Di Eric Fleischmann. Originale: Is the Market to Blame for Current Supply Chain Problems? del primo gennaio 2021. Traduzione di Enrico Sanna.
È dal picco della pandemia ad oggi (e forse oltre, data la comparsa improvvisa di Omicron) che noi, gli Stati Uniti in particolare, vediamo un imponente sconvolgimento delle catene logistiche. A chi chiede “perché?” si risponde ovviamente (e correttamente) perché il lavoro è alla base della società, e se il lavoro, soprattutto quello che fa muovere le merci, va in coma a causa di un orribile pandemia e subisce le angherie di spietati capitalisti e politici idioti, ecco che tutta l’economia subisce un forte rallentamento. Kim Moody, in un eccellente articolo dal titolo “The Supply Chain Disruption Arrives ‘Just in Time”, spiega come “La scarsità di camionisti, manutentori stradali, magazzinieri e altri elementi della catena logistica porti alla congestione dei porti, con navi cariche ferme e magazzini strapieni, e poi ritardi, scaffali vuoti e prezzi in salita.” Più in particolare, Moody punta il dito contro i problemi strutturali delle catene logistiche rappresentati dal modello just-in-time:
ideato da Taiichi Ohno, tecnico della Toyota Motors negli anni Cinquanta… il just-in-time [era] un modo per incrementare i profitti eliminando gli “sprechi”, tagliando scorte, manodopera e minuti di lavoro. Invece di impiegare tempo, fatica e denaro immagazzinando scorte lungo la catena di montaggio o in un magazzino (come le industrie facevano da decenni), l’idea di Ohno era che i fornitori avrebbero dovuto fornire i pezzi solo quando questi servivano, eliminando così le scorte.
Adottato in occidente dall’industria automobilistica negli anni Ottanta, il sistema è diventato un elemento caratteristico della globalizzazione, così che oggi quantità enormi di prodotti che viaggiano per mare e complesse catene logistiche sono la norma. Questo ha reso molto più fragile l’economia globale. Ancora Moody:
Più velocità significa più rischi. Inondazioni, blackout, piccoli errori informatici, strade dissestate, dispute sindacali o, come adesso, pandemie e problemi commerciali: qualunque cosa può bloccare il sistema just-in-time perché non tollera rallentamenti. Uno stoccaggio insufficiente può aumentare il rischio di blocco, mentre al contrario la velocità crea accumuli a monte o a valle della catena logistica, creando effetti a cascata o a valanga.
Il modello in generale va contro ogni norma preventiva. Nel video Wolff Responds: Lessons Learned from Corona Pandemic, Richard Wolff spiega come l’attuale capitalismo scambi il profitto a breve termine per efficienza, il che spinge l’industria a non produrre, non avere scorte, non organizzarsi in vista di eventi disastrosi oggi diventati più frequenti, come la pandemia ma anche l’influenza del 1918 o la Sars. Kevin Carson, nel suo Pandemia, lo Stato Cura o Provoca?, elenca le misure precauzionali: “riportare la produzione a livello locale, passare da un sistema salariale ai beni comuni gestiti secondo i principi dell’economia sociale, mettere su reti di mutuo soccorso per condividere rischi e costi. Serve un’economia meno connessa, meno roba che viaggia per migliaia di chilometri, meno persone che prendono l’aereo ogni giorno; un mondo in cui chi svolge un lavoro non indispensabile può stare a casa e assentarsi senza chiedere il permesso a un capo e senza rischiare di finire sulla strada.”
Tornando alla crisi, cito William I. Robinson il quale nota come…
[d]ietro il blocco delle catene logistiche c’è la questione più ampia della globalizzazione capitalista, che in questi ultimi decenni ha comportato l’inserimento di ogni nazione in un sistema produttivo, finanziario e di servizi globalmente integrato. Questo sistema è caratterizzato da frammentazione e decentramento della produzione industriale, e da processi distributivi divisi in un gran numero di fasi intermedie geograficamente distribuite nel globo.
La nota fa da complemento all’osservazione, fatta da Marx e Engels nel Manifesto, secondo cui “la necessità di ampliare costantemente il mercato dei propri prodotti assilla la borghesia in ogni angolo del pianeta. La costringe ad entrare, insediarsi, stabilire relazioni ovunque.” Il quadro di riferimento è stato impostato dai processi imperialistici di oggi e del passato, così come dal modo in cui si è imposta la militarizzazione globale, ma questi sono aspetti extra-economici del capitalismo basati, sostanzialmente, sull’uso diretto della violenza. Si critica ampiamente (e giustamente) anche questo, ma per tanti a sinistra il presunto colpevole è sempre il mercato. Moody punta il dito contro “decenni di deregolamentazioni, privatizzazioni e culto del mercato” che avrebbero “indebolito la società lasciandola in balia delle forze scatenate del just-in-time e privandola degli strumenti politici con cui domare la bestia. Anche l’indebolimento dei sindacati e delle organizzazioni cooperative hanno contribuito a indebolire ciò che fa muovere le catene logistiche, ovvero l’ambiente di lavoro, che sia una fabbrica, un magazzino, un camion o un treno, un porto, lo schermo di un computer, un negozio.” Le critiche al mercato, accusato di essere il colpevole dei problemi legati al covid, sono argomento comune dal centrosinistra alla sinistra; con titoli come: “La pandemia dimostra il fallimento del libero mercato”, “Il papa: il capitalismo di mercato fallisce nella pandemia” e “Capitalismo e covid: perché occorre un’economia pianificata” Viene da chiedersi, soprattutto riguardo i problemi delle catene logistiche: ma tra tutti gli aspetti del capitalismo, la colpa è solo del mercato?
Secondo Gary Chartier, “il ‘capitalismo’ può essere inteso in almeno tre modi”. Ovvero:
capitalismo 1
un sistema economico caratterizzato da diritti di proprietà e scambio volontario di beni e servizi.
capitalismo 2
un sistema economico caratterizzato dalla relazione simbiotica tra grandi aziende e stato.
capitalismo 3
dominio (sul luogo di lavoro, la società e, se esiste, lo stato) dei capitalisti, ovvero di un numero relativamente ristretto di persone che controllano la ricchezza investibile e i mezzi di produzione.
Il primo descrive bene le basi del mercato e spiega cosa accadrebbe spontaneamente se non ci fosse l’intervento dello stato, che non è certamente ciò che accade attualmente. Il secondo e il terzo spiegano l’attuale sistema economico, in cui dominano potere aziendale e concentrazione della ricchezza. Negli altri due casi il mercato non è una caratteristica centrale ma più un meccanismo secondario, che può facilitare il compito del capitalismo ma che non lo definisce e i cui principi sono sistematicamente violati. Sembrerebbe una questione di definizioni, e certamente in parte lo è; quando gli anticapitalisti parlano di “mercato” in realtà intendono “l’economia di mercato esistente sotto il capitalismo”, ma in certi casi intendono il mercato comunemente inteso: “[u]na configurazione tale per cui due o più parti praticano lo scambio di beni, servizi e informazioni tramite un meccanismo distributivo chiamato mercato”. Ricorda la critica di Carson ai libertari volgari che confondono capitalismo e libero mercato. Significa confondere forme capitaliste di economia di mercato e mercato in generale come meccanismo distributivo. Ma la questione va ancora più in profondità, verso il modo in cui intendiamo la relazione tra il capitalismo e le sue parti.
[i] mercati sono un mezzo per ridistribuire risorse e prodotti, beni e servizi. Do ut des è ciò che definisce i mercati: una persona offre in vendita qualcosa a qualcun altro, il quale si offre di acquistarla ad un rapporto di scambio pattuito con o senza la mediazione del denaro. Un mercato esiste quando la ridistribuzione avviene con un simile sistema di scambio. L’esistenza di un mercato non spiega il modo di produzione o la trasformazione delle risorse in prodotti. Il capitalismo è invece l’organizzazione della produzione di beni e servizi, ma anche il modo in cui i partecipanti stanno in relazione tra loro nel processo produttivo.
I mercati in quanto “meccanismi distributivi all’interno della società” possono esistere “in relazione a diversi sistemi produttivi”. “Solitamente coesistono e interagiscono con apparati statali. Tali interazioni a loro volta sono caratterizzate da interventi più o meno marcati dello stato: dalla regolamentazione più rigida dello scambio fino al ‘libero’ mercato con regole minime o nulle.” Quest’ultima forma è spesso erroneamente scambiata per capitalismo dai succitati libertari volgari; in realtà, un sistema capitalista è caratterizzato dalla presenza strutturale di monopoli approvati dallo stato, che Benjamin Tucker identifica nel monopolio fondiario, quello del denaro, dei brevetti e della politica protezionistica, ai quali Charles Johnson aggiunge il monopolio dell’agroindustria, quello delle infrastrutture e dei servizi, le normative protezionistiche e il monopolio della sanità. Tutto ciò conduce ad un sistema che contempla sì un mercato, ma che internamente si comporta perlopiù in modo del tutto estraneo alla logica dei mercati spontanei. Di fatto, questa distorsione ad opera di meccanismi extra-mercato va così in profondità nei sistemi economici statunitense e globale che, come scrive Alex Aragona, “[a]rriviamo al punto per cui è impossibile non notare che gran parte del mondo in cui viviamo oggi non solo tende a un capitalismo statalista che con l’azione statale e la difesa del potere aziendaleviola necessariamente i principi del mercato, ma che di questo modo d’azione ha fatto la regola principale. Insomma, viviamo in un sistema di capitalismo statalista con piccole sacche di libero mercato, non il contrario.” Pertanto la domanda, economicamente parlando, è: qual è l’elemento del capitalismo che causa il problema? È un mercato debole e prigioniero usato perlopiù come strumento organizzativo passivo, o è l’intervento dello stato che crea e tiene in piedi le strutture che rendono il capitalismo quello che è? Nel caso dei problemi strutturali delle catene logistiche durante la pandemia, e sinceramente anche in molti altri casi, la risposta è la seconda.
Una prova di ciò la possiamo trovare nel già citato saggio di Carson, che analizza in profondità la questione degli aiuti al monopolio delle infrastrutture dei trasporti e del monopolio della proprietà intellettuale. Carson spiega come gli aiuti internazionali e i prestiti della Banca Mondiale siano serviti perlopiù a finanziare le infrastrutture dei trasporti e dei servizi che rendono proficua la delocalizzazione della produzione; la quale produzione dipende fortemente dal rispetto dei brevetti e dei marchi commerciali, punto centrale di quasi tutti gli ‘accordi di libero mercato’ approvati dai governi in ogni angolo del mondo. Aggiungiamo a ciò il fatto che per le aziende il costo dei trasporti tramite navi container di ciò che si produce all’estero è “alleggerito dal fatto che la marina militare americana mantiene sicure le rotte a spese dei contribuenti.” Casi che non si limitano “all’Occidente industrializzato. C’è anche la cinese Road and Belt Initiative, che cerca di integrare il blocco euroasiatico con parte dell’Africa su dimensioni tali da far impallidire il vecchio imperialismo occidentale.” Perfino NPR’s Planet Money in una puntata ha spiegato come la spedizione di merci acquistate dalla Cina su internet costi molto meno di una spedizione locale grazie alla Universal Postal Union, in cui siedono rappresentanti di 192 governi nazionali. In sostanza: “una misteriosa organizzazione internazionale fissa il prezzo delle spedizioni, affossando così le piccole attività locali.” Si potrebbe andare avanti per ore, ma al fondo di tutto resta il fatto che, come dice Carson, “quella che chiamiamo ‘globalizzazione’ è, così come i Piani Quinquennali di Stalin, interamente un prodotto dell’ingegneria sociale dello stato altrimenti impossibile.” E poiché la globalizzazione è una struttura opera principalmente dello stato – e spesso di più stati – e non dello sviluppo spontaneo del mercato, e sarebbe logisticamente impossibile altrimenti, possiamo ragionevolmente dedurre che questo just-in-time diffuso ha un’origine principalmente extra-economica.
Andando oltre, basta guardare certi fenomeni specifici come la deregulation, le privatizzazioni e l’indebolimento dei sindacati – principali promotori del modello just-in-time secondo Moody – nel contesto dell’intervento dello stato. La deregulation è, secondo definizione, “l’atto o il processo di rimozione delle restrizioni o dei regolamenti”. Una definizione che non corrisponde esattamente a ciò che avviene nell’attuale regime capitalista. Così Carson: “[q]uasi tutto quello che troviamo di problematico nel capitalismo – lo sfruttamento del lavoratori, l’inquinamento, gli sprechi e l’obsolescenza programmata, la devastazione ambientale e lo spoglio delle risorse – è il risultato della socializzazione dei costi e dei rischi e della privatizzazione dei profitti.” Nonostante le “deregolamentazioni”, la loro permanenza è assicurata dall’intervento statale di oggi e di ieri. Riferendosi alle riforme del mercato, Carson parla di “limone riformistico”: “il capitalista liquida le politiche interventiste dello stato dopo averne spremuto tutti i benefici.” Ma anche “le presunte ‘deregolamentazioni’ sono a ben vedere perlopiù illusorie, con l’industria ‘deregolamentata’ che con mille trucchi riesce comunque a trarre benefici.” Trucchi ampiamente usati dalle aziende sia per distribuire i costi delle proprie infrastrutture produttive che per sfruttare le nazioni del sud del mondo. Ad esempio, al fondo di quasi tutti gli accordi di “libero” commercio ci sono negoziati multilaterali sui quadri normativi che permettono alle aziende di operare impunemente; la deregolamentazione in questo caso riguarda al massimo la rimozione di restrizioni superficiali.
Discorso simile vale per le privatizzazioni, teoricamente un passaggio “dal regime di diritto pubblico a quello di diritto privato”; mentre, come dice Charles Johnson, “la ‘privatizzazione’ di cui parlano il fondo monetario internazionale, gli stati neoliberali e le aziende dei baroni ladri è tutt’altra bestia rispetto a quella di cui parlano i sostenitori radicali del mercato.” Ad una privatizzazione intesa in senso genuinamente libertario come “trasferimento della ricchezza a chi l’ha creata, trasformando tutte le attività secondo il principio della libera associazione e del libero scambio reciproco” si oppone la privatizzazione neoliberale che comprende: “contratti finanziati con soldi pubblici” per cui “Black Water e DynCorp forniscono mercenari alle guerre dello stato”, o grazie ai quali “la Wackenhut offre, in cambio di soldi pubblici, carceri, forze di polizia, vigili del fuoco e altro”; a questi si aggiungono “le aste e i contratti sottobanco per la vendita a privati di aziende monopolistiche pubbliche: industrie petrolifere, acquedotti, centrali elettriche e altro.” Secondo la logica neoliberale, privatizzare non significa semplicemente trasferire la proprietà dal pubblico al privato, ma trasferire quelli che sono monopoli di fatto nelle mani di ricchi capitalisti. E la pratica non riguarda solo gli Stati Uniti. In molti paesi dell’America Latina, le privatizzazioni comportano dosi massicce di corruzione e nepotismo, con cui le élite monetizzate acquisiscono la proprietà di rilevanti entità economiche, aziende ex-statali, per dirigerne la produzione verso l’esportazione, in linea con le politiche standard di istituzioni come il fondo monetario, se lo stato non faceva già così.
E l’“indebolimento dei sindacati e dell’organizzazione sociale del lavoro”, pure responsabile secondo Moody della rapida adozione del modello just-in-time, è il risultato diretto del tentativo dello stato di evirare le organizzazioni dei lavoratori. Tra i primi esempi troviamo le leggi Wagner del 1935 e Taft-Hartley. Così Carson in riferimento alla prima: “Prima della Wagner, gli scioperi rappresentavano solo una delle tante tattiche utilizzate dai lavoratori nei rapporti con i datori di lavoro. I metodi impiegati dai sindacati, più che lo sciopero e l’astensione dal lavoro, riguardavano l’azione dei lavoratori all’interno del posto di lavoro al fine di aumentare il loro potere contrattuale nei confronti dei padroni.” Con la sua adozione sotto la presidenza di Franklin Delano Roosevelt, la Wagner Act, tramite l’intervento dello stato, “mise fine alla tattica conflittuale asimmetrica rappresentata dall’azione diretta sul posto di lavoro e impose la disciplina sociale trasformando i sindacalisti in gendarmi addetti all’imposizione del contratto sui loro iscritti. La Wagner mirava a spostare le dispute dalla lotta asimmetrica verso un sistema formalizzato e burocratizzato incentrato sui contratti di lavoro imposti e fatti rispettare dallo stato e dalle gerarchie sindacali.” Similmente, “la Taft-Hartley non solo applicava a tutti i settori ciò che valeva per il settore ferroviario, ovvero il divieto degli scioperi di solidarietà, ma prevedeva la possibilità di imporre ‘periodi d’interdizione’ in settori come quello dei trasporti terrestri e marittimi.” La legge era significativa perché permetteva allo stato di indebolire i lavoratori e dirigere il mercato verso un modello just-in-time. Carson aggiunge poi che “[i]n assenza delle restrizioni imposte ai lavoratori dalle leggi in questione, l’economia ‘just-in-time’ di oggi sarebbe molto più soggetta a disfunzioni dell’economia degli anni Trenta.” E, fatto ancora più importante, senza un sindacato forte con una vasta gamma di azioni volte a garantire buoni salari e benefici, la delocalizzazione e la riduzione al minimo degli stock diventa pressochè inevitabile.
Il malinteso nasce quando Moody lamenta l’assenza di “strumenti politici per placare la bestia” dell’economia just-in-time globalizzata. Carson riassume bene la questione quando scrive: “L’attuale struttura proprietaria del capitale e l’organizzazione della produzione nella nostra cosiddetta economia di ‘mercato’ rivela l’intervento coercitivo dello stato che precede ed è estraneo al mercato. Agli albori della rivoluzione industriale, quello che nostalgicamente oggi viene chiamato ‘laissez-faire’ in realtà era caratterizzato dallo stato che interveniva per sovvenzionare l’accumulazione, garantire i privilegi e mantenere la disciplina sul lavoro.” Un mercato veramente libero, spiega Carson, “privo di distorsioni capitalistiche e basato interamente sul libero scambio, non porterebbe a una forte concentrazione della ricchezza e al predominio del lavoro salariato.” Porterebbe invece ad una serie di economie di mercato a dimensione locale. Sarebbe praticamente l’opposto dell’economia globalizzata just-in-time. Un aiuto in questo senso, qui nel nord del mondo, può venire, tra le altre cose, da un rafforzamento di sindacati anti-statalisti come l’Industrial Workers of the World, da una ripresa delle mobilitazioni di massa del tipo di Occupy, da un ritorno alla lotta al fianco delle popolazioni indigene come gli Wetʼsuwetʼen. Ma soprattutto occorre diffondere la lotta per la proprietà cooperativa dell’economia nello stile di Cooperation Jackson.