Recensione di: Angela Davis, Are Prisons Obsolete?, Seven Stories Press, 2003.
È arrivato il momento di eliminare il sistema carcerario in America e nel resto del mondo? L’attivista, studiosa, icona dei diritti civili Angela Davis nel suo libro del 2003 risponde chiaramente Sì.
La Davis è meglio conosciuta per il suo impegno a favore dei diritti civili e a fianco ai movimenti dei neri degli anni sessanta e settanta, l’adesione al Black Panther Party e la posizione ai vertici del Communist Party USA con il quale si candidò alla presidenza negli anni ottanta.
Ha anche una carriera accademica di tutto rispetto. Divenne famosa a livello nazionale quando il governatore della California Ronald Reagan cercò di vietarle l’insegnamento nelle università californiane. Fu inoltre processata e assolta quando alcune armi registrate a nome suo furono usate nel 1970 per l’assalto ad un tribunale in cui morirono quattro persone.
Negli ultimi decenni ha concentrato gli sforzi sulla lotta al sistema carcerario. È cofondatrice di Critical Resistance, un’organizzazione che si batte per lo smantellamento del Complesso Industriale Carcerario, termine la cui diffusione è attribuita all’organizzazione stessa. Dalla sua attività anticarceraria nasce questo breve libro, che nonostante le sue 130 pagine, note comprese, fornisce molte informazioni su questo argomento oscuro. Il libro dovrebbe interessare i libertari, soprattutto quelli di sinistra, oltre all’ampia gamma di anarchici, liberal antisistema, riformatori del mercato della droga e del sesso e tutti quelli che non sopportano l’attuale regime di incarcerazione di massa.
Il librò piacerà a chi cerca una critica e una storia del sistema carcerario americano. Chi cerca alternative allo status quo, invece, rimarrà un po’ deluso. L’argomento è trattato di passaggio tranne nell’ultimo capitolo, ma anche qui la trattazione non è esaustiva quanto la critica del sistema esistente e passato.
La Davis introduce l’argomento associandolo al contesto dell’epoca illuminista alla base della Rivoluzione Americana. Fa notare come le prigioni siano state introdotte come alternativa più umana e meno erratica alla pena corporale (tortura) e alla morte, che prima rappresentavano la norma.
Al contrario dell’arbitrarietà delle pene corporali, il carcere creava una pena quantificabile in anni. L’autrice fa notare come l’affermazione del carcere come pena coincide con l’affermazione del lavoro dipendente, ugualmente quantificato temporalmente. I primi sostenitori del carcere erano spesso religiosi. Non è un caso, quindi, se le prigioni ricordano i monasteri, con le “celle” e l’accento sulla disciplina, il lavoro e la riflessione.
La Davis paragona il desiderio di incarcerare al desiderio dei riformatori puritani di disciplinare la classe lavoratrice. Qualcuno sostiene, nota l’autrice, che il termine “penitenziario” abbia le sue origini nel progetto britannico di ospitare le “prostitute penitenti” in queste strutture. La Davis cita anche l’operato di uno dei primi riformatori protestanti, John Howard, che cercò di imporre ai detenuti l’autoriflessione e l’autoriforma religiosa. In questo regime, il confinamento era considerato non una tortura ma l’emancipazione dell’anima. A quei tempi, questi regimi di confinamento e irreggimentazione erano giustificati come sistemi di riabilitazione dei detenuti.
Allo stesso modo si giustificavano i lavori forzati. Il modo in cui la Davis tratta l’argomento fa pensare al concetto di “sussidio della storia” di Kevin Carson, ed è un buon esempio di alcune delle maniere sottili con cui l’intervento dello stato ha dato forma al mondo moderno. Parla in particolare dei forzati, soprattutto neri, che costruirono le infrastrutture urbane e industriali delle principali città del sud. Come esempio illustre cita la strada principale di Atlanta, Peachtree Street.
In gran parte del sud, i forzati neri sostituirono la schiavitù. Leggi razziste furono approvate con l’intento di alimentare il sistema. C’erano leggi riguardanti i neri che criminalizzavano atti come “il vagabondaggio, l’assenza dal lavoro, il mancato rispetto del contratto di lavoro, il possesso di armi da fuoco, i gesti e le azioni ingiuriose” quando ad essere accusato era un nero. La Davis nota come il tredicesimo emendamento abrogò la schiavitù tranne quando serve a punire un crimine. Questo alimentò tutto un commercio di detenuti, grazie al quale gli ex schiavisti potevano affittare manodopera dalle carceri. Questa manodopera poteva essere sfruttata fino alla morte senza dover pagare le spese che il padrone di schiavi pagava quando moriva un suo schiavo. I forzati potevano essere commerciati in gruppi e le donne usate per fini sessuali.
Se il sistema carcerario fu creato con in mente gli uomini, spesso furono le donne a soffrire gli abusi peggiori. La Davis dedica alle loro sofferenze un intero capitolo. Nota come le donne rappresentino la popolazione carceraria che cresce più rapidamente, soprattutto nelle strutture psichiatriche. Se la devianza maschile è considerata un crimine, quella femminile è considerata una malattia mentale. Da qui la maggiore incidenza di trattamenti farmacologici tra le donne in carcere.
Storicamente, aggiunge la Davis, le donne subiscono pene più lunghe degli uomini per crimini simili. A causa di convinzioni sessiste e religiose, le “peccatrici” erano considerate persone particolari incapaci di riabilitarsi. L’autrice lega le punizioni corporali che lo stato somministrava in passato all’ubiquità della violenza domestica contro le donne, e si sofferma in particolare sugli abusi a cui sono normalmente sottoposte, come le ispezioni corporee, che nel migliore dei casi sono una malcelata violenza sessuale.
La Davis poi volge lo sguardo verso gli orrori carcerari degli ultimi decenni. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nota, le sperimentazioni sui detenuti si sono moltiplicate, contribuendo così alla crescita della moderna industria farmaceutica. Johnson and Johnson, Ortho Pharmaceutical e Dow Chemicals furono tra i principali sfruttatori di questi esperimenti carcerari. La Davis rimanda i lettori a “Acres of Skin: Human Experiments at Holmesburg”, di Allen Hornblum, che documenta la carriera di uno di questi sperimentatori e delle sue vittime.
Cita poi il fatto che nei trent’anni precedenti la pubblicazione del libro la popolazione carceraria americana è decuplicata. Per gran parte del decennio precedente, nonostante il calo i media quadruplicarono lo spazio dedicato al crimine. Questo dà l’illusione di una società molto più violenta di quanto non sia in realtà.
La complicità dei media l’attribuisce al fatto che l’incarcerazione di massa genera miliardi che vanno alle società dell’industria carceraria, tra cui inserzionisti come Archer Daniel Midlands, Nestle Food Service, Ace Hardware, Polaroid, Hewlett-Packard, RJ Reynolds, Sprint, AT&T, Verizon, Ameritech, Famous Amos cookies, Dial Soap e VitaPro Foods.
La Davis non crede all’idea di una singola alternativa al carcere, ma pensa che, tra le altre cose, la demilitarizzazione delle scuole e la depenalizzazione delle droghe, del lavoro sessuale e dell’immigrazione clandestina ridurrebbero la necessità del carcere. Le implicazioni libertarie di questa proposta sono evidenti. Lo stesso si può dire della sua proposta di sostituire il codice penale con quello civile: la giustizia dovrebbe puntare sul risarcimento piuttosto che sulla punizione.
Anche se non tutte le proposte sono esplicitamente libertarie, la maggior parte può essere interpretata come tale. Ci sono venature chiaramente antiautoritarie. Vede il movimento anticarcerario come “antirazzista, anticapitalista, antisessista e antiomofobo”. Ma dimentica antistato. Il difetto più grosso del libro è il fatto che non esplori le alternative al carcere più in dettaglio. Per il resto, è un libro eccellente e Angela Davis resta una figura intrigante.