Di Eric Fleischmann. Originale pubblicato il 17 maggio 2022 con il titolo The Age-Old Question: Is Anarcho-Capitalism Anarchism? Traduzione di Enrico Sanna.
L’anarco-capitalismo è anarchismo? Anarchici di ogni sfumatura, compreso io, urlano: NO! Il dibattito infuria. Due le questioni: perché no? e: cos’è allora l’anarchismo? Le mie risposte: perché non soddisfa i requisiti dell’anarchismo, e perché in realtà è una forma di libertarismo estremo. Da qui un’altra domanda: ma allora che relazione c’è tra libertari e anarchici? Qui cerco di dare una risposta elaborata alla prima questione per poi arrivare a un’analisi aperta della seconda. Prima però devo dire che, per gran parte del mondo, libertario e anarchico sono pressoché sinonimi. “Libertario” è stato usato per la prima volta in senso politico dall’anarchico comunista Joseph Déjacque, ed è inteso con un significato di sinistra in gran parte del mondo fuori dagli Stati Uniti. Nel 1955 Dean Russell disse che i liberali non avrebbero più dovuto definirsi tali e propose che “chi tra noi ama il marchio registrato di libertà adotti in esclusiva… la vecchia e onorevole definizione di ‘libertario’.” Per questo negli Stati Uniti libertario significa comunemente, almeno nel suo senso più profondo, liberale. Quanto a liberalismo, nel suo significato originario possiamo trovarlo nella prefazione a Liberalism: In The Classical Tradition di Ludwig von Mises scritta da Bettina Bien Greaves: “[l]a parola ‘liberalismo’, dal latino ‘liber’ che significa ‘libero’, si riferiva in origine alla filosofia della libertà.” Secondo la Greaves, il termine trova applicazione pratica nella “economia di libero mercato, lo stato ristretto e la libertà individuale.” In sostanza, la parola liberalismo assume le forme di una fede nella libertà profonda dell’individuo, che nel mondo reale è possibile riducendo al minimo il potere statale e ampliando al massimo il mercato. Questi i principi base del libertarismo.
Oggi il liberalismo domina il mondo nella forma egemonica e corrotta del neoliberalismo, ma in origine, come scrive Kevin Carson, “[i]l liberalismo di Adam Smith, David Ricardo e altri economisti classici era sostanzialmente un attacco da sinistra contro i privilegi delle oligarchie terriere whig e contro il mercantilismo delle classi ricche”, e solo in seguito assunse “i tratti di una dottrina apologetica in difesa degli interessi costituiti del capitale industriale”[1]. Pertanto, se da un lato il libertarismo ha le stesse origini del neoliberalismo, dall’altro non riflette la situazione attuale, che possiamo definire in senso profondo come liberalismo del ventesimo e ventunesimo secolo. Intendiamoci, questo significa dare molto più credito del dovuto ai libertari volgari che, come dice Carson, “utilizzano il termine ‘libero mercato’ in modo ambiguo”, che sembrano “non ricordare mai se stanno difendendo il capitalismo attuale o i principi di libero mercato”, e pertanto finiscono per difendere lo stato attuale e le élite di potere. Jason Lee Byas, dal canto suo, replica che il libertarismo, nonostante l’uso distorto, è oggi una forma radicale di liberalismo, e nota: “[s]e i libertari sono estremisti liberali, allora noi siamo oltre gli estremismi.” Il che significa “andare al significato profondo di un ideale e applicarlo con coerenza.” Il liberalismo estremo porta alla conclusione che “sebbene naturalmente allineati, nel mondo reale gli interessi sono in forte contrasto tra loro. Questo contrasto, una cosa innaturale, deriva dall’imposizione del potere e dal fatto che violenza genera violenza”. Certo “il voto, il tran tran del burocrate e il viavai del poliziotto generano ben poca adrenalina… ma si tratta comunque di atti di guerra. Con questi monotoni atti di guerra, l’obiettivo principale di questa fanteria inconscia è sempre la protezione dell’autorità politica.” I libertari radicali (e veramente radicali) prendono questi concetti di potere e violenza, nonché di libertà individuale, stato ristretto ed economia di libero mercato, e arrivano alla conclusione che ciò che occorre è la sovranità individuale assoluta, uno stato azzerato e un mercato fornitore di tutto. Questa è la visione anarco-capitalista di persone come Murray Rothbard e David Friedman, e può anche sembrare anarchia a prima vista, ma abolire lo stato e passare all’associazione volontaria di un sincero libero mercato non basta a fare un’anarchia.
Ciò può sembrare strano, visto che tante definizioni di anarchismo si basano sulla libera associazione e uno stato azzerato. Emma Goldman spiega che l’anarchismo, come antistato, è “[l]a filosofia di un nuovo ordine sociale basato su una libertà non limitata dalle leggi fatte dall’uomo; lo stato in tutte le sue forme si basa sulla violenza, è ingiusto e pericoloso oltre che superfluo.” David Graeber, in un’ottica “volontaristica”, arriva a questa conclusione: “[s]emplificando al massimo, l’anarchismo è un movimento politico che mira a realizzare una società sinceramente libera; ovvero, una ‘società libera’ in cui le persone intrattengono solo quelle relazioni reciproche che non devono essere imposte con la minaccia costante dell’uso della forza.” Pëtr Kropotkin, combinando entrambe le forme, dice che l’anarchismo è “il nome dato ad un principio, teoria o pratica di vita per cui la società può esistere senza lo stato; in una simile società, l’ordine armonioso è ottenuto non con la sottomissione alle legge, o con l’obbedienza a una qualche autorità, ma con il libero accordo tra gruppi di persone, divisi territorialmente e professionalmente e liberamente costituiti al fine di produrre e consumare, ma anche di soddisfare quell’infinità varietà di bisogni e aspirazioni delle genti civilizzate.” Date queste poche citazioni e senza andare oltre, sembrerebbe che l’anarco-capitalismo, perlomeno nei suoi principi di base che sono lo scambio spontaneo e la proprietà privata individuale, sia una variante dell’anarchismo.
E qui la questione si fa più seria. Quanto descritto è anarchismo o solo un obiettivo finale raggiunto col rispetto rigoroso di doveri profondi? Così la pensa Byas, per il quale “anarchismo… non significa semplicemente associazione spontanea e basta. Un’associazione spontanea è indispensabile e non negoziabile, ma questo non esaurisce il compito dell’anarchismo se persiste un dominio in forma non violenta.” Così John Clark, per il quale “l’anarchismo nella sua essenza” non è una semplice “opposizione teorica allo stato, ma una lotta teorica e pratica contro il dominio, senza limitarsi a criticare l’organizzazione politica” ma andando alla radice delle cose e condannando “la natura autoritaria della diseguaglianza economica e della proprietà privata, delle strutture economiche piramidali, dell’istruzione tradizionale, della famiglia patriarcale, della discriminazione di razza e di classe e di una rigida divisione dei ruoli secondo il sesso e l’età”[2]. Un’illustrazione più concisa la fornisce Noam Chomsky, per il quale…
“[i]l concetto base della tradizione anarchica, a mio parere, è che il potere è illegittimo finché non dimostra la propria legittimità. L’onere della prova ricade sempre su chi asserisce la legittimità di una relazione gerarchica. Se non viene dimostrata, cade.”
Secondo Byas, gli anarco-capitalisti “spesso [dimenticano] di sottolineare… che è d’importanza cruciale che nella norma di vita anarchica non ci sia dominazione.” Facendosi avvocati di un’economia che ruota attorno alla proprietà privata dei mezzi di produzione (un ordine socio-economico che non solo è piramidale ma nasce con l’accumulazione primitiva e altre forme di violenza come il colonialismo insediativo e l’imperialismo), gli anarco-capitalisti non vanno oltre l’abolizione del dominio e del potere piramidale statale; dunque, pur qualificandosi come libertarismo radicale, l’anarco-capitalismo non è anarchismo.
Una tesi contestata da Roderick Long nel suo contribution on libertarianism and anarchism to Brill’s Companion to Anarchism and Philosophy, in cui, pur non essendo anarco-capitalista, sostiene che l’anarco-capitalismo è anarchismo anche se considera “legittime quelle forme di dominio citate da Clark, sia che queste vengano interpretate in senso lato come non violazione dei diritti e pertanto intoccabili, sia che vengano interpretate in un senso più forte come non problematiche anche in termini di moralità privata.” Qui Long, a mio parere, espone due tesi di fondo. La prima è che l’anarco-individualismo nordamericano del genere di Benjamin Tucker, Josiah Warren, Voltairine de Cleyre e Lysander Spooner è legittimamente anarchico, e che “l’anarco-capitalismo dev’essere inteso come un sottoinsieme dell’anarco-individualismo”, e che “[m]olte delle caratteristiche dell’anarco-capitalismo, in particolare le agenzie di difesa private, citate dagli anarco-socialisti come ragione per un’esclusione dai ranghi dell’anarchismo, sembrano condivise dagli anarco-individualisti”. La seconda tesi è che quel sistema che gli anarco-capitalisti definiscono “capitalismo” non è l’attuale sistema economico controllato dallo stato ma un vero libero mercato. Il quale non solo ammette l’esistenza di programmi acapitalisti come il mutuo soccorso, le cooperative e le comuni, ma dice anche che l’esasperazione delle disuguaglianze, i parassitismi e i monopoli sono “perlopiù prodotti dall’intervento statale e non dal libero mercato, pertanto scomparirebbero se si mettessero in pratica gli insegnamenti dell’anarco-capitalismo, a prescindere dalle aspettative degli anarco-capitalisti stessi.” Long affronta solo di sfuggita la questione di un più profondo impegno contro il dominio e il potere piramidale, liquidandola come “strategia dell’esclusione per definizione”. Io credo che si tratti di un errore serio, che potrebbe permettere ai valori reazionari di infiltrarsi nel movimento anarchico. L’anarchismo è inerentemente incapace di rifiutare il razzismo, la misoginia, l’omofobia e altre forme di intolleranza? Long cita Pierre-Joseph Proudhon che, pur essendo “misogino, antisemita e omofobo”, rispettava i canoni anarchici, anche se giudica positivamente un rifiuto di queste posizioni. Parliamo allora di cose compatibili col pensiero anarchico o di errori fatti nei primi stadi di sviluppo dell’ideologia? Io credo alla seconda ipotesi; dopotutto, lo stesso Proudhon disse: “Sogno una società in cui io possa finire sulla ghigliottina perché conservatore”[3].
Quanto alle tesi più importanti di Long, credo che l’anarco-capitalismo discenda in qualche modo dall’anarco-individualismo, ma non perché il primo è una forma di anarchismo, bensì perché l’altro è una forma di proto-libertarismo. L’anarco-individualismo, così come l’anarco-capitalismo, presenta una certa “continuità con il liberalismo classico”, entrambi mirano alla contrazione totale dello stato e all’allargamento del mercato fino a comprendere ogni cosa, compreso il diritto e la difesa. Già nell’Ottocento gli anarco-individualisti arrivavano a sostenere valori sociali come “femminismo, amore libero, antimilitarismo e difesa dei lavoratori”, come lo stesso Long spiega. Ma quello che loro ideologicamente immaginavano non era un libero mercato fatto di istituzioni come le agenzie private di difesa “concepite e realizzate” in un “contesto acapitalistico”, bensì il prodotto di un ampliamento del libero mercato a tutti gli ambiti, il che avrebbe fatto fiorire i valori citati distruggendo il capitalismo in generale. Long contesta questa visione delle cose, e ribatte citando alcuni individualisti ottocenteschi (in particolare Spooner) che non erano di per sé contrari all’interesse, la rendita e il lavoro salariato; “come Tucker, che pensava che un vero libero mercato avrebbe minato le istituzioni capitaliste, ma non subordinava il suo sostegno al laissez-faire alla giustezza delle sue previsioni”; per lui “il nesso tra [anarchismo e distruzione dello sfruttamento capitalista] era di causa ed effetto e non definitorio; e se si fosse trovato a scegliere tra libertà individuale e una più equa distribuzione della ricchezza, arrivò a dire, avrebbe scelto la libertà.” A sostegno della sua tesi, Long cita due punti particolari:
Altrove [Tucker] specifica: “Uguaglianza se ce la possiamo permettere, libertà ad ogni costo!” Pur essendo contrario all’interesse, Tucker pensava che “le ragioni per opporvisi in condizioni di libertà possono comparire solo sporadicamente”; avrebbe smesso di opporsi all’interesse se l’avessero convinto “che può convivere con le condizioni di libera concorrenza.”
Lasciando da parte la posizione di Spooner, che io considero anomala, credo che servirsi di questi ragionamenti per dire che Tucker (soprattutto come originatore dell’anticapitalismo di libero mercato) non considerava parte fondamentale della sua politica la distruzione dello sfruttamento significa fraintendere entrambe le opinioni.
L’ultimo punto rappresenta l’evoluzione di un’opinione di Proudhon, che dice:
non vorrei che fossero vietati per decreto la rendita fondiaria e l’interesse sul capitale. Credo anzi che tutte queste manifestazioni dell’attività umana debbano restare libere e spontanee. Non vorrei che fossero modificate, ristrette o vietate, se non quando quando sono il risultato spontaneo e necessario dell’universalizzazione del principio di reciprocità che io propongo.
Qui Proudhon non difende l’interesse o la rendita, bensì riconosce che l’anarchismo, a differenza delle ideologie dello stato, non proibisce ma crea una condizione in cui l’interesse potrebbe esistere ma sarebbe improbabile. Come scrive Carson, ispirandosi alla critica del monopolio del denaro di Tucker, è “lo stato che, limitando l’attività bancaria, imponendo requisiti di capitale e altre barriere all’ingresso, permette alle banche di imporre un prezzo monopolistico sui prestiti sotto forma di tasso d’interesse usuraio.” Il fatto che Long nella prima parte del testo citato preferisca la libertà all’eguaglianza può a sua volta essere considerato non un’approvazione di qualsiasi sistema purché senza stato, ma un sentire nel contesto della sua opposizione al socialismo di stato. Pur definendosi socialista, Tucker era fortemente contrario al socialismo di stato. “Un compromesso tra anarchismo e socialismo di stato non può esistere,” scrive, perché il secondo è “una dottrina che afferma che tutto ciò che riguarda l’uomo deve essere gestito dallo stato a prescindere dalle scelte individuali.” È nel quadro di questa opposizione che Tucker dichiara la sua preferenza per la libertà sull’eguaglianza. Pensa che la prima porti, in ultima analisi, alla seconda, ma si oppone a qualunque ideologia che, come il socialismo di stato, inverte le preferenze, perché non si avrebbe mai né libertà né eguaglianza. È questo il senso inteso da James J. Martin, che parlando di Tucker da vecchio dice: “Il capitalismo perlomeno è tollerabile, a differenza del socialismo o del comunismo.” Il che non è, come pensa Susan L. Brown, un’approvazione del capitalismo, “la conversione tanto enfatizzata dagli anarco-capitalisti negli anni Settanta”, ma il commento amaro di un anarchico convinto che vedeva l’ascesa della statalista e autoritaria Unione Sovietica negli ultimi quindici anni della sua vita.[4] Se è vero che gli anarco-individualisti ottocenteschi non erano disposti a rinunciare alla propria ideologia perché certe prassi non avrebbero dato vita a tutta quella uguaglianza e libertà che pensavano. Questo non significa però che si debba rinunciare a questi obiettivi di uguaglianza e libertà, che sono indispensabili se si vuole che l’anarco-capitalismo rientri nei canoni anarchici.
Pur ammettendo qualche punto in comune libertario (ma non anarchico) tra l’anarco-individualismo e l’anarco-capitalismo, mi chiedo: chi sono gli eredi dell’anarco-individualismo? Charles Johnson pensa che il dibattito tra anarco-capitalisti e anarco-socialisti riguardo questa eredità possa diventare molto ipocrita, con gli anarco-capitalisti che fingono di non vedere “il forte sapore socialista dell’interpretazione individualista delle classi, i privilegi e lo sfruttamento”, e gli anarco-socialisti che “smussano gli spigoli riguardo la posizione degli individualisti” al fine di “farli apparire molto meno proprietaristi e più favorevoli al socialismo collettivista e comunista di quanto non fossero.” E aggiunge notando che noi anarco-individualisti “siamo ancora vivi, non abbiamo bisogno di un gruppetto di anarco-capitalisti e anarco-socialisti che ci definisca.” E poi: “sono cose che non m’interessano, ma è stancante vedere le due parti che litigano sulle tendenze individualiste dentro il movimento come se fosse il testamento della nonna.” Io credo che noi anarco-individualisti che ancora lottiamo per il libero mercato ma anche per la fine del capitalismo dobbiamo rimarcare che quell’eredità spetta a noi. La destra ha già provato a reclamare a sé la nostra tradizione. Il gruppo proto-fascista francese Cerele Proudhon prende selettivamente dalla critica della democrazia di stato di Proudhon al fine di sostenere il proprio porco nazionalismo. Cito Tucker:
[u]no dei metodi propagandistici praticati da questi agitatori consiste nel cercare di cooptare tra i loro apostoli tutti quei grandi personaggi che, se ancora in vita, guarderebbero con disprezzo i loro metodi e il loro operato. I grandi critici della democrazia che, essendo ora sepolti, non possono protestare, sono arruolati tra i realisti, i nazionalisti e gli anti-dreyfusardi. Tra le vittime inermi, il primo è il più importante tra gli anarchici, a cui questi giovinastri impudenti si riferiscono chiamandolo il nostro grande Proudhon. Hanno anche fondato una certa Cerele Proudhon, che pubblica una rivista bimestrale chiamata Cahiers du Cerel Proudhon.
Dovremmo prendere nota di questa posizione anti-reazionaria di Tucker e, invece di difendere bizzarramente l’anarco-capitalismo, accettare l’eredità dell’anarco-individualismo ottocentesco. Certo, come ho detto all’inizio, la mia è un’affermazione più ideale che fattuale, ma non credo che questo ne sminuisca l’importanza quando così tanti anarco-capitalisti e libertari vari di destra si lasciano catturare dal fascismo, dal monarchismo, dal nazionalismo bianco e da altre derive autoritarie.
È sulla base di quest’ultimo punto che contesto l’idea che gli anarco-capitalisti debbano essere accettati come anarchici semplicemente perché il loro capitalismo ideale non è quello attuale ma si richiama ad un vero libero mercato, o perché un’applicazione coerente dei principi del libero mercato porterebbe ad una realtà molto diversa dalla realtà economica attuale. Anna Morgenstern spiega che se gli anarco-capitalisti “fossero sinceri nel voler eliminare lo stato, sarebbero anarchici ma non capitalisti, per quanto dicano il contrario.” Questo perché in assenza dello stato “il costo della salvaguardia della proprietà salirebbe enormemente al crescere della proprietà.” “Senza un sistema bancario o finanziario protetto dallo stato, l’accumulazione infinita di grossi profitti è praticamente impossibile.” “In una realtà anarchica, cose come la ‘proprietà intellettuale’ non esisterebbero, non sarebbero possibili modelli aziendali che poggiano sui brevetti e i copyright.” “L’accumulazione e la concentrazione del capitale sarebbero impossibili.” “Senza la concentrazione del capitale sarebbe impossibile la schiavitù salariale”, e “[s]enza schiavitù salariale nessuno direbbe che il sistema è ‘capitalista’.” Ma ci sono anche anarco-capitalisti (spesso si autodefiniscono volontaristi) che sono per un mercato davvero libero anche in contrasto con i principi del capitalismo tradizionale. Parlo di Karl Hess e di Rothbard ai tempi della New Left, ad esempio. Secondo Hess (ripreso almeno in certi punti da Rothbard)…
tanta di quella proprietà [che oggi chiamano privata] è stata ottenuta col furto. Di tanta altra è dubbio il titolo. A ciò si unisce un sistema statale immorale e costrittivo che giustificava, sfruttava e traeva profitto dalla schiavitù; che è cresciuto grazie ad una politica estera aggressiva, imperialista, coloniale, che ancora oggi continua a mantenere la popolazione in una rozza relazione del tipo servo-padrone nei confronti delle concentrazioni di potere politico-economico.
E qui i libertari volgari alzano la testa e, unendosi a tanti anarco-capitalisti, berciano in difesa dell’attuale sistema (tolti gli elementi statalisti più evidenti) senza guardare la cornice violenta fatta di suprematismo bianco, patriarcato, colonialismo insediativo, imperialismo e così via (cose, badate, che possono esistere soprattutto con l’aiuto dello stato). E poiché le strutture del capitalismo attuale (oltre al lavoro salariato, le grandi proprietà private e le enormi differenze di ricchezza) non possono reggersi se non su uno sfondo di terribile violenza, ecco che il libero mercato immaginato dagli anarco-capitalisti coincide sostanzialmente con questa realtà. Insomma, si ritrovano a difendere queste mostruosità.
Long ammette che “probabilmente gli anarco-capitalisti finiranno per sostenere la natura piramidale delle attuali economie”, ma il problema è molto, molto più serio. Fu sulla base di questo ragionamento che Rothbard e Lew Rockwell concepirono l’ideologia paleoconservatrice. Un’ideologia antiquata basata sul pensiero di Rockwell, che in accordo con i conservatori dice:
la libertà politica è condizione indispensabile ma non sufficiente per una buona società. … Ma per una società libera non basta. Occorrono anche istituzioni e norme sociali che favoriscano le virtù pubbliche e proteggano l’individuo dallo stato.
Da qui una serie di enunciati, tra cui:
• VII. L’etica egalitaria è moralmente reprensibile e distruttiva della proprietà privata e dell’autorità sociale.
• VIII. L’autorità sociale, rappresentata dalla famiglia, la chiesa, la comunità e altre istituzioni intermedie, aiuta a proteggere l’individuo dallo stato ed è indispensabile ad una società libera e virtuosa.
• IX. La cultura occidentale merita più di ogni altra d’essere mantenuta e difesa.
• X. Determinate norme morali oggettive, soprattutto quelle della tradizione giudeo-cristiana, sono essenziali all’ordine sociale libero e civile.
Insomma, come dice Tom Bagwell, i paleolibertari “dando grande importanza al nazionalismo e alla chiusura delle frontiere, mantengono il loro sistema economico di scuola austriaca all’interno del loro concetto di stato nazione. Grande importanza è attribuita all’identità razziale e soprattutto culturale… perché, dicono, un’economia libertaria di destra può funzionare soltanto tra bianchi di origine europea, dunque Europa e Nord America dovrebbero restare in gran parte, o esclusivamente, [bianche] (e europee).” Una logica coloniale, razziale e sciovinista che porta Hans-Herman Hoppe a dire, estremizzando il discorso: “il libertarismo attuale può essere definito come… un insieme di teorie e teorizzatori senza psicologia e sociologia, mentre per contro gran parte, se non tutto, il pensiero dell’alterdestra può essere definito come psicologia e sociologia senza teoria”, per cui i due movimenti dovrebbero unirsi a qualche livello e combattere assieme l’egalitarismo, la giustizia sociale e altri ideali e istituzioni del marxismo culturale, per favorire una società ultraconservatrice etnocentrica basata sugli ideali eurocentrici di un ordine sociale piramidale. Una forma di pensiero molto diffusa nei pensatoi anarco-capitalisti. Leggete l’articolo di Lew Rockwell “Do White People Have A Future?” (I bianchi hanno un futuro? Ndt), dove si avverte che “le società bianche scompariranno travolte dalla barbarie crescente”. Oppure “For a New Libertarian” (Per un libertario di genere nuovo, Ndt), scritto dal presidente del Mises Institute (di cui Hoppe è socio anziano), che contiene l’esaltazione di “sangue, terra, Dio e nazione” e “famiglie illustri”. O ancora quelli del subreddit r/anarcho_capitalism che ammettono di aver abbracciato “monarchismo, conservatorismo, authcapism, capitalismo cristiano e nazionalsocialismo” perché “è inevitabile”, e perché così non devono più giocare a “fare gli anarchici”. O ancora Liberty Hangout che promuove la teocrazia cattolica e il negazionismo dell’olocausto. E se libertari di destra benintenzionati lottano per mantenere una debole finta neutralità, ex anarco-capitalisti come Stefan Molyneux e Christopher Cantwell deviano in direzione di un esplicito nazionalismo bianco. Questo è quello che succede quando si difendono le mostruose “offerte” del capitalismo e di tutti gli altri attuali sistemi oppressivi, dal suprematismo bianco al patriarcato e oltre.
Cosa significa questa conclusione per chi, come me, si definisce anarchico e libertario di sinistra? Visto che il libertarismo viene identificato come ideologia basata fondamentalmente non sull’opposizione al potere piramidale o al dominio, ma sulla minimizzazione dello stato e la massimizzazione del mercato, e pertanto è altra cosa rispetto all’anarchismo, possono esistere punti in comune in principio tra le due cose? La risposta la si può arguire se si osserva che una delle differenze caratterizzanti tra libertari di sinistra e libertari di destra o estrema destra sta nel fatto che i secondi confidano in un progressivo e liberatorio allargamento. Per allargamento, come spiega Nathan Goodman, s’intende “allargamento degli interessi libertari , oltre la violenza pura e il potere statale, per capire quali condizioni culturali e sociali portano alla libertà.” Molti libertari di destra, come Walter Block, evitano la questione dichiarando una finta neutralità, o “ristrettezza”, cosa che libertari di estrema destra come i succitati Rockwell e Hoppe sfruttano per introdurre il loro ordine sociale reazionario. Ciò porta i libertari di destra a sostenere non solo uno stato limitato a zero, la sovranità individuale e un mercato libero assoluto, ma anche, come gli anarco-individualisti ottocenteschi, valori e ideologie del genere delineato da Johnson, come “femminismo, antirazzismo, diritti dei gay, controcultura, sindacati, mutuo soccorso e ambientalismo.”
Che non sono semplici valori personali inseriti in un quadro anarco-capitalista ma piuttosto valori che implicano una loro applicazione di principio e che ad essa sono indispensabili. Johnson dice, ad esempio, che “rifiutare queste idee, prassi e progetti è logicamente compatibile con il libertarismo [ma] il loro successo potrebbe essere importante o anche diventare una causa necessaria se si vuole che il libertarismo sia credibile nell’attuale società statalizzata, o se si vuole che una futura società libera emerga dall’ideologia dello stato senza povertà diffusa o conflitti sociali, o ancora se si vuole che una futura società libera sopravviva all’aggressione di vicini stati, o dalla minaccia di una guerra civile o di un collasso che la riporti alla condizione statuale.” Johnson sostiene in particolare l’esigenza di combattere la disuguaglianza “con misure volontaristiche contro la povertà” perché “[a]nche una società assolutamente libera, se una piccola classe di magnati possiede la stragrande maggioranza della ricchezza mentre la stragrande maggioranza della popolazione non ha quasi nulla, non ha probabilità di vivere a lungo.” Oppure prendiamo Cathy Reisenwitz, secondo la quale i libertari dovrebbero adottare il pensiero femminista pro-sessuale perché “vuole distruggere quei condizionamenti che impediscono alle persone di godere le gioie del sesso, o dell’astinenza dal sesso, o di qualunque via di mezzo”. “Il libertarismo,” spiega, “dovrebbe lottare per distruggere quei condizionamenti che impediscono alle persone di sfruttare pienamente qualunque forma di pacifico scambio spontaneo. È così che si può cominciare a creare un mondo in cui lo scambio spontaneo possa diffondersi pacificamente.” I libertari di sinistra, spiega Carson, cercano di “dimostrare l’importanza e l’utilità dell’ideologia del libero mercato al fine di rispondere alle questioni sollevate dall’attuale sinistra”, come il razzismo, le diseguaglianze di censo, il latifondismo, e insomma il capitalismo nella sua interezza. Basta rileggere i punti citati della Morgenstern riguardo l’impossibilità dell’accumulazione di ricchezza e del lavoro salariato in un vero libero mercato, o le tesi di Carson per il quale “un libero mercato concorrenziale non porterebbe a una società come quella immaginata dagli anarco-capitalisti, ovvero un mondo di proprietà dei fratelli Koch e della Halliburton, ma a qualcosa di simile alla società di tipo comunista immaginata da Marx.” Il libertarismo di sinistra, insomma, portato alle sue estreme conseguenze, con l’abolizione assoluta dello stato e l’espansione totale del mercato liber(at)o, non risponderebbe solo ai criteri del libertarismo radicale, ma anche ai criteri antidominio e anti ordinamento gerarchico dell’anarchismo. Questo significa che gli anarco-libertari di sinistra rientrano tra gli anarchici (anche prendendo qualcosa da pensatori anarco-capitalisti come David Friedman, Rothbard e altri in quanto libertari radicali), senza però includere nel cono d’ombra ideologico anche gli anarco-capitalisti.
Note
1. Secondo la Stanford Encyclopedia of Philosophy, “per quanto non tutti gli studiosi concordino sul significato del termine, il ‘neoliberalismo’ attualmente indica in generale una corrente filosofica secondo cui le istituzioni politiche ed economiche di una società devono essere fortemente liberali e capitaliste, ma al tempo stesso sostenute da una democrazia costituzionale limitata e un modesto stato assistenziale.” In realtà, spiega Carson, “al cuore della cosiddetta ‘riforma del libero mercato’ neoliberale c’è un modello strutturale che pompa le funzioni dello stato verso il capitale privato, a spese del pubblico e con il profitto garantito per il privato, il tutto in una rete di monopoli imposti e protetti legalmente dallo stato.” Non parliamo, poi, dell’assistenza sociale statunitense, usata come una sorta di regolatore sociale che, come notano Frances Fox Piven e Richard A. Cloward, si espande in tempi di disordini sociali e si contrae quando il pericolo è passato. Tutto ciò, a sua volte, rientra in un programma coerente che prevede l’imposizione degli interessi degli Stati Uniti sul resto del mondo tramite l’imperialismo, il neocolonialiamo e la globalizzazione economica che, come spiega bene Carson, sono il prodotto dell’intervento dello stato.
2. La citazione è presa dall’articolo di Roderick Long su libertarismo e anarchismo.
3. Non è chiara la fonte di questa citazione, che però ricorre spesso.
4. Vedi Brown, The Free Market as Salvation from Government: The Anarcho-Capitalist View, in Meanings of the Market in Western Culture.