Il Capitale, la Mappa e il Territorio

Di Kevin Carson. Articolo originale: On Capital, Maps, and Terrain, del primo novembre 2023. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

Mi è capitato recentemente di leggere su Twitter questo classico di Arthur Chu:


(Traduzione: “Il capitalismo fa il tuo iPhone”. No, è il LAVORATORE che fa le cose, quali che siano gli -ismi. Gli -ismi servono solo a stabilire a chi vanno i soldi.)

Ad ogni sua comparsa sui social, sull’osservazione piove un diluvio di repliche del tipo: “i lavoratori non farebbero niente se dovessero farsi da sé gli strumenti di lavoro”.

A giugno scorso, a corredo di una serie di articoli che celebravano la nascita di Adam Smith, Reason ha pubblicato una vignetta di Peter Bagge in cui si vede il fantasma di Smith che origlia un dialogo tra Karl Marx e Friedrich Engels. Engels proclama enfaticamente (sogghignando e battendo i pugni): “La proprietà privata è destinata a scomparire… saranno i lavoratori a gestire le fabbriche per conto proprio.” Al che Smith perplesso replica: “Davvero? E come? Come faranno a farle andare, ad espanderle e a migliorarle? Non serve il capitale?”

Un meme comparso di recente su Facebook parla di un lavoratore che sforna 3.000 pezzi l’ora ma che con un’ora del suo stipendio può acquistarne solo uno. Moltissimi i commenti del tipo: “Vero, ma usa macchinari da 100.000 dollari”, “ma lavora con un impianto da 25 milioni”, e ancora “non si possono fare 3.000 pezzi l’ora senza i macchinari e gli impianti di qualcun altro”… Insomma, le solite risposte che saltano fuori automaticamente quando c’è da difendere il ruolo dell’“investitore” in qualche meme del genere.

A sentire chi parla del ruolo indispensabile del capitale, sembra che siano i capitalisti stessi a creare le macchine dal loro denaro.

In realtà sono i lavoratori che “producono da sé strumenti e componenti”; o meglio, se li producono vicendevolmente. Ogni passaggio del processo produttivo, non solo la costruzione di macchine per le fabbriche, ma tutto quanto fino all’estrazione delle materie prime, è fatto da persone che agiscono sulle cose, che applicano la propria opera o a risorse della natura o a beni prodotti dagli uni per gli altri. Il denaro degli investitori non è altro che un diritto costituito socialmente che dà il potere a qualcuno di coordinare e distribuire i flussi produttivi dei vari gruppi di lavoratori che operano sui beni naturali.

Ora ammetto che “costituito socialmente” non significa in sé illecito. La liceità del diritto (sulla carta) di controllare strumenti di lavoro, materiali e flussi produttivi è una questione a parte. Ma anche se se ne ammette la liceità, non cambia il fatto che ciò che il capitalista o il datore di lavoro “offrono” è sostanzialmente la possibilità di controllare l’accesso ai beni fisici prodotti dai lavoratori. In altre parole, detto in termini crudi, la realtà è quella descritta da Arthur Chu: è il lavoratore che fa ogni cosa, dall’inizio alla fine.

Nel tentativo di controbattere a Chu, i sostenitori del capitalismo confondono la mappa col territorio. Quelli come Peter Bagge vedono nei beni strumentali una sorta di fattore indipendente che proviene da qualche fonte ultima che non è il lavoratore. Ma questo non cambia il fatto che tutto, e dunque anche i beni strumentali, è il prodotto dell’azione del lavoratore sulle risorse naturali. Il “capitale” rappresenta solo la proprietà che dà il diritto di controllare i flussi produttivi. Tornando alla metafora della mappa e del territorio, il lavoratore che applica la propria azione sulle risorse naturali è il territorio, mentre il capitale, e tutti i vari -ismi, non è che una mappa che si sovrappone al territorio.

Se poi il diritto di proprietà dà o meno al capitalita il diritto di coordinare la produzione e pretendere una paga per questo suo “servizio”, questa è un’altra questione, a cui i difensori del capitalismo rispondono affermativamente citando cose come “l’astensione dal consumo”, “l’attesa” o la “preferenza temporale”. Tesi che non reggono a un’analisi approfondita.

È significativo che gran parte delle apologie partano con un esperimento mentale in cui, come Robinson Crusoe, qualcuno casualmente possiede un bene e altrettanto casualmente assume qualcun altro per farci qualcosa; oppure si tratta di qualche costrutto teorico che niente ha a che fare con la storia del capitalismo.

Indagando sulle radici storiche e istituzionali del diritto (sulla carta) di disporre delle risorse materiali che passano da un gruppo di lavoratori ad un altro, vediamo che (così come il diritto del feudatario di essere ricompensato per il “servizio” di “offrire” la terra a chi la lavorava) scopriamo un illecito basato su un furto originario. Il “contributo” che il capitalista offre alla produzione dipende dalla sua capacità di impedire tale produzione (Thorsten parla di “disservizio capitalizzato”), capacità che a sua volta dipende da una particolare distribuzione del potere in una data società. La ricchezza, su carta, che giustifica la “proprietà” dei mezzi di produzione, così come il sistema creditizio che rende necessario l’“investimento” affinché i diversi gruppi di lavoratori si scambino i propri flussi produttivi, non sono più leciti del diritto alla terra del feudatario.

Le origini della ricchezza, così come la sua concentrazione strutturale, hanno perlopiù alla base o le chiudende (enclosure) o ad una rendita continuata resa possibile dalla scarsità artificiale o dai diritti di proprietà artificiali garantiti dallo stato. Oggi quasi tutto il profitto viene da rendite economiche di vario genere non da lavoro. Come la rendita data dalla proprietà assenteista della terra, una proprietà concentrata per effetto dello storico annullamento del diritto alle terre comuni dei contadini e del conseguente esproprio di massa, a cui si aggiungono i profitti del monopolio dei brevetti. Ma, cosa forse più importante, il presunto bisogno di “capitale” fornito dagli “investitori” al fine di produrre qualcosa, è opera di un sistema creditizio che vede nel denaro e nel credito qualcosa da “offrire in prestito” su un retrostante costituito da ricchezza accumulata, e non un semplice meccanismo contabile che coordina i flussi produttivi.

Chi cerca di giustificare la proprietà e il profitto capitalisti con ragionamenti simili a quelli di Bagge, giustifica anche, senza saperlo, i socialismi di stato come quello della vecchia Urss. Anche in Unione Sovietica ai lavoratori era preclusa la produzione senza i macchinari e le fabbriche, che erano dello stato. Anche qui dunque vale la critica della sinistra anarchica e socialista sulla proprietà e il profitto capitalisti, per quanto in questo caso proprietà e potere siano prerogativa dello stato. Il fatto però è che in qualunque sistema, che sia capitalismo aziendale o socialismo di stato, a produrre macchinari e fabbriche sono i lavoratori con la loro azione sulle risorse naturali.

Insomma, bisogna abolire ogni diritto di proprietà, ogni regime di scarsità e ogni altra pretesa istituzionale che l’uomo ha creato dal nulla per mettere una classe privilegiata nella condizione di “offrire” ciò che in realtà viene prodotto da altri. Al suo posto dobbiamo far nascere una società in cui tutti possano godere dei frutti dell’attività e dell’intelletto collettivo applicati a ciò che la natura offre liberamente.

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