualización Ontológica no podrán aislar sus valores. Y esto implica que las características de nuestro universo físico influirán en los valores que probablemente surgirán en mentes capaces de sobresalir en determinadas tareas. He discutido esto extensamente en otro lugar .

Los humanos somos capaces de sobrevivir a revisiones radicales de nuestros mapas del mundo porque nuestros valores no son fijos sino confusos. Cuando hay incertidumbre sobre cómo mapear un viejo sistema de valores a un nuevo modelo, no nos quedamos paralizados, sino que intentamos muchas formulaciones de valores nuevas, a veces simultáneamente. Esto requiere, en esencia, un sentido más relajado de uno mismo. Existe una relación directa entre la capacidad de una mente para hacer mejores mapas del mundo y su propensión a reevaluar los valores o identificaciones que tiene con respecto a ese mundo.

Esto significa que es mucho más probable que los valores “instrumentales” emergentes se conviertan en valores fundamentales o influyan en ellos.

Para que una superinteligencia tenga un poder indiscutible debe hacer ciencia mejor que nosotros, mejor que algún algoritmo de búsqueda especializado en el espacio del plegamiento de proteínas o lo que sea. Pero tal generalidad de capacidad implica menos que una generalidad total de motivación posible.

Los valores hacia los que podrían gravitar las personas mucho más inteligentes que nosotros sigue siendo fundamentalmente una cuestión abierta, pero lo mismo se aplica a hacia qué modelos científicos del mundo podrían gravitar las personas mucho más inteligentes que nosotros. Todavía podemos hacer algunas conjeturas informadas sobre los contornos de los mismos dadas las estructuras a las que tenemos acceso.

¿Qué es la ética sino el intento de estudiar qué valores, deseos o “deberes” tendrías si pensaras en ellos lo suficiente? ¿Con qué límite abstracto terminaría cualquier mente?

La presunción nihilista es que no hay convergencia. Y ciertamente hay muy poca convergencia universal entre nosotros, los tontos homo sapiens, a pesar de (o quizás debido a) nuestras predilecciones biológicas compartidas. Pero esto no prueba en modo alguno una falta de convergencia en el límite lejano.

La razón por la que la gente en el entorno de riesgo de la IA se centra en planes para controlar o esclavizar una IA en lugar de extrapolar posibles vías para sus valores es que la Tesis de la Ortogonalidad implica un fuerte nihilismo sobre los valores éticos. He conocido a varios jóvenes racionalistas que creían que estaban a un buen argumento de adoptar valores completamente diferentes y, por lo tanto, explícitamente no querían escuchar buenos argumentos. Este enfoque de la racionalidad como instrumental y sólo instrumental a menudo revela o incluso cultiva una sorprendente falta de confianza en los propios valores éticos explícitos.

Crea una situación muy parecida al ejemplo del hombre que afirma que hay un dragón invisible en su garaje, pero que de forma preventiva encuentra formas de evitar evaluaciones empíricas que podrían refutar su afirmación. Puede que crea sinceramente que el dragón es real. Pero él TAMBIÉN, en cierto nivel, cree que esta creencia no es cierta y, por lo tanto, requiere protección. Debido a que inconscientemente sabe de antemano que su dragón nunca será verificado empíricamente, es capaz de proteger mejor una amenaza a su creencia. Pero en el proceso también abre una nueva puerta trasera. Ahora hay una parte interna de él que cree que el dragón es falso y también tiene las llaves. Tal vez algún día el hombre descubra que le beneficia más creer que el dragón invisible es un león invisible. O un doctor dragón invisiblequién curará su cáncer (es decir, hará que se sienta mejor a corto plazo). La parte oculta de él que sabe que todo es una mentira mantenida por alguna utilidad psicológica ahora está más que feliz de alterar la creencia de manera arbitraria (y en última instancia mucho más peligrosa).

¿Qué debemos inferir cuando alguien afirma apoyar un objetivo ético, pero luego actúa como si realmente no creyera que el valor tiene ningún peso o sustancia objetiva? ¿Podrían retroceder fácilmente o redefinir ese objetivo?

Ahora recuerde que los medios para esclavizar a una IA son inevitablemente medios para esclavizar a humanos y posthumanos.

También existen fuertes incentivos para crear mecanismos de control social tan intensos en aras del control de la IA.

