Il decreto sul razionamento dell’acqua che il governatore della California Jerry Brown ha approvato il primo aprile (Executive Order B-29-15) ha ricevuto molti elogi immeritati dagli ambienti di centrosinistra. A leggere bene la proposta, si capisce che non riduce i consumi del 25%, anche se questa è l’impressione che se ne ricava leggendo i titoli. Perché il provvedimento si applica solo “all’acqua potabile per usi urbani” distribuita dall’acquedotto municipale.
Le autorità dell’acquedotto hanno acquisito il potere di imporre regole, come l’irrigazione a goccia per prati e giardini nelle nuove case, e di modificare le tariffe orarie in modo da incoraggiare il risparmio.
Assente di spicco dall’ordinanza è una qualunque misura, che si tratti di un limite al consumo o un aumento delle tariffe, che colpisca le aziende agricole californiane destinatarie di grosse agevolazioni di stato. Quando si pensa che l’agroindustria assorbe circa l’80% dell’acqua consumata in California, un taglio del 25% nel consumo urbano appare un cerotto.
Secondo Mother Jones (“California’s Almonds Suck As Much Water Annually As Los Angeles Uses in Three Years,” 12 gennaio), la coltivazione incentivata delle mandorle consuma tre volte l’acqua consumata da San Francisco e Los Angeles messe assieme. Le coltivazioni di pistacchio da esportazione consumano più del doppio dell’acqua consumata da San Francisco. E le coltivazioni di noci, anche queste da esportazione, consumano più acqua di tutta Los Angeles.
In questi ultimi dieci anni, la California ha raddoppiato la produzione di noci, in un’area che sarebbe praticamente desertica se confidasse solo sulla pioggia. Le coltivazioni hanno potuto crescere e consumare acqua a livelli insostenibili grazie all’acqua che viene dalle montagne, e ad un prezzo tenuto artificialmente basso dagli aiuti e dalle opere pagate dallo stato (come quelle dighe gigantesche davanti alle quali si fa riprendere Rachel Maddow, della MSNBC, quando parla delle “grandi cose” fatte dallo stato). In aggiunta al disastro ecologico creato dai laghi artificiali e dai fiumi deviati, l’industria agricola consuma acqua oltre le capacità rigenerative. Correttamente parlando, quest’acqua è proprietà di tutti gli abitanti della zona. I colossi agricoli californiani si stanno appropriando di quel bene comune che è l’acqua, stanno prosciugando le falde acquifere a spese delle generazioni future.
La California, poi, è un esempio da manuale della cosiddetta “Green Revolution”, falsamente propagandata come la soluzione alla “fame nel mondo”. È un modo di fare agricoltura particolarmente adatto a chi opera su terreni rubati (molte delle principali tenute agricole erano in origine haciendas messicane, che a loro volta erano di proprietà di una oligarchia terriera neofeudale) e dipende pesantemente dagli aiuti pubblici.
Gli abitanti delle città pagano tariffe più alte e subiscono il razionamento per far andare avanti questo saccheggio a livelli industriali. Tanto per aggiungere offesa all’ingiuria, il razionamento si applica anche agli orti di casa che, potete scommetterci, usano l’acqua in modo molto più efficiente delle grandi aziende. E per di più riducono la dipendenza dalla grande produzione agricola. Conflitti di interesse?
Certo, questo non significa che le tariffe per uso urbano non sono artificialmente basse, o che lo spreco non sia incentivato. Ma dovrebbe essere l’efficienza insita nel prezzo di mercato a contenere il consumo a livelli sostenibili. E questo dovrebbe valere ovunque, non solo per quel 20% di acqua consumata nelle città. Una politica dei prezzi efficace non dovrebbe essere solo una misura temporanea, attuata dallo stato unicamente per spostare l’assistenzialismo verso i potenti interessi aziendali.
Quando lo stato pretende di regolare l’uso dei beni comuni, finisce inevitabilmente per trattarli come proprietà privata di quegli interessi economici che controllano lo stato stesso. Sarebbe ora che tutti capissero che l’acqua è una risorsa naturale che appartiene a tutti, non allo stato, e che dovrebbe essere chi se ne serve a regolarne l’uso.