Kevin Carson. Originale: Same Shit, Different Labor Day, del 13 settembre 2021. Traduzione di Enrico Sanna.
I libertari di destra apologeti del capitalismo usano le festività come pretesto per promuovere le loro teorie. Ogni anno per la Festa del Ringraziamento Reason riesuma l’antistorica bufala di John Stossel sui padri pellegrini, prima costretti alla fame dal comunismo e poi salvati dalla proprietà privata (sebbene io sfati la storia ogni anno). A Natale arriva l’apologia di Ebenezer Scrooge, la cui parsimonia gli avrebbe permesso di accumulare quel capitale che arricchisce tutti noi.
Ora è il turno della Festa dei lavoratori, presa a pretesto per dire che la giornata di otto ore e il fine settimana festivo non sono merito dei sindacati. Vedi questo intervento pubblicato su Facebook dal Free State Project:
In occasione di questo primo maggio festeggiamo la settimana lavorativa di cinque giorni, la fine dello sfruttamento dei bambini, la sicurezza sul lavoro e gli alti salari.
Tutto grazie al capitalismo di libero mercato.
Thomas Woods dice sostanzialmente la stessa cosa in un articolo più lungo dal titolo “Labor unions didn’t bring you this or any other weekend.” Comincia così:
Se la società non diventa prima abbastanza ricca, nessun sindacato può darle una settimana lavorativa di cinque giorni.
Se qualcuno avesse chiesto una settimana lavorativa più breve in un’economia primitiva come quella di tre secoli fa, l’avrebbero preso per pazzo.
Ancora nessuno ha capito quale percorso seguano i ragionamenti di Woods per entrare in contatto con la realtà dei fatti. Tre secoli fa, perlomeno in Inghilterra, una settimana più corta esisteva. Woods dovrebbe cercare “Saint Monday” su Google (vedi qui). Oppure basta pensare al fatto che numerose festività religiose furono soppresse dalla borghesia puritana nel nome dell’etica del lavoro protestante. Allora erano possidenti e datori di lavoro a contestare il diritto dei lavoratori di avere più di due giornate libere la settimana, e che facevano pressioni per allungare la settimana lavorativa (per “fare pressioni” intendo imporre con la forza).
Lungi dai miti immaginati da Woods – per il quale fu possibile accorciare l’orario di lavoro solo quando i capitalisti ebbero accumulato capitale sufficiente ad accrescere la produttività ad un livello tale da produrre in meno tempo quanto bastava per vivere –, nella realtà erano i capitalisti ad obbligare i lavoratori ad orari più lunghi negando loro l’accesso ai mezzi di sussistenza.
La verità è l’opposto di quello che dice Woods. La settimana di sei giorni e i salari bassi non erano una realtà naturale mutato dal capitalismo. Sono una realtà creata dal capitalismo. Il capitalismo nasce dall’appropriazione dei beni comuni, detta anche enclosure, effettuata dai datori di lavoro in combinazione con lo stato. Capitalismo e sistema salariale furono imposti separando con la forza i lavoratori dai loro mezzi di produzione.
Detto chiaramente, l’obiettivo di possidenti e datori era di levare ai contadini l’accesso indipendente ai mezzi di sussistenza per costringerli a lavorare più ore con una paga più bassa. L’obiettivo dichiarato – e dichiarato molto apertamente – era di abbassare i salari a un livello tale da far sì che i lavoratori per vivere fossero costretti a lavorare sei giorni invece di quattro.
Ai tempi delle enclosure parlamentari, nell’Inghilterra tra la metà del diciottesimo e gli inizi del diciannovesimo secolo, la stampa traboccava di commenti che difendevano le enclosure perché ottenevano l’effetto di far lavorare di più le classi inferiori. Un trattato del 1770 intitolato “Essay on Trade and Commerce” (Saggio sul commercio e gli affari, ndt) sosteneva che “i lavoratori non dovrebbero mai ritenersi indipendenti dai loro superiori… La cura non sarà completa finché i lavoratori non accetteranno di lavorare sei giorni per la stessa paga che ora guadagnano in quattro.”
Facciamolo ripetere al signor Woods: “finché i poveri operai non accetteranno di lavorare sei giorni per la stessa paga che oggi guadagnano in quattro.” Più chiaro di così, Tom!
Mr. Bishton, nel suo Resoconto sullo Shropshire del 1794, era altrettanto sincero riguardo i fini delle enclosure. “Lasciata ai lavoratori, la terra comune produce una sorta di senso d’indipendenza.” Le enclosure servono a far sì che “i lavoratori lavorino ogni giorno dell’anno e i loro figli comincino a lavorare presto, … così da assicurare quella imprescindibile subordinazione dei ranghi inferiori della società.”
In fatto di enclosure, non è la prima volta che Woods dà spettacolo con le sue ridicole teorie antistoriche.
In passato ha contestato le tesi di studiosi radicali delle enclosure perché basate su studi antiquati come quelli di J.L. e Barbara Hammond e perché ignorano gli studi nuovi e aggiornati di G.E. Mingay, mentre lui stesso ignora gli studi di J.N. Neeson, che con le teorie di Mingay ci fa la carta igienica.