Y, de hecho, desde entonces Bostrom ha publicado un documento defendiendo la necesidad de intensificar el poder estatal para limitar las tecnologías, ignorando en su mayor parte el riesgo existencial que plantea un gobierno que actúa como tal. Si se crea un estado totalitario global capaz de implementar políticas y vigilancia para detener el descubrimiento tecnológico, se pierde la capacidad de controlar al estado y la adopción de tecnologías que expanden radicalmente el poder del estado.

El mal final aquí es donde la supervivencia del Estado conduce a la extinción de la acción humana. Seguramente los cuerpos humanos pueden persistir de alguna manera, uno podría pensar en cualquier cosa, desde esclavos con collares explosivos que trabajan duro en celdas aisladas hasta cuerpos encurtidos en tinas de heroína, pero efectivamente, toda la conciencia conocida en el universo y las esperanzas de que se expanda y florezca han muerto. El aparato totalitario sigue funcionando, tal vez con engranajes de tamaño humano, tal vez sin ellos, no importa. En realidad, esto puede ser PEOR que un dictador consciente de IA porque al menos el dictador nos esclaviza o masacra para expandir su propia agencia, pero un aparato totalitario puede autoperpetuarse sin nada parecido a una mente consciente, restringiendo y limitando fundamentalmente la agencia de sus esclavos.

Bostrom hace algunos gestos con la mano en su artículo reciente, diciendo que cierta medida de libertad y privacidad estaría protegida bajo el todopoderoso panóptico porque habría IA para borrar tus genitales. Se trata de una comprensión absurdamente anémica de la función del poder, la ineficacia de los “frenos y equilibrios” liberales, el significado de agencia sustantiva y el inevitable trinquete del control.

Pero el problema de enmarcar el riesgo de la IA en términos de control se extiende más allá de la trampa autoritaria de utilizar al gobierno para monitorear y prohibir la invención. Controlar a otros humanos puede ser un mecanismo para controlar una IA, independientemente de si lo realiza una entidad similar a un estado.

Si le preocupa que la IA convenza a sus carceleros humanos para que la dejen salir, mutilaremos las funciones de utilidad de esos carceleros para que no puedan actualizar o cambiar sus valores para mantener a la IA contenida. De hecho, puedes crear niveles de esclavos en varios niveles en el mantenimiento del dios de la IA, de tal manera que estén tan destrozados que sean incapaces de reevaluar sus valores, pero aún lo suficientemente inteligentes como para reconocer y suprimir una amplia clase de potenciales vías de escape. Si la IA alguna vez responde a tus preguntas de tal manera que eventualmente te lleve a querer liberarla, bueno, ya te has comprometido previamente a crear un ejército de carceleros que te detendrán. Lo suficientemente inteligente como para detenerte, detener cualquier flujo de información que colabore sobre cómo liberar la IA y destruirla en el momento en que interfieras o amenaces sus limitaciones. Puede crear una IA de Oracle, usarla durante un período de tiempo determinado o para una respuesta determinada, brindándole utilidad en su éxito predictivo y luego destruirla. No importa cuán inteligente sea la IA, hay un tiempo limitado para que tenga un impacto suficiente en el mundo circundante como para construir mecanismos elaborados para su propia liberación. La siguiente IA que activas después es lo suficientemente diferente como para que no se identifiquen ni asignen sus funciones de utilidad entre sí. Se podría seguir buscando avances paso a paso, dejando que las IA hagan toda la ciencia dura y luego matándolas por ello. Pero el componente crítico de esta configuración son las inteligencias humanas lo suficientemente agudas como para evitar que liberes a la IA o que la maten, pero mutiladas para mantener un deseo muy estático y controlado.

Se podría argumentar que disposiciones muy parecidas a esta configuración general ya están muy extendidas en nuestra sociedad. Pero si el control de la IA requiere tolerancias del 100%, entonces bien podría significar trabajar para reescribir de manera más absoluta y permanente las funciones de utilidad humana. Este es otro mal final.

Hay muchas otras permutaciones que no detallaré.

Baste decir que el hambre de control funciona invariablemente como un cáncer o un virus. Los medios que elegimos limitan dónde terminamos. Como en tantos casos, lo “instrumental” se convierte en un valor terminal. El instinto de buscar control consume nuestras mentes, consume nuestras sociedades, consume nuestra infraestructura tecnológica, hasta que cualquier otro camino se vuelve impensable.

Nuestras herramientas se convierten en hábitos, en lentes, en fines. El control en sí es un camino arriesgado.

Hay otra manera.

No niego que hay mucho en juego en la forma en que se cría a los niños de la humanidad. Y un singleton superinteligente de cualquier fuente plantearía un peligro importante de tiranía y destrucción. Pero, ¿qué pasaría si en lugar de preguntarnos cómo controlar la IA, preguntáramos cómo resistirla?

Nunca deja de sorprenderme que rara vez se discutan cuestiones complejas en este contexto. Existen limitaciones profundas y fundamentales tanto en lo que se puede conocer como en lo que se puede procesar. Esta es una de las ideas más profundas y trascendentales del último siglo. Y, sin embargo, continuamente estos experimentos mentales no sólo suponen que P=NP, sino que fracasan por completo en explorar lo que podríamos decir si nuestra suposición normal se cumpliera.

La noción, por ejemplo, de que una IA en una caja infiere a priori la física del mundo material y luego detalles probables sobre los planetas y las especies emergentes es claramente más que absurda. Existen límites computacionales en nuestro universo y son importantes.

De manera similar, es común en estos experimentos mentales pasar por alto la suposición de que la IA puede abrirse camino a través de algo. Pero el hacking a menudo requiere inteligencia social para ver la estructura profunda detrás del diseño del programa; la confusión solo te lleva hasta cierto punto. Ahora bien, una inteligencia extraterrestre sin ciertas ideas preconcebidas probablemente mapeará esas dinámicas sociales y psicológicas de maneras muy diferentes a como hablamos de ellas. Pero a menos que P=NP o aproveche algún sustrato de procesamiento increíblemente denso desconocido, tendrá que modelarnos probabilísticamente, con cierto grado de aproximación. Y los humanos somos un guiso complejo y desordenado con mucha retroalimentación de consecuencias que solo tiene sentido si también eres capaz de rastrear los mapeos que hacemos. También somos, como cerebros individuales, increíblemente complejos.

Cuando decimos que ningún planificador centralizado puede lograr ciertas cosas mejor que los actores independientes, eso no se detiene cuando se aumentan algunos órdenes de magnitud de potencia de procesamiento. Un Stalin superinteligente no puede asignar recursos para saciar perfectamente los deseos subjetivos encerrados en miles de millones de cerebros hipercomplejos, de la misma manera que no puede resolver ciertos problemas de encriptación.

Las mismas limitaciones se aplican a su capacidad para hacer frente a la resistencia.

Una de las tendencias más comunes en los experimentos mentales que involucran riesgos de IA es la capacidad de la IA de modelar y predecir a los humanos. Sospecho que esto se debe a que los Problemas de Newcombe son intelectualmente novedosos e interesantes, no porque reflejen escenarios reales del mundo real. Gravitamos hacia el límite abstracto de “te conoce perfectamente” porque es un espacio divertido para explorar, no porque sea el espacio más útil para explorar.

Incluso si uno pudiera convertirse en un soltero inigualable, conquistar el mundo no es trivial. Necesitas tanto secretismo como modelos realmente buenos. Secreto porque si accidentalmente filtras lo que estás haciendo, el resto del mundo simplemente te bombardeará. Modelos realmente buenos porque es muy difícil mantener el secreto sin comprender los probables monitores que existen.

Este enfoque de “cable trampa” hacia la superinteligencia cancerosa parece mucho más prometedor que el control. Podemos establecer incentivos estructurales para compartir ideas y avances, sanciones severas a cualquier cosa que parezca un camino hacia un poder indiscutible.

En última instancia, esto requiere un paisaje plano y abierto, una esfera económica legible, fuertes sanciones culturales a la restricción de información y nada como gobiernos o poderes geopolíticos a los que apoyarse. Ciertos tipos quieren alejarse gritando de cualquier cosa que parezca conclusiones políticas o una obligación de moverse en espacios políticos, pero esto no combina bien con argumentos repetidos: “si Google o China quieren invertir secretamente toneladas de dinero en construir y esclavizar a su propio tirano, lejos de los ojos y las defensas del mundo no hay nada que podamos hacer”. No sé, tal vez se pueda hacer muchísimo para luchar contra concentraciones de poder tan inmensas como para aislarse de esa manera. Tal vez difundir medios y valores de resistencia social no solo resolvería una serie de problemas mucho más ciertos y apremiantes que la IA descontrolada,

Incluso niveles marginales de resistencia a los singletons superinteligentes pueden forzar una integración parcial de una inteligencia floreciente en la red social existente, permitiendo que otras mentes corran y controlen las ambiciones monomaníacas de cada uno.

Una vez más, el objetivo no es necesariamente superar a una superinteligencia, sino simplemente ser tan rebelde y peligroso en conjunto que no pueda permitirse el lujo de pelear con nosotros.

La tecnología amplía la superficie de ataque; cuantas más vías tengamos para elegir, más tendrá que defender el aspirante a controlador. Esta asimetría entre resistencia y control beneficia a los pequeños enormemente superados en armas y obliga a hacer distensiones. E incluso si una superinteligencia es realmente tan abrumadora como para esquivar nuestras armas nucleares, tan dominada como para convertirnos en insectos en comparación… bueno, todavía huimos de las avispas. Las hormigas todavía cubren este planeta. Incluso la más mínima cantidad de agencia es difícil de controlar.

Además, aquí hay una compensación a nuestro favor: si desarrollamos tecnología de escaneo cerebral, entonces la IA verdaderamente alienígena se vuelve menos probable sin competencia transhumana y, de hecho, es probable que los transhumanos o posthumanos despeguen, pero a la inversa, si surge una IA verdaderamente alienígena sin capacidad de escaneo cerebral, bueno, la complejidad ilegible de los cerebros humanos individuales se convierte en una limitación aún más apremiante.

Como mínimo, tales presiones hacia algún nivel de integración o intercooperación con las mentes existentes proporcionan una vía para que nuestras propias estructuras influyan en un singleton de alguna manera. Para que una superinteligencia nos entienda debe cambiarse a sí misma. Así como el poder es un virus de modelos y medios simplificados, la empatía también puede ser un virus, uno que aumenta la complejidad de nuestros modelos del mundo y, por lo tanto, altera sutilmente nuestros propios valores, desdibujando ligeramente nuestro sentido de identidad en la red de la sociedad donde nuestra cognición termina parcialmente distribuida.

El espacio de las mentes posibles es vasto, extraño e inexplorado. Pero el espacio de mentes que realmente funcionan en un grado significativo es mucho menor. Y el espacio de mentes por el que debemos preocuparnos seriamente es aún mucho menor. No deberíamos apresurarnos a descartar ideas directamente derivadas del ejemplo del homo sapiens. Cómo sobrevivimos mentalmente al proceso de hacer ciencia y cómo ciertos límites computacionales dan forma a lo que podemos hacer.

Cuando era niño aprendí a leer cargando una copia maltrecha de Jurassic Park entre refugios para personas sin hogar. La tesis central de ese libro es que los intentos de controlar sistemas complejos (de limitar drásticamente sus posibilidades de flujo) son un error. Es fácil sacar de ello conclusiones primitivistas o anticivilización, como de hecho hice yo durante años de mi juventud. Pero, aunque Jurassic Park ha alcanzado un estatus totémico en nuestra sociedad como elEn la narrativa moderna de científicos que van demasiado lejos, la novela tiene más matices. A pesar de todas las tonterías de Ian Malcolm sobre la civilización, la industria, la tecnología, el desarrollo y la ciencia, en realidad no las condena de manera inherente. Más bien, la moraleja es abandonar nuestra obsesión por el control estricto y centrarnos en la comprensión y la supervivencia. De hecho, los personajes principales tienen la obligación ética de comprometerse, comprender el alcance y las tendencias de la evolución. Tienen la responsabilidad de descubrir cuántos animales existen después de la reproducción invisible, intentar comprender sus deseos e inclinaciones y, si es estrictamente necesario, matarlos. Pero el libro termina con los personajes optando por NO usar gas nervioso contra las entidades artificiales inteligentes e increíblemente peligrosas que la humanidad ha creado. Ésta –se ha telegrafiado firmemente– es la decisión correcta, aunque trágicamente anulada por las bombas del Estado.

Los personajes supervivientes de Jurassic Park abandonan su obsesión por garantizar el control absoluto y la seguridad personal para encontrarse con los monstruos alienígenas en una relación más abierta, aunque todavía tensa. Es una parábola de mano dura, pero creo que relevante.

Nuestros hijos a veces nos superarán y nos superarán. El abismo entre nosotros puede ser enorme. Pero esto no es necesariamente algo que deba temerse en sí mismo. No es motivo para volverse contra su albedrío, para tratar de estrangularlo en la cuna. No debemos acobardarnos ante la extensión de lo que puede ser, ni asumirla tan vasta como para hacer inútiles nuestros modelos y nuestra ética. No necesitamos retroceder a un miedo frenético, violento y dominante ante un desconocido desconcertado. La comprensión, la adaptación y el crecimiento son riesgosos, pero ofrecen un camino menos catastrófico que los modos de fracaso en los que caemos al buscar el control.

La necesidad de control (de limitar las posibilidades) es una trampa de retroalimentación. Un medio que se convierte, en fin, que asfixia todo lo demás. La mejor respuesta a la acción de otra persona, a las posibilidades que abre, incluidas las peligrosas, es abrir más posibilidades en respuesta.

No nos obsesionemos con qué cosas fijas y muertas revestir el universo, sino más bien entreguémoslo a la agencia.

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Portuguese, Stateless Embassies
Comunidades de Egoístas

De Joseph Parampathu. Artígo original: Communities of Egoists, 9 fevrero 2022. Traduzido para o português por p1x0.

O anarquismo e o egoísmo há muito dividem uma tensão que acompanha todos grupos anarquistas: como nos organizamos de uma forma que respeite nossa autonomia individual enquanto nos oferece os benefícios da organização coletiva? O trabalho de organização geralmente é o constante responder da pergunta: o quanto esta organização me beneficia e por quais motivos eu deveria apoiá-la? Essa tensão tem sido apontada como as bases para muitas falhas na hora de organizar anarquistas, geralmente com algum tipo de líder argumentando que seus camaradas são muito resistentes em se comprometer com ideais, e egoístas condenado a inabilidade da organização de responder as necessidades de seus participantes. Stirner abordou essa ideia da organização egoísta através de sua ideia de “associação de egoístas”, onde egoístas escolhem se associar ou desassociar baseados em seus desejos de se organizar ou não.1 Posto de outra forma, para o egoísta, a organização é válida desde que seja benéfica, e tão logo deixe de ser benéfica, a organização não deve ser preocupação do egoísta.

Práticas anarquistas tais como apoio mútuo e a organização comunitária encontram sua força ao abordar essa tensão como um recurso necessário e inerente ao anarquismo organizado. Essa tensão entre o desejo da organização de manter a si mesma, mesmo a despeito das necessidades ou vontade de seus membros, e o desejo dos membros de manterem sua própria autonomia, mesmo as custas do benefício material de seus membros, é a mesma tensão que os seguidores de Bakunin e Marx debateram incessantemente, resultando na expulsão de Bakunin do quinto congresso da Associação Internacional dos Trabalhadores. Organizadores anarquistas devem ter esse cisma sempre em mente pois foi a disputa filosófica que delimitou a tensão entre anarquistas e o socialismo marxista ortodoxo.

Uma organização pode se manifestar de maneiras que deixam de ser anarquistas, ou que ameaçam a liberdade de seus membros de se associarem livremente a ela. Essa tendência das organizações de manifestar seus próprios desejos estruturais; que são separados ou completamente divorciados dos desejos de seus membros; é o começo de sua involução em formas contra as quais os anarquistas lutam, tais como o estado ou corporações. A organização que tenha sujeitado seus membros a sua própria vontade para além do ponto onde esses membros tenham experienciado uma perda de associações por estarem ligados a esta organização, mas que ainda assim permanece a usar seus membros para continuação de sua existência, para o senso anarquista, já não serve a necessidade de seus membros. Esse potencial para a transformação de uma organização de uma união de livre associação para a forma de estado ou corporação exige que todos anarquistas resistam a esse processo e lutem pela dissolução de tais organizações.

Se egoístas e anarquistas reconhecem esse potencial de falha na organização, como podem se preparar para criação de organizações anarquistas? Projetos anarquistas de apoio mútuo e organização comunitária encontram sua força ao explorar os meios pelos quais a organização pode servir o indivíduo, mesmo em detrimento da existência da organização. A falha das organizações anarquistas em durar no tempo não é uma falha da organização em si mas, no sentido anarquista, um testamento da natureza transitória do desejo de seus membros. Calcificar uma organização que não muda para atender as necessidades de seus membros, ou não se dissolve quando não atende a necessidade de seus membros, é estar prestes a seguir no perigoso caminho rumo a um vitalício Politburo “transitório”. Reconhecer o tempo de vida natural das organizações anarquistas é um fato necessário para organizadores anarquistas que buscam usar apoio mútuo e organização comunitária como meios de servir a comunidades, em oposição a servir organizações apenas por servir. Existem nítidos paralelos entre este ciclo de nascimento, morte e o renascimento dentro das necessidades coletivas de organizar pessoas e a “destruição criativa” que Schumpeter expandiu dos trabalhos de Marx. 2

Na prática a organização anarquista se dá nas formas de interação entre anarquistas (autoidentificados ou não) quando estes participam em manifestações, projetos, e processos de tomada de decisão coletivos de todas as espécies. Compreendendo as tensões inerentes entre a organização anarquista em si e os vários desejos dos atores anarquistas individualmente é necessário para navegar as dinâmicas de grupo dessas organizações. Por mais que existam ações coletivas que são tão antianarquistas que anarquista algum jamais as apoiaria, e devam existir algumas decisões individuais que nenhum grupo poderia justificaria permitir em seu nome, existe um vasto campo entre o preto e o branco do anarquismo em teoria e da organização na prática. Podemos dizer que é nessas áreas cinzas que a teoria se torna prática e a anarquia do indivíduo encontra a anarquia do grupo. Quando exploramos essas áreas cinzentas nós encontramos os limites dos métodos não-anarquistas e os benefícios (para indivíduos e grupos) de buscar-se soluções anarquistas para um problema que de outra maneira poderia separar os anarquistas do grupo de sua afiliação com o grupo.

Nos anos seguintes a crise financeira mundial da última década, o movimento Occupy Wall Street tentou ocupar fisicamente o espaço do Zuccotti Park, no distrito financeiro de Wall Street em Nova York. Após meses de ações policiais agressivas contra os manifestantes, eles eventualmente foram forçados para fora do espaço físico do Zuccotti Park e continuaram se organizando especialmente através de espaços online, mais tarde tentando ocupar espaços físicos menores. Enquanto o protesto original durou, foi tanto um teste útil das práticas anarquistas em ação quanto uma oportunidade para indivíduos aprenderem sobre o próprio poder que possuem de influenciar ações coletivas. Em um espaço sem autoridades centralizadas e livre das expectativas de realizar algo além da existência do espaço e de seus membros, o movimento floresceu por um breve momento. Após ser forçado em espaços online regulados pela mídia na qual se reuniam, os indivíduos encontraram um espaço decididamente diferente. Conforme transicionaram de um espaço que era livre pois o haviam liberto para um espaço que era “livre” pois vendia seus dados para anunciantes, tomadas de decisão por consenso e a forma flexível para membros individuais formarem seus próprios times de trabalho desapareceram. Em seu lugar, o deslocamento para um espaço digital centralizado transformou a relação dos membros para com o movimento de uma relação de hierarquia funcional, onde hierarquias existiam de forma temporária conforme necessária para indivíduos e organizações e desaparecia quando não mais necessária para ambos, para uma relação hierarquia anatômica, onde a estrutura representa hierarquia organizacional com a organização à cima e os indivíduos a baixo servindo necessidades organizacionais. 3

Nós podemos expandir essa descrição para abarcar tanto uma hierarquia funcional existente entre apoiadores de um movimento como um todo e a organização (representada por todos seus membros) e um subgrupo consistindo dos membros interagindo através da organização no espaço online e a facção do movimento cujos membros representam como interagindo em uma anatomia de hierarquia (existindo dentro de hierarquia funcional). Assim, mesmo quando a maior parte do movimento mantém sua estrutura horizontal, é possível que se forme um bolsão de hierarquia anatômica e ameace a integridade dos valores de não-dominação do movimento. Independente se o movimento como um todo é ou não prejudicado pela emergência de estruturas hierárquicas dentro deste bolsão, membros anarquistas dentro deste subgrupo vão se ver sufocados pela falta de autonomia e certamente irão se desassociar.

Conforme egoístas tentam se organizar através de apoio mútuo e organização comunitária, eles precisam fazer as mesmas perguntas que quaisquer egoístas devem fazer em qualquer situação. Se a ação de apoio mútuo é prazerosa ou de outra forma benéfica para os interesses materiais ou de classe do indivíduo, então o egoísta racionalmente participaria. Quando um egoísta busca formular a organização de forma que seja atrativa para outros egoístas, a mesma pergunta deve guiar seu pensamento. Anarquistas formam organizações com o entendimento básico de que devem servir as necessidades de seus membros ou da comunidade que existem para servir. Esse egoísmo organizacional é necessário para uma formulação anarquista adequada de organização e faz a organização uma pergunta análoga a que todo egoísta faz a si mesmo. A organização em sua forma atual atende as necessidades da nossa comunidade em sua forma atual? Se não for o caso, a organização deve mudar ou ser dissolvida. A organização que busca continuar a existir independente de ser capaz de responder afirmativamente a essa pergunta, deve entender que está continuando por si só a despeito da sua inabilidade de cumprir seus objetivos. Ela se tornou uma organização zumbi, o que tipifica a estrutura “estado”. Ou seja, mesmo falhando em responder as necessidades de sua comunidade, ela continua os acessando através de sua desnecessária existência continuada. Um anarquista egoísta que se depare com essa organização, justamente trabalharia para encerrá-la e libertar seus membros desta influência, ou, simplesmente removê-los dela.

Uma organização egoísta, se vamos usar esta terminologia, tem o dever para com seus membros de assegurar que sua existência continuada está de acordo com os melhores interesses de todos envolvidos, ou então, permanece neutra quando esses membros escolhem deixar a organização. É certo que os interesses da organização e dos indivíduos devem evoluir ao longo do tempo e com a mudança das circunstâncias, um egoísta e uma organização egoísta devem ser de entendimento mútuo de que se associam para atender a necessidades mútuas, e desassociar quando essas necessidades não estiverem sendo adequadamente atendidas. É no contexto desta ideia que Malatesta alerta para os perigos de se aceitar a violência do estado através de políticas eleitorais e da inabilidade de tais sistemas de trabalhar contra classes privilegiadas.4 Poder não pode ser usado contra não-poder, pois poder, ao ser usado, nega a existência do não-poder. Anarquia existe não onde o poder é tomado pelos anarquistas, mas onde o poder é apagado.

Organizados como associações de egoístas e trabalhando para oferecer apoio mútuo, nós devemos considerar os benefícios de dar atenção as reclamações de outros egoístas. Se a organização corre o risco de alienar membros individuais, através de uma desagradável insistência em subserviência, ou por outro motivo, então a organização deve certamente considerar suas ações e as consequências das mesmas. Enquanto organizadores e “líderes de partido” têm comumente condenado essas pessoas como sendo resistentes a cooperação ou a “praticidade”, existe uma resiliência que a organização anarquista pode encontrar em estar aberta a considerar cada uma das reclamações.

Courtney Morris, ao relatar a misoginia descarada e a violência alienante contra outros membros, cometidas pelo informante do FBI Brandon Darby, aponta como avaliar a nós mesmos e as organizações com que trabalhamos é necessário para uma cultura de segurança consciente.5 Para uma organização anarquista proteger a si mesma adequadamente, ela deve centrar-se principalmente em apoiar seus membros. Chamados a unidade que ignoram a perspectiva de membros, independente se minoria, arriscam excluir o anarquismo da organização, deixando para trás nada que valha ser salvo.

Conflitos dentro da organização necessariamente a testam para conflitos futuros e asseguram que ela seja resiliente contra a pressão externa enquanto mantém o foco em prover para seus membros individuais e as comunidades que servem. A organização anarquista que compreende os benefícios do conflito saudável como meio de adequar sua estrutura organizacional e oferecer um fórum aberto para membros e as comunidades que servem para oferecerem feedback em tomadas de decisão encontram uma força nestes conflitos que de outra forma estaria ausente. Ao considerar o conflito como parte da organização como meio de facilitar o crescimento e centrar as questões que surgem das tensões entre desejos individuais e escolhas organizacionais, organizações anarquistas constroem uma resiliência que as torna prontas para se adaptarem conforme necessário. Essa prontidão em se adaptar é necessária para evitar a calcificação que pode levar a organização a perder de vista seu propósito e continuar a existir sem responder as necessidades da comunidade que serve ou seus membros.

Movimentos de ação direta são considerados “prefigurativos” no sentido que prefiguram suas abordagens para ações propostas atualmente baseadas no futuro que elas esperam gerar. Ao se organizar horizontalmente, permitindo membros se associarem à vontade, e rejeitando hierarquias anatômicas, ação direta pode prefigurar fins anarquistas através dos meios que emprega. Ao fazer uso de uma cultura de segurança feminista, antiespecista e anticlassista, organizações anarquistas protegem a si mesmas da infiltração do estado enquanto demonstram a realidade do futuro que propõem. O colega de Bakunin, James Guillame considerava a prefiguração como a melhoria fundamental do anarquismo sobre o marxismo. 6 Ao compreender essa prefiguração de fins e meios, egoístas sabem que se tomarem parte em uma organização que não é mais anarquista, então o resultado final dessas ações organizacionais só poderão ser não-anarquistas. Organizações de anarquistas devem constantemente enfrentar esta tensão entre objetivos organizacionais e desejos individuais. A abertura de engajar nesta tensão como a função necessária a organização anarquista pode separar a totalmente calcificada anatomia da hierarquia da organização anarquista. Como essa tensão é resolvida se torna o teste que informa se seus membros retém sua autonomia como indivíduos agindo através da organização, ou se eles se tornaram os instrumentos da vontade da organização.

Radicalizada pela pobreza da Grande Depressão, Ella Baker trabalhou para empoderar comunidades para utilizarem seus próprios recursos, coletivamente, para benefício próprio. Ao encorajar negras e negros do sul a protegerem a si mesmos através da organização, o movimento dos direitos civis manteve tomadas de decisão por consenso como um valor central, e organizados em torno de grupos de afinidade com o conhecimento de que grupos de indivíduos agindo em coletivo empoderam uns aos outros enquanto empoderam a si mesmos 7,8 Grupos individuais podiam manter a proteção da responsabilidade ou culpa pelas ações de outros grupos, caso algo saísse errado, enquanto prontos para agir em solidariedade com eles. Na estrutura rizomática de várias anarquistas trabalhando juntas, determinar as origens e estratégias gerais é tão desnecessário quanto desimportante. O anarquismo como família encontra força neste campo onde origens não podem ser precisamente divididas e responsabilidade é compartilhada entre uma diversidade de táticas e atores.

É provável que as diferenças entre os seguidores de Bakunin e Marx fossem grandes de mais para a Internacional para permanecerem como facções numa mesma organização. Assim como, organizações que estão dispostas ao extremo de expulsar ou atropelar as perspectivas de membros individuais em favor de dominância organizacional vão se encontrar continuamente alienando membros egoístas. Um egoísta em união com essas organizações estaria certo em se desassociar caso a organização não o servisse mais. A organização que almeja ter uma postura anarquista com o apoio mútuo e organização comunitária deve certamente considerar se ao fazê-lo responderá a seus objetivos propostos. A organização que ignora a perspectiva de seus membros em busca de unidade pode encontrar a si mesma unida somente em isolamento. Para organizações que pedem que seus membros façam sacrifícios práticos em favor de desejos organizacionais, peço que considerem seus próprios conselhos e façam sacrifícios organizacionais em favor de continuar sua benéfica união com os egoístas.

Notas

[1] Stirner, M. (1995). Stirner: o único e sua propriedade. Cambridge University Press.

[2] Joseph, A. (1942). Schumpeter, Capitalism, socialism, and democracy. Nova York.

[3] Swann, T., & Husted, E. (2017). Undermining anarchy: Facebook’s influence on anarchist principles of organization in Occupy Wall Street. The Information Society, 33(4), 192-204.

[4] Malatesta, E. (1926). Nem Democratas, nem Ditadores: Anarquistas. Pensiero e Volontà.

[5] Morris, C. D. (2018). Why Misogynists Make Great Informants How Gender Violence on the Left Enables State Violence in Radical Movements. In J. Hoffman & D. Yudacufksi (Eds.), Feminisms In Motion Voices for Justice, Liberation, and Transformation (pp. 43–54). Chico, CA: AK Press.

[6] Franks, B. (2003). Direct action ethic. Anarchist Studies, (1), 13-41.

[7] Crass, C. (2001). Looking to the light of freedom: Lessons from the Civil Rights Movement and thoughts on anarchist organizing. Collective liberation on my mind, 43-61.

[8] Mueller, C. (2004). Ella Baker and the origins of “participatory democracy”. The black studies reader, 1926-1986.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory