Il Capitalismo, non lo Stato Sociale, ha distrutto la Fiducia nella Libertà

Di Kevin Carson. Articolo originale: Capitalism, Not Welfare, Has Distroyed Faith in Freedom, del 12 novembre 2023. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

Jacob Hornberger scrive per la Future of Freedom Foundation: “Alla base dello stato sociale degli Stati Uniti c’è l’idea che compito dello stato è costringere le persone ad essere altruiste.”

Non esattamente. L’idea di base semmai è un’altra: dato che lo stato capitalista ridistribuisce sotto forma di profitti, rendite e interessi grosse porzioni di reddito e ricchezza verso l’alto, dal produttore di ricchezza al rentier, ecco che sempre lo stato deve intervenire con un’attività compensatoria (restituendo ai più bisognosi una piccola parte di quel reddito) ed evitare che il capitalismo collassi a causa delle rivolte e di un’insufficiente domanda aggregata.

Lo stato sociale non è la realizzazione di qualche “concetto” idealistico espresso da magnanimi benefattori. Questi ultimi magari sono serviti a rendere politicamente passabile l’idea, ma i veri architetti dello stato sociale sono stati i capitalisti duri e puri che capivano che occorreva mantenere lo sfruttamento capitalista a livelli sostenibili. Certo alla base dello stato sociale c’erano anche i movimenti popolari di disoccupati e poveracci, ma a determinarne la forma specifica è stata la volontà delle élite di salvare il sistema.

Ironicamente, chi capisce meglio la necessità di un forte intervento statale in senso normativo e sociale sono i capitalisti. Se i libertari di destra avessero carta bianca, pareggerebbero il bilancio federale, ripagherebbero il debito e eliminerebbero lo stato sociale; e il capitalismo crollerebbe a tempo di record.

Negli anni 1860, Karl Marx, parlando della legge sulla giornata lavorativa di dieci ore appena approvata dal parlamento britannico, la definì un atto dei datori di lavoro che tramite lo stato mantenevano lo sfruttamento dei lavoratori a livelli sostenibili. Nella Gran Bretagna dell’Ottocento, la questione della giornata lavorativa imponeva ai capitalisti una sorta di dilemma del prigioniero.

Era nell’interesse della classe capitalista nel suo insieme mantenere lo sfruttamento dei lavoratori a livelli sostenibili, ma allo stesso tempo era nell’interesse di ogni singolo capitalista guadagnare qualche punto di vantaggio sulla concorrenza sfruttando al massimo i lavoratori. Lo stato capitalista risolse il problema limitando la giornata lavorativa a vantaggio della collettività dei lavoratori, impedendo così ai datori di lavoro di dover trovare singolarmente un accordo con i lavoratori. Dice Marx nel Capitale a proposito della giornata di dieci ore:

Queste leggi frenano l’istinto del capitale a smungere smodatamente la forza-lavoro; esse lo frenano mediante la limitazione coatta della giornata lavorativa in nome dello Stato e, invero, da parte di uno Stato dominato da capitalisti e proprietari terrieri. Fatta astrazione da un movimento operaio che cresce sempre più minaccioso di giorno in giorno, la limitazione del lavoro nelle fabbriche è stata dettata dalla stessa necessità  che ha sparso il guano sui campi d’Inghilterra.

Più giù nello stesso capitolo Marx cita un gruppo di 26 ceramisti dello Staffordshire, compreso Josiah Wedgwood, che nel 1863 fanno una petizione al parlamento chiedendo “un intervento coercitivo dello Stato”; la ragione era che la concorrenza con altri capitalisti non permetteva loro nessuna limitazione volontaria del tempo di lavoro. “Quindi, per quanto deploriamo i mali summenzionati, sarebbe impossibile impedirli con un qualsiasi accordo fra i fabbricanti… Considerati tutti questi punti, siamo giunti alla convinzione che è necessaria una legge coercitiva”.

Similmente, l’astuto capitalista caldeggia lo stato sociale per due ragioni principali. Primo, perché lo stato trasferisce verso l’alto il reddito sotto forma di rendita economica, creando un’immorale distribuzione del potere d’acquisto e una tendenza cronica al consumo in difetto e ad una capacità produttiva inutilizzata: due tendenze che periodicamente portano il capitalismo sull’orlo del baratro (caso più noto: la Grande Depressione degli anni Trenta). Ridistribuire una piccola parte di questo reddito almeno verso i più poveri, rafforzare in qualche modo la domanda aggregata, serve ad evitare le depressioni.

Secondo, se non affrontato, il problema della povertà nelle sue varie forme, della fame e dei senza tetto, può generare estremismo politico, tumulti e violenza.

I principali architetti dell’economia mista novecentesca erano i capitalisti più risoluti. Sull’argomento non manca una produzione letteraria: James Weinstein, Gabriel Kolko, G. William Domhoff e Frances Piven. Quanto basta per tenere occupato Hornberger per molti mesi.

A distruggere la fede nella libertà dell’uomo medio sono soprattutto quelli come Hornberger che insistono a presentare il sistema capitalista da loro difeso come un prodotto della libertà e non di una grande violenza da parte dello stato, ma anche il fatto che popolarmente il concetto di “libertà” è associato al sistema di cui quotidianamente si subiscono i soprusi.

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