Woods continua così:
Con poco capitale e producendo a mano gran parte dei beni, occorre lavorare duro e a lungo anche solo per campare.
Per questo in passato si lavorava molto e in condizioni terribili (ed è così ancora oggi nel Terzo Mondo). Non perché c’erano omuncoli col monocolo e i baffi bianchi che si divertivano ad opprimerli.
A proposito del Terzo Mondo: La Gran Bretagna e altre potenze imperiali ripeterono nelle colonie lo stesso procedimento impiegato con le enclosure, dalle haciendas dell’America spagnola all’Insediamento Permanente in Bengala, dalle piantagioni di canna da zucchero nei Caraibi agli insediamenti nelle alture dell’Africa Orientale e a quelli dei boeri nell’Africa meridionale. Ed era pratica comune delle potenze coloniali imporre forti tasse pagabili solo in moneta, così da costringere anche i contadini che gestivano le proprie terre ad adottare il sistema salariale. Ignoro la diffusione dei baffi bianchi e del monocolo tra le autorità coloniali, se la cosa può far piacere a Woods.
Chiedete a chi viene sfruttato in fabbrica se preferirebbe avere (1) condizioni migliori (meno ore lavorative) e (2) paga ridotta, e ti dirà di no.
Ho già detto che questa è una falsa dicotomia. Erano i datori a porre i lavoratori davanti alla scelta tra un orario lungo e la fame. Provate ad offrire ai lavoratori migliori condizioni di lavoro, meno ore e una paga più alta e vedete cosa rispondono.
Woods ironizza: “Dunque ai paesi del Terzo Mondo per uscire dalla povertà e lavorare meno servirebbe… qualche sindacato?” Lui scherza ma la risposta, in tutta serietà, è sì.
I lavoratori del Terzo Mondo già oggi producono beni in quantità enorme. Il problema è che ad avere diritto al ricavato sono altri. Una quota preponderante del prezzo di ciò che si produce nei sudorifici del Terzo Mondo è data non dalle materie prime più il lavoro, ma dalle rendite monopolistiche implicite nei brevetti e nei marchi commerciali. Pertanto è vero che per uscire dalla povertà e avere più tempo libero il Terzo Mondo dovrebbe: 1) abolire tutti i trattati sulla proprietà intellettuale che impediscono loro di usare le stesse fabbriche per continuare a produrre gli stessi beni per il mercato interno, ad una frazione del prezzo attuale, e 2) formare unioni sindacali forti che impediscano che il valore del prodotto venga espropriato da proprietari assenteisti. Insomma, occorre mandare a quel paese tutti quegli omuncoli coi baffi bianchi e il monocolo.
Woods cita anche la solita tiritera della destra libertaria, secondo cui l’accumulazione di capitale genera crescita della produttività: “Rispetto a prima, la produttività dei lavoratori è immensamente più alta, e grazie all’aiuto delle macchine la produzione fisica è migliorata eormemente sia in quantità che in qualità.”
Stranamente non lo dice (forse è stato distratto dalla questione iniziale del fine settimana di tre giorni), ma implicito nel ragionamento è che il merito di quell’accumulazione è dei ricchi. Questo è un argomento fisso dei libertari di destra (ad esempio, Jacob Hornberger): se si vogliono migliorare salari e orari di lavoro, il modo migliore consiste nel lasciare che i ricchi accumulino ricchezze all’infinito.
Il fatto però è che queste ricchezze vengono dal surplus creato dai lavoratori.
Qualcuno dirà “ma studiati prima l’economia”, ma lasciatemi dire che conosco benissimo tutte quelle giustificazioni capitalistiche che puntano a sfatare la teoria dello sfruttamento, dalla ottocentesca teoria dei “fondi salari” alla “frugalità” di Nassau Senior, dalla “preferenza temporale” di Böhm-Bawerk alla “produttività marginale” di Clark. Tutte sciocchezze. La teoria della produttività marginale serve più che altro a nascondere le relazioni di potere dietro l’illusione di una “neutrale” legge della distribuzione. Lo stesso Böhm-Bawerk ammette che la curva delle preferenze temporali è inversamente proporzionale alla ricchezza e alla sicurezza, e dunque la teoria è sostanzialmente una giustificazione circolare della tendenza dei ricchi ad avere ancora di più.
L’effetto principale delle succitate enclosure – ma anche delle leggi che regolavano le associazioni, gli accordi e molto altro – fu una riduzione del potere contrattuale dei lavoratori e un incremento della quota di surplus estratto. In realtà, tutto quel reddito che il capitalista si “asteneva” dal consumare e che veniva reinvestito veniva dai lavoratori.
Ad essere realistici, tutti gli impianti, le macchine e i beni capitali delle fabbriche superproduttive sono il prodotto dell’operato dei lavoratori in carne ed ossa sulle risorse naturali. La realtà non parla di capitalisti che anticipano i mezzi di sussistenza ai lavoratori durante il processo di produzione, ma di lavoratori che si anticipano tali mezzi reciprocamente. Come spiegato da Thomas Hodgskin:
Tra chi produce alimentari e chi produce vestiario, tra chi fa gli strumenti e chi li usa si intromette il capitalista, che non produce e non usa niente di tutto ciò ma si appropria di quello che viene prodotto dagli altri. Dopodiché, con mano il più possibile avara, trasferisce agli uni quello che viene prodotto dagli altri, tenendo il grosso per sé. Piano piano egli si insinua tra di loro, cresce e si nutre sempre più del loro lavoro produttivo, li divide al punto che nessuna delle parti capisce da dove viene ciò che riceve per mano del capitalista. Il capitalista impedisce alle parti di entrare in contatto, le corrompe al punto che ognuna crede di dovere i propri mezzi di sussistenza al capitalista. È colui che media tra tutti i lavoratori; e se confrontiamo ciò che produce un lavoratore qualificato inglese con ciò che produce un contadino analfabeta irlandese, vediamo che quanto a pretese l’intermediario inglese non è da meno di quello irlandese. I primi però appaiono più fortunati, perché se gli intermediari irlandesi sono bollati come oppressori, gli altri sono onorati come benefattori. Non solo son riusciti ad appropriarsi di quello che producono i lavoratori, ma riescono anche a farsi onorare come benefattori.
In altre parole, il ruolo apparente del capitalista che anticipa alimenti, vestiario e alloggio ai lavoratori consiste nel produrre note di credito, risultato del sistema creditizio capitalista, con cui acquisisce il diritto di distribuire il prodotto del lavoro delle varie categorie di lavoratori. Lo stesso processo potrebbe essere gestito direttamente dai lavoratori sotto forma di flussi orizzontali in un sistema creditizio cooperativo.
Aggiungiamo poi che la relazione tra accumulazione e produzione non è così diretta o lineare come fa capire Woods. Nell’ambito della produzione di massa novecentesca, questa relazione era spessissimo rovesciata: invece di investire in capitali fisici per aumentare la produttività, l’industria ricorreva spesso a forme di produzione fortemente inefficienti al fine di assorbire il capitale in eccesso.
La maggiore efficienza dei sistemi produttivi durante la seconda rivoluzione industriale, caratterizzata dall’utilizzo dell’energia elettrica nelle manifatture, avrebbe dovuto condurre ad una produzione industriale locale con macchine elettriche multiuso e una produzione flessibile in accordo con le richieste del mercato.
Fu invece l’alleanza tra capitale e stato a far pendere l’ago della bilancia a favore della produzione di massa, con l’utilizzo di costosissimi macchinari ad uso specifico per produzioni di serie. Dati i forti costi generali di questo modo produttivo ad alta intensità di capitale, le macchine dovevano essere mantenute al massimo della capacità per contenere i costi di produzione. Da qui la necessità di organizzare l’intera società attorno alla necessità di garantire il pieno assorbimento della produzione e il funzionamento continuo degli impianti. Così che le “efficienze” prodotte dalle “economie di scala” finirono per essere ampiamente controbilanciate dai costi d’immagazzinaggio delle merci in attesa di ordinazioni, aggressive forme di marketing e distribuzione, obsolescenza programmata e sprechi del complesso industrial-militare. E data la necessità di fornire nuovi sbocchi per i capitali eccedenti, vediamo nascere sprechi enormi sotto forma di crescita suburbana e un’urbanistica incentrata sull’auto. Tutta la società divenne una macchina di Rube Goldberg che ruotava attorno alla necessità di produrre merci inutili al fine di garantire il pieno utilizzo della capacità produttiva ed evitare la depressione.
Come sarebbe la settimana lavorativa senza tutto questo spreco incentivato, senza quelle irrazionalità che sono il risultato diretto di quella benedetta accumulazione capitalista tanto amata dai sostenitori della scuola austriaca?
E poi la presunta relazione tra produttività e alti salari o orari più brevi. Il problema qui è che dagli anni Settanta i salari hanno smesso di crescere con la produttività. Se salari e produttività fossero andati di pari passo, oggi il salario sarebbe a 24 dollari l’ora (non parliamo poi di un eventuale ancoraggio alla paga degli amministratori delegati). Tutta la crescita della produttività è invece andata ad arricchire capitalisti, boss e proprietari dei mezzi di produzione. Quello che Woods dice sulla correlazione tra produttività e salari è due volte idiota.
La rubrica di Woods è rappresentativa di ciò che pubblicano il Mises Institute e Lew Rockwell. Articoli autoreferenziali senza alcuna relazione evidente con la storia o la realtà dei fatti. So che Woods, da esponente della scuola austriaca, deve credere in assiomi a priori. Ma a quanto pare, crede anche in una realtà a priori.
Ma perché continua ossessivamente a falsificare la realtà storica? Non ho gli strumenti per entrare nella sua testa ma, guarda caso, mentre scrivevo questo commento mi è capitato di leggere questa citazione di David Graeber: “…una delle ragioni per cui mi spendo tanto a riscrivere il passato è perché sono convinto che il modo in cui ci viene illustrato attualmente serve a rendere pressoché impossibile immaginare un futuro praticabile.” Ovvero, citando qualcun altro: “Chi controlla il passato controlla il futuro.”