Di Kevin Carson. Originale pubblicato l’undici settembre 2019 con il titolo “Under Capitalism”? Traduzione di Enrico Sanna.
Con due recenti articoli di altrettanti autori di C4SS, Frank Miroslav e Black Cat sostenevano, il primo, che dire “non c’è consumo etico nel capitalismo” è qualcosa che “spegne la mente”, mentre il secondo ribatteva che non esiste alcun “Vero Consumo Etico (Individuale) nel Capitalismo”.
Io lo interpreto come un disaccordo perlopiù semantico, molto dipende da cosa si intende quando si dice “nel capitalismo” o, meglio, “sotto il capitalismo”.
L’articolo di Black Cat è una sorta di risposta all’articolo di Miroslav. E a dire il vero alcuni passaggi di quest’ultimo, isolati, potrebbero far intendere che le scelte consumistiche individuali possono essere molto importanti. Black Cat ne cita uno:
Chi crede che la scelta dei consumatori non ha importanza deve ammettere che non c’è differenza tra frequentare un bar di fascisti e uno di sinistra (se ipoteticamente il resto è invariato). O che anche solo incentivare l’hardware open-source è una follia.
Black Cat rifiuta questo apparente appoggio del “consumismo etico” con un ragionamento che ricorda quello di Hilaire Belloc contro la nazionalizzazione delle industrie.
Belloc inizia The Servile State dicendo che nazionalizzare significa riconoscere il diritto legale dei capitalisti ai mezzi di produzione, e quindi questi potrebbero vantare il diritto ad un risarcimento al valore di mercato. Il risultato è che così il capitale continuerebbe a trarre benefici dalle industrie nazionalizzate come se queste fossero di sua proprietà e sotto il suo controllo. Così lo stato si ritroverebbe a 1) pagare un risarcimento continuato, presumibilmente con gli interessi, oppure 2) pagare un risarcimento una tantum sotto forma di obbligazioni al tasso di mercato. In un caso e nell’altro, una grossa fetta della classe capitalista manterrebbe di fatto il diritto di proprietà sulla produzione della fabbrica, che verrebbe gestita dallo stato per conto di una proprietà rentier assenteista, la quale incasserebbe un guadagno comparabile a quello che avrebbe con la proprietà diretta.
Con un ragionamento simile, Black Cat dice che, finché non si risolve il problema strutturale rappresentato dal capitalismo, qualunque tentativo di consumo etico avrà sempre luogo in un mercato truccato, e in un modo o nell’altro i benefici andranno sempre al capitale.
Benex costa due dollari in più, ma è prodotto più eticamente rispetto a Malex. Benex pubblicizza il fatto, e una breve ricerca conferma che è tutto vero. Tolto il prezzo e l’aspetto etico, i due prodotti sono uguali. Comprare Benex ti fa sentire giusto (certo meglio dei sociopatici che preferiscono Malex!), per questo valuti il prodotto più di quei due dollari in più che paghi.
…Ma è possibile che l’immoralità produttiva del produttore di Malex gli permetta di produrre a basso costo; sennò a cosa servirebbe impiegare tecniche immorali? Magari sfrutta a morte dei bambini in una miniera di uranio abbandonata (o qualcosa del genere) così da poter sopportare un certo calo dei prezzi.
E se il prezzo di Malex scende e/o quello di Benex sale abbastanza, qualcuno comincerà a comprare più Malex e meno Benex. Una persona di sani principi etici potrebbe essere disposta a spendere due dollari in più, ma non è detto che sia disposta a spenderne dieci, venti o più.
Questo è un male. Le scelte individuali in fatto di consumi, per quanto benintenzionate, non bastano a mettere fuori mercato il Malex. Non solo, ma è come se ci fosse una “tassa” (metaforica) sull’etica, a prescindere dalla differenza di costo tra i due prodotti.
Questa “economia etica”, operando secondo le regole imposte dal capitale, si ritroverà sempre ad operare in svantaggio. Come il contribuente di Belloc, il “consumatore etico” non fa altro che tassare il proprio magro reddito per pagare un “sovrapprezzo etico”. “Consumo etico” diventa quindi l’ennesimo bene elitario riservato ad un mercato di ricchi consumatori. Finché resteranno le basi della rendita capitalista, il capitale vincerà sempre, in un modo o nell’altro.
Pertanto, aggiunge Black Cat, occorre un’azione collettiva.
I mercati riflettono le istituzioni in cui esistono: “lo stato” e la “proprietà privata”. Se si vuole colpire un’azienda o un certo prodotto, è meglio ricorrere a qualche sorta di azione collettiva: aiutare le unioni di lavoratori o le cooperative, organizzare e pubblicizzare boicottaggi di massa più che agire personalmente, sabotare la loro maledetta macchina, fare donazioni a chi lotta contro la schiavitù e così via. Il mercato è grande e per cambiarlo occorre combinare l’azione dei tanti.
Fin qui sono d’accordo. Il problema è che, a ben vedere, anche Miroslav è favorevole a un’azione collettiva. Dice chiaramente che la sua idea non dev’essere confusa con il “consumo etico” dei liberal, e denuncia l’assurdità di chi vuole riformare il capitalismo facendo leva unicamente su scelte consumistiche “buoniste”.
L’approccio consigliato si basa su una “analisi strategica”, il che significa “sfidare il sistema così com’è, trovarne i punti deboli e agire su questi.” Questo, in termini concreti, significa non agire a colpo singolo ma optare per una “pianificazione economica di lungo termine”:
Anche il marxista più volgare, che crede in una rottura rivoluzionaria totale tra il nostro sistema e quello che verrà, ammette che l’edificazione di un mondo migliore è un progetto che richiede decenni, come minimo. Certo, come spendiamo i nostri soldi oggi può fare poca differenza, ma cosa bisogna cambiare per far sì che sia altrimenti? Il nostro non è un mondo di semplici processi lineari che operano uno sull’altro, ma di una moltitudine di sistemi ipercomplessi con tutta una serie di intrecci e retroazioni reciproche. Anche solo per ragioni strumentali, varrebbe la pena studiare l’economia semplicemente per capire come funziona la macchina e pensare come fare per sfruttarla.
Credo che questo riecheggi la distinzione di André Gorz tra ciò che viene solitamente liquidato come “riformismo” e quelle che lui chiama “riforme non riformiste”. La distinzione dipende dal contesto. L’impostazione più adeguata consiste nel vedere la nostra azione strategica sullo sfondo di un sistema capitalistico che ha un inizio e una fine, valutando la proposta di contro-istituzioni sulla base del loro ruolo funzionale all’interno di un sistema moribondo e sulla base del contributo che possono dare ad una transizione verso un mondo post-capitalista.
Il cuore della nostra strategia dovrebbe essere, non scegliere da chi fare acquisti nell’attuale sistema capitalistico, ma affamare quest’ultimo negandogli il più possibile il nostro supporto in termini di lavoro e consumo, e contemporaneamente edificare il nucleo attorno al quale cristallizzare una nuova società.
Molto importante ai fini di questa strategia è quello che il marxista autonomista Toni Negri chiama l’“esodo”, e altrettanto importante è la proposta di Massimo de Angelis di ampliare il circolo dei beni comuni a spese del circolo del capitale, con l’obiettivo di superare quest’ultimo.
In Commonwealth, Negri assieme al coautore Michael Hardt spiega come la società in generale, le relazioni, l’intelletto sociale, stiano diventando la fonte principale di valore aggiunto, e come il capitale ricavi profitto sempre più appropriandosi dei beni comuni e sempre meno sfruttando la proprietà dei mezzi fisici di produzione.
Oggi l’accumulazione capitalistica è sempre più esterna al processo produttivo, così che lo sfruttamento assume la forma di un esproprio dei beni comuni.
Pertanto, l’approccio più appropriato non passa più dal controllo delle istituzioni o dei mezzi fisici di produzione; è invece il capitalismo che deve essere considerato superfluo, da eliminare.
Scrive de Angelis in Omnia Sunt Communia:
Come si può utilizzare la comunità per creare un nuovo sistema di beni comuni, che promuova l’incidenza dei modi di produzione alternativi e l’indipendenza di chi ne fa parte a discapito del sistema capitalista…? Come utilizzare la comunità per accrescere il potere dei beni comuni rispetto al capitale? … Il capitale può riprodursi solo sfruttando al proprio fine, cioè al fine dell’accumulazione, le energie fisiche, mentali e affettive delle persone. … Il capitale ha vari modi per mobilitare il lavoro e assoggettarlo ai suoi criteri, al suo modo di vedere le cose. … Ma ciò che sta alla base del potere del capitale, l’unica cosa che gli permette di dispiegare tutte le altre forme in cui si esprime tale potere, è l’esproprio dei mezzi di sussistenza, la sua capacità di controllare, dirigere, distribuire e dare un senso alle risorse che sono alla base della vita umana e della società: in primo luogo l’acqua, la terra, il cibo, l’energia, la salute, la casa, l’assistenza e l’istruzione con il suo intreccio di culture. Una crescente capacità di gestire collettivamente queste risorse, di democratizzarne la produzione, di renderle bene comune tenendo lontani sia lo stato che il mercato, sono le condizioni che rendono possibile l’emancipazione di tutti in tutti gli ambiti della vita, trasformando questi ambiti in una comunità che permetta di sentirsi fuori dal capitale. … Poter accedere a queste risorse permetterebbe alle persone e alle comunità non solo di rafforzarsi, di condividere la convivialità e godersi la vita, ma anche di edificare una forza sociale comune che rafforzi questo potere di fronte al capitale…
Invece del tradizionale modello marxista, secondo il quale noi viviamo sotto un sistema di tipo capitalistico finché non avviene una qualche rottura di transizione in cui il partito dei lavoratori prende il controllo rendendo finalmente possibile un’economia etica, l’idea è di costruire la società futura qui e ora. L’espressione sotto il capitalismo non descrive affatto questa crescita, questo coagularsi di una società futura; è come dire che il primo nucleo del capitalismo nell’Europa del 1400 nacque sotto il feudalesimo.
Uno dei principali fattori che giocano a nostro vantaggio è la forte inefficienza del capitalismo. Tra i principali problemi delle teorie accelerazioniste di sinistra che mi è capitato di leggere – ad esempio in Inventing the Future e The People’s Republic of Walmart – è che credono davvero alla superiore efficienza dichiarata dal capitalismo. Queste teorie considerano oro colato il Marx delManifesto Comunista e della Introduzione alla critica dell’economia politica, quando parla di “forze produttive” da sviluppare sotto il capitalismo. Tecnologicamente, la storia del capitalismo si sviluppa linearmente producendo una crescita dell’efficienza e dell’abbondanza, fino al punto in cui le vecchie relazioni di produzione capitalistiche non riescono più a gestire tutta la produttività creata dai capitalisti. La reductio ad absurdum è lo scenario descritto da Engels in Anti-Dühring: la produzione capitalista accresce il capitale in dimensioni e in intensità, diventa più centralizzata, manageriale e produttiva al punto che tutta l’economia si concentra in un unico gigantesco trust, iperproduttivo e gestito centralmente, e a quel punto lo stato dei lavoratori ne assume il controllo.
Similmente, gli accelerazionisti considerano un’economia globale, fatta di catene transoceaniche di fornitura e distribuzione e sistemi d’inventario automatizzati, come il vertice dell’efficienza; quindi, non resta che finire di automatizzare la logistica, automatizzare le fabbriche il più possibile, nazionalizzare baracca e burattini e dare a tutti un reddito di base al posto dello stipendio. Il superamento del capitalismo è tutto qui: lasciamo che segua il suo istinto che lo spinge ad aumentare l’efficienza e poi ci pigliamo tutto.
La verità è molto più incasinata. La storia dello sviluppo tecnologico è una storia di scelte tra tecnologie alternative e tra modi alternativi di integrare un certo avanzamento scientifico nel processo produttivo. Raramente esiste un modo univoco di misurare l’“efficienza”; efficienza significa efficienza dal punto di vista di un certo attore in una certa posizione. E nella nostra società questi attori sono solitamente i proprietari del capitale e gli amministratori delle aziende. Le tecnologie vengono scelte, perlopiù, in funzione del plusvalore che permettono di estrarre. Spesso questa maggiore efficienza nella capacità di dominare il lavoro o di estrarre plusvalore avviene a spese dell’efficienza in termini di output prodotto per ogni input materiale. I modelli produttivi e distributivi dominanti possono esistere solo perché le restrizioni imposte dallo stato alla concorrenza e il sovvenzionamento statale dei costi operativi rendono inefficienti (ma più sfruttatrici) certe forme di produzione, che sono rese artificialmente proficue rispetto alle alternative.
Un ottimo esempio di tutto ciò viene proprio da quella produzione globalizzata e dalle catene logistiche tanto celebrate dagli accelerazionisti citati. Primo, i trasporti a lunga distanza vengono resi artificialmente poco costosi con una vasta gamma di sovvenzioni. Negli Stati Uniti, il sistema ferroviario è stato messo su con enormi concessioni fondiarie ed emissioni obbligazionarie, l’aviazione civile è stata creata praticamente dal nulla con denaