Mercato, non Capitalismo – Introduzione

Di Gary Chartier. Originale: Markets Not Capitalism – Introduction, del 26 ottobre 2015. Traduzione italiana di Enrico Sanna.

La corrente anarco-individualista è viva e vegeta. Markets Not Capitalism è uno sguardo alla sua storia, evidenzia il possibile contributo che questa corrente può dare al movimento anticapitalista mondiale. Con questo libro cerchiamo di stimolare, non solo tra libertari di ogni orientamento ma anche tra chi ha altre posizioni politiche, una discussione vivace sul modo migliore per giungere alla liberazione dell’uomo. Siamo sicuri che le intuizioni degli anarco-individualisti sul potenziale liberatorio di un mercato senza capitalismo possono arricchire il dialogo, e per questo vi invitiamo a partecipare.

Introduzione

Gli anarchici di mercato credono nello scambio sul mercato, non nel privilegio economico. Credono nel libero mercato, ma non nel capitalismo. Si definiscono Anarchici perché credono in una società pienamente libera e consensuale, una società in cui l’ordine nasce non dalla forza della legge o dello stato, ma dal libero accordo, dalla cooperazione spontanea sulla base dell’uguaglianza. E anarchici di mercato perché riconoscono nel libero mercato uno strumento d’importanza vitale per un ordine sociale pacificamente anarchico. Ma il mercato qui teorizzato non è come il “mercato” infarcito di privilegi che ci circonda. Il mercato che si trascina sotto l’opera dello stato e del capitalismo è caratterizzato da persistente povertà diffusa, distruzione ambientale, forti differenze di ricchezza e potere concentrato nelle mani di aziende, dirigenti e proprietari terrieri. È opinione comune che lo sfruttamento, che abbia per oggetto l’uomo o la natura, è semplicemente il risultato di un mercato senza freni. È opinione diffusa che la proprietà privata, la pressione della concorrenza e la ricerca del profitto portino inevitabilmente, nel bene o nel male, al lavoro salariato capitalistico, alla concentrazione della ricchezza e del potere sociale nelle mani di pochi, o a pratiche economiche che privilegiano la crescita a tutti i costi lasciando che gli ultimi crepino.

Gli anarchici di mercato la pensano altrimenti. Ritengono il privilegio economico un problema reale e diffuso, ma non originato dalla proprietà privata, dalla competizione o dal profitto in sé. Non è un problema della forma mercato ma di un mercato deformato; deformato dall’ombra lunga delle ingiustizie storiche e da una pratica continuata che consiste nel favorire legalmente il capitale. La tradizione anarchica di mercato è fondamentalmente a favore del mercato ma anticapitalista, riflette una coerente preoccupazione per il carattere profondamente politico del potere aziendale, il legame tra le élite economiche e la tolleranza e il sostegno attivo dello stato, l’esistenza di una barriera osmotica tra élite politiche e economiche e l’incorporazione culturale del potere gerarchico istituito e tenuto in piedi dalla forza sancita e messa in pratica dallo stato.

La Forma Mercato

Questo libro rappresenta una lunga introduzione alla teoria economica e sociale dell’anarchismo di mercato di sinistra. L’anarchismo di mercato è un movimento sociale fondamentalmente individualista e anticapitalista. Come tanti altri anarchici, anche gli anarchici di mercato sostengono fondamentalmente la libertà individuale e il mutuo consenso in ogni aspetto dell’esistenza sociale: rifiutano qualsiasi forma di dominio e governo perché rappresentano un’invasione della libertà e una violazione della dignità umana. Gli anarchici di mercato contribuiscono al pensiero anarchico con un’analisi della forma mercato in quanto componente fondamentale di una società integralmente libera e equa, esaminano le possibilità rivoluzionarie inerenti le relazioni di un mercato privo di forme di privilegio capitalistico garantito dallo stato, e infine fanno uno studio delle strutture del privilegio e del dominio politico, che distorcono i mercati e permettono lo sfruttamento andando contro le tendenze naturalmente equilibratrici dei processi di mercato. Poiché distinguono nettamente tra forme di mercato in quanto tali e aspetti economici del capitalismo reale, è importante mettere accuratamente in risalto gli aspetti chiave del mercato nel senso inteso dagli anarchici di mercato. Le relazioni sociali difese esplicitamente dagli anarchici di mercato, relazioni che essi sperano di liberare da ogni forma di controllo governativo, sono:

1. il possesso della proprietà, soprattutto il possesso decentrato individuale, non solo delle cose personali ma anche della terra, la casa, le risorse naturali, gli strumenti di lavoro e i beni strumentali;

2. il contratto e lo scambio spontaneo di beni e servizi da parte di singoli o gruppi, sulla base dell’aspettativa di un beneficio reciproco;

3. la libera concorrenza, sul prezzo, la qualità e ogni altro aspetto, tra tutti, acquirenti e venditori,  senza precondizioni restrittive e senza onerose barriere all’ingresso;

4. la scoperta imprenditoriale come motore significativo e positivo della coordinazione in cui negoziazione decentrata, scambio e capacità imprenditoriale si uniscono per dar luogo ad una coordinazione ampia senza un programma deliberato, o al di là di questo e di una esplicita pianificazione comune dello sviluppo economico e sociale.

Per gli anarchici di mercato, la proprietà non è solo possesso, individuale o collettivo, anche se non esclude queste forme; essi insistono sull’importanza dei contratti e dello scambio sul mercato, nonché sulla concorrenza e l’imprenditorialità finalizzati al profitto; essi non solo ammettono, ma promuovono quella coordinazione spontanea, non pianificata, che i marxisti denunciano come “anarchia sociale della produzione”. Ma sono anche radicalmente anticapitalisti, e respingono con forza la tesi (comune alla sinistra anti-mercato e alla destra filocapitalista) secondo cui queste cinque caratteristiche della forma mercato devono produrre necessariamente un ordine sociale fatto di dirigenti, padroni, aziende piramidali, sfruttamento di classe, condizioni svantaggiose di lavoro, impoverimento dei lavoratori, povertà strutturale e disuguaglianza economica di massa. Al contrario, insistono sulle seguenti cinque asserzioni riguardanti il mercato, la libertà e il privilegio:

Tendenze centrifughe del mercato:  per gli anarchici di mercato un mercato liberato, in condizioni di libera concorrenza, tende a diffondere la ricchezza e dissolvere le concentrazioni (con un effetto centrifugo sui redditi, i diritti di proprietà, la terra e l’accesso al capitale), non a concentrare tutto nelle mani di un’élite socio-economica. Gli anarchici di mercato non accettano i limiti imposti in punta di diritto alle dimensioni e al genere di ricchezza che chiunque può accumulare; credono però che mercato e realtà sociale finirebbero di fatto per frenare le disuguaglianze di censo più di quanto non possa fare qualsiasi limitazione imposta per legge.

Possibili attività sociali radicali del mercato: per gli anarchici di mercato i mercati liberati sono non solo uno spazio in cui esercitare il commercio a fini di lucro, ma anche uno spazio in cui fare sperimentazione sociale e attivismo radicale di base. Per loro, la “forza del mercato” non si esprime soltanto con il perseguimento di guadagni strettamente finanziari o nella massimizzazione dei rientri per l’investitore, ma anche in richiami alla solidarietà, all’aiuto reciproco e alla sostenibilità. I “procedimenti del mercato” possono, e devono, comprendere un’attività conscia e coordinata volta ad attivare la coscienza, cambiare il comportamento economico e tentare di risolvere questioni di disuguaglianza economica e giustizia sociale con l’azione diretta nonviolenta.

Rifiuto delle attuali relazioni economiche imposte dallo stato: gli anarchici di mercato distinguono nettamente la difesa della forma mercato dall’apologia dell’attuale sistema di distribuzione della ricchezza e della divisione in classi della società, un sistema che non deriva da un mercato privo di costrizioni, bensì da un mercato statualizzato, irreggimentato e infarcito di privilegi; gli anarchici di mercato vedono nell’attuale sistema di distribuzione della ricchezza e divisione in classi un vero problema sociale, ma non un problema generato dalla forma mercato in sé: non è un problema di mercato ma di proprietà e coordinazione.

Regressività delle normative: per gli anarchici di mercato esistono problemi di coordinazione (generati da un’innaturale, distruttiva interruzione del libero scambio e della competizione imposta dallo stato) che sono il risultato di una lunga serie di privilegi garantiti per legge di cui godono le attuali forze capitaliste e altri interessi economici consolidati, privilegi concessi a spese della concorrenza più debole e della classe lavoratrice.

Esproprio e riparazione: per gli anarchici di mercato il privilegio economico è in parte il risultato di seri problemi della proprietà (derivati da un’imperfetta, innaturale e distruttiva distribuzione dei titoli di proprietà imposta dallo stato), problemi generati storicamente dagli espropri politici imposti ovunque tramite la guerra, il colonialismo, la segregazione, la nazionalizzazione e il furto. Il mercato non giungerà mai al suo optimum di libertà finché resterà oscurato dall’ombra del furto di massa o della proprietà negata; gli anarchici di mercato sottolineano l’importanza di una ragionevole riparazione delle passate ingiustizie, riparazione che potrebbe avvenire con tentativi dal basso, anti-aziendalisti e anti-neoliberali, di “privatizzare” le risorse controllate dallo stato, ma anche con la restituzione quando si conoscono le vittime delle ingiustizie, o ancora con l’esproprio rivoluzionario di proprietà fraudolentemente fatte proprie dallo stato o da entità monopolistiche privilegiate dallo stato.

La Tradizione Anarchica di Mercato

I primi teorici dell’anarchismo come Josiah Warren e Pierre-Joseph Proudhon sottolineavano il carattere socialmente armonizzatore delle relazioni di mercato quando queste avvengono in un contesto di eguaglianza. Secondo Proudhon, ad esempio, una rivoluzione sociale abolirebbe il “sistema di leggi” e il “principio d’autorità” per sostituirli con un “sistema basato sul contratto”[1].

L’ideale di mutualismo sociale secondo Warren e Proudhon si basa sul contratto e lo scambio. Partendo da questo ideale sono sorte, all’interno della tradizione anarchica in generale, diverse correnti anarchiche di mercato afflitte da crisi, crolli, interregni e rinascite. La storia è complessa, ma per i nostri propositi possiamo dividerla approssimativamente in tre grosse fasi: (I) una “prima ondata”, grossomodo dalla guerra civile americana al 1917, è rappresentata da “anarchici individualisti” e “mutualisti” come Benjamin Tucker, Voltairine de Cleyre e Dyer Lum[2]; (II) la “seconda ondata” coincide con la radicalizzazione di libertari filocapitalisti americani e la rinascita dell’anarchismo rappresentata da un insieme di movimenti sociali durante la fase estremistica tra gli anni Sessanta e Settanta; (III) una “terza ondata” nasce come corrente dissidente nel milieu anarchico degli anni Novanta e si evolve nei movimenti post-Seattle e del nuovo millennio.

Nonostante discontinuità e differenze, ad ogni ondata corrispondeva generalmente una rilettura delle ondate precedenti e una ripresa delle loro tesi; ad unirle era solitamente la difesa delle relazioni di mercato, con un’enfasi particolare sulle possibilità rivoluzionarie inerenti la forma mercato quando questa viene liberata, e nella misura in cui viene liberata, dalle istituzioni legali e sociali del privilegio.

L’anticapitalismo degli individualisti della “prima ondata” era chiaro a loro stessi e a tanti contemporanei. Conosciamo la tesi di Benjamin Tucker secondo cui alla base del potere delle élite economiche ci sono quattro monopoli, quattro gruppi di privilegi garantiti dallo stato: il monopolio dei brevetti, il monopolio di fatto creato dallo stato con la distribuzione delle terre assoggettate al demanio ai suoi clientes e la tutela della proprietà terriera illecita, il monopolio del denaro e del credito, e il privilegio monopolistico conferito dal protezionismo. I potentati economici dipendono da questi monopoli: eliminati questi, scompare il potere delle élite.

Tucker, che si dedicò alla causa della giustizia per i lavoratori in lotta con i capitalisti del tempo, si identificava chiaramente con il nascente movimento socialista. Ma, in contrasto con Marx e altri socialisti, vedeva nelle relazioni di mercato qualcosa di potenzialmente positivo e non necessariamente fonte di sfruttamento, purché si eliminassero i privilegi conferiti dai quattro monopoli che distorcevano il mercato.

Il radicalismo di Tucker, dei suoi connazionali e della corrente anarchica da loro avviata dopo la fine della prima ondata era forse meno evidente rispetto ad altri radicalismi del tempo. Ciò è forse in parte dovuto alle loro dispute con rappresentanti di altre tendenze anarchiche, le cui critiche verso le loro opinioni hanno influito sulle percezioni degli anarchici venuti in seguito. Ma è anche conseguenza del fatto che a Tucker si sono ispirati anche molti tra la destra libertaria novecentesca apologeti delle élite aziendali e del loro dominio sociale.

Pur con rispettabili eccezioni, i libertari novecenteschi orientati al mercato hanno spesso esaltato i colossi aziendali ignorando o giustificando l’abuso dei lavoratori e minimizzando, se non accettando esplicitamente, il potere sociale e economico piramidale. Molti, è vero, approvavano la critica dello stato e dei privilegi garantiti dallo stato fatta da Tucker e dai suoi compagni individualisti, ma al contempo spesso ignoravano o rifiutavano le implicazioni radicali di una critica delle ingiustizie sociali fatta, in un’ottica di classe, dai primi individualisti. Pochi, insomma, erano i sostenitori entusiasti dell’anticapitalismo di stampo individualista del primo Novecento.

La frangia più radicale orientata al mercato nel movimento libertario, rappresentata da teorici come Murray Rothbard e Roy Childs, non assumeva generalmente una posizione in linea con l’economia anticapitalista individualista e mutualistica, ma una posizione che i loro sostenitori definivano “anarco-capitalismo”. Immaginavano una futura società libera sotto forma di società di mercato, è vero, ma con relazioni di mercato poco diverse dallo stato attuale, mentre la fine dello stato era vista come libertà delle aziende di fare quello che fanno ora, non come scatenamento di forme competitive dell’organizzazione economica in grado di trasformare radicalmente le forme di mercato dal basso.

Nel corso della “seconda ondata” degli anni Sessanta, l’insieme formato dai movimenti sociali anarchici (ravvivati dalla corrente antidispotica e controculturale della New Left) e dagli estremisti antimilitaristi libertari cominciò a riscoprire e ripubblicare le opere dei mutualisti e degli altri individualisti. “Anarco-capitalisti” come Rothbard e Childs cominciarono a esprimere dubbi sulla storica alleanza tra libertari e destra e ad abbandonare le difese delle grandi aziende e del capitalismo reale per appoggiare un più coerente anarchismo di mercato di sinistra. L’esempio più vistoso fu forse quello di Karl Hess, che aderì al radicalismo della New Left e abbandonò l’economia “capitalista” a favore di un mercato non capitalista su piccola scala basato sulle comunità. Nel 1975 Hess, già autore di discorsi di Goldwater, dichiarava: “ho perso la fede nel capitalismo”, “mi oppongo a questo stato nazione capitalista”, e sottolineava come il suo fosse un “abbandono della religione del capitalismo”.[3]

La “seconda ondata” fu seguita da una seconda depressione dell’anarchismo in generale e in particolare dell’anarchismo di mercato. Negli anni Settanta e Ottanta le tendenze anticapitalistiche dei libertari orientati al mercato si erano in gran parte dissolte, o erano state soffocate dalle politiche filocapitaliste di istituzioni “libertarie” ben finanziate come il Cato Institute o i vertici del Partito Libertario. Fu con la fine della Guerra Fredda, il riallineamento di vecchie coalizioni politiche e l’emergere di una terza ondata del movimento anarchico negli anni Novanta che si posero le basi per una rinascita dell’attuale anarchismo anticapitalista di mercato.

Agli inizi del nuovo millennio, gli anticapitalisti eredi dell’individualismo erano cresciuti di numero, avevano più ascendente e più visibilità. Condividevano con i primi individualisti l’idea che il mercato non dovesse necessariamente basarsi sullo sfruttamento. Elaborarono e difesero una versione particolarmente libertaria dell’analisi di classe che estendeva i monopoli elencati da Tucker e evidenziava il nesso tra il privilegio garantito dallo stato, l’esproprio sistematico passato e attuale e tutta una gamma di questioni legate all’ecologia, la cultura e le relazioni di potere interpersonali. Inoltre sottolineavano il contrasto tra un mercato libero (affrancato), in grado di incentivare lo sviluppo, e le transazioni di mercato che avvengono in contesti distorti da ingiustizie passate e attuali e che, non sorprendentemente, indeboliscono e opprimono. Il problema, insistevano questi nuovi individualisti (al pari dei loro predecessori), non era il mercato bensì il capitalismo, con le élite sociali che esercitano il proprio potere grazie allo stato. La soluzione pertanto era l’abolizione del capitalismo tramite l’abolizione di privilegi legalizzati come la tutela della proprietà di risorse rubate e introitate.

Questi nuovi individualisti criticavano allo stesso modo statalismi conservatori e progressisti, ma anche quei libertari di destra fedeli al mercato che, parlando di libertà, legittimano il privilegio aziendale. La loro critica aggressiva di questo genere di “libertarismo volgare” sottolineava come le attuali relazioni economiche sono intrise di ingiustizia dalla testa ai piedi, e come i richiami alla libertà vengano usati per mascherare il tentativo di preservare la libertà delle élite di tenere per sé la ricchezza ottenuta grazie alla violenza perpetrata o tollerata dallo stato e al privilegio garantito dallo stato.

L’habitat Naturale degli Anarchici di Mercato

Questo libro non sarebbe stato possibile senza internet. Il lettore di Markets Not Capitalism noterà che molti degli articoli non somigliano affatto a capitoli di un libro tradizionale. Molti sono brevi. Molti altri cominciano riprendendo un discorso precedente, spesso con espressioni del tipo: “A proposito di tale questione, tal dei tali sosteneva che…” Gli originali nascono spesso come articoli di un blog, fanno riferimento ad articoli o discussioni precedenti e spesso criticano o allargano discorsi fatti da altri autori in altre sedi. Molti articoli sono stati adattati alla stampa, mentre altri hanno ancora tutto il sapore dei blog da cui provengono.

Non è un semplice difetto dei social su internet. La storia della tradizione individualista e mutualista è in gran parte storia di pubblicazioni effimere, riviste dalla vita breve, opuscoli autopubblicati e brevi documenti estremisti. L’esempio più famoso è certamente Liberty (1881-1908), di Benjamin Tucker, ma ci sono anche pubblicazioni come Twentieth Century (1888-1898) di Hugh Pentecost, o riviste della “seconda ondata” di anarchici di mercato come Left and Right (1965-1968) e Libertarian Forum (1969-1984). Tutte pubblicazioni che ebbero vita breve ma con uscite frequenti; gli articoli erano più critici che esaurienti, dal tono e dall’approccio fantasiosi più che tecnici. Dibattiti inveterati e di ampia portata tra pubblicazioni, redattori e movimenti del tempo erano una fonte costante di materia prima; laddove un interlocutore non esisteva, se ne inventava uno, come nel caso della de Cleyre e dello Slobodinsky di “The Individualist and the Communist: A Dialogue”. La prima opera di dimensioni librarie della “prima ondata”, Instead of a Book, by a Man Too Busy to Write One di Tucker (1893) è una semplice raccolta di brevi articoli pubblicati su Liberty, la maggior parte dei quali è fatta di repliche su questioni e temi posti dai lettori o dai redattori della rivista stessa. I dibattiti somigliavano moltissimo a quelli che oggi si possono leggere sui siti pubblicati da Blogger o WordPress: gli attuali blog sono evidentemente le vecchie pubblicazioni indipendenti in una veste tecnologica nuova.

La piccola stampa, indipendente e discorsiva, ha fornito agli anarchici di mercato l’habitat in cui crescere; liberali e marxisti, per contro, preferivano esprimersi per mezzo di dichiarazioni, manifesti o complessi trattati organici. Il perché è complesso, varrebbe la pena farne un’analisi ma fuori dai limiti di questa prefazione. È però bene notare che l’anarchismo di mercato è più o meno sempre emerso come programma critico e sperimentale tra le frange radicali dei movimenti sociali (come il movimento di Owen, quello sul libero pensiero, quello dei lavoratori, il movimento libertario americano orientato al mercato, o ancora il movimento anti-globalizzazione e l’annesso milieu sociale anarchico).

L’anarchismo di mercato punta a trovare verità sociali non imponendole con dogmi o leggi, ma garantendo il massimo interscambio di idee e forze sociali, con un occhio sulle conseguenze impreviste delle idee messe in pratica, avviando un processo di sperimentazione e scoperta che permetta di mettere alla prova costantemente idee e istituzioni davanti alle alternative e alla realtà.

L’anarchico rivoluzionario e mutualista Dyer D. Lum (1839-1893) scriveva in “The Economics of Anarchy” che un tratto distintivo dell’anarchia di mercato è la “plasticità” degli arrangiamenti sociali e economici, contrapposta alla “rigidità” del dominio statuale o degli schemi economici comunisti. Forse la sostanza teorica degli anarchici di mercato ha determinato la forma in cui gli autori anarchici preferiscono esprimere tale pensiero. O forse, al contrario, è la forma dello scrivere ad aver spesso reso possibile la sostanza: forse perché il pensiero degli anarchici di mercato prende forma in modo del tutto spontaneo nel dialogo piuttosto che nella disquisizione, nel botta e risposta più che nel monologo. Il valore della spontaneità, l’impegno esplorativo e le regole del confronto possono essere parte essenziale tanto nella nascita delle idee esposte nello scrivere quanto nella messa in pratica di tali idee nella realtà più ampia.

Se è così, allora questi articoli vanno letti sapendo che, in una certa misura, sono fuori dal loro ambiente naturale. Esistono trattazioni più ampie e sostenute degli argomenti trattati, questo è vero, ma molti articoli pubblicati nascono come contributo a progetti di lunga data, e hanno preso corpo nel corso di ampi dibattiti. Li abbiamo raccolti in un’antologia stampata per offrire un servizio allo studente, al ricercatore e a chiunque voglia apprendere di approcci alternativi nell’ambito del pensiero socio-anarchico di libero mercato. Dovrebbero essere visti non come l’ultima parola sul soggetto, e neanche come la prima, bensì come un invito a immergersi nell’argomento, per vedere come, tra gli anarchici di mercato di sinistra, il procedimento dialogico faccia emergere le idee. E per partecipare al discorso…


Note:

1. Vedi, in questa pubblicazione, “Organization of Economic Forces,” General Idea of the Revolution in the Nineteenth Century, ch. 3 (37-58).

2. Durante la prima ondata le differenze tra “individualisti” e “mutualisti” erano molto sfumate; molti autori (come Tucker) definivano la propria posizione ora individualista e ora mutualista. Si possono però tracciare alcune differenze tra chi era solitamente definito “individualista”, come Tucker e Yarros, e chi era solitamente definito “mutualista”, come Dyer Lum, Clarence Swartz o  gli europei che si ispiravano a Proudhon: se entrambe le parti sostenevano l’emancipazione dei lavoratori e la possibilità di questi ultimi di accedere al capitale, i “mutualisti” enfatizzavano l’importanza particolare delle cooperative di lavoratori e la proprietà diretta dei mezzi di produzione nelle mani dei lavoratori, mentre gli “individualisti” sottolineavano come in condizioni di pari libertà i lavoratori si sarebbero accordati sulla forma di proprietà più adatta alle circostanze.

A complicare le cose, il fatto che il termine “mutualismo” viene usato oggi per riferirsi a gran parte degli anarchici anticapitalisti di mercato, o più precisamente a chi (come Kevin Carson) si discosta dalle posizioni cosiddette “lockeane” riguardo la proprietà della terra, persone che credono che la proprietà della terra si basi esclusivamente sull’occupazione e l’uso, escludendo la proprietà assenteista in quanto indesiderata e indegna di tutela legale. “Mutualista”, in questo senso, comprende sia chi, durante la prima ondata, era solitamente definito “individualista” (come Tucker), sia chi era solitamente definito “mutualista” (come Lum).

3. Ad esser sinceri, l’atteggiamento verso il sociale di Hess dopo queste dichiarazioni non sembrano cambiare sostanzialmente, ma il suo linguaggio è meno legato all’anticapitalismo; nel 1986 pubblica Capitalism for Kids: Growing Up to Be Your Own Boss. Non c’è dubbio però che qui Hess per “capitalismo” intende ciò che intendono gli attuali anarchici di mercato di sinistra quando parlano di scambio pacifico e spontaneo in un mercato genuinamente liberato, e non ciò che aveva ripudiato nel 1975. È certo, come si intuisce dal sottotitolo, che non intendeva indirizzare i suoi giovani lettori a una carriera di manager aziendali.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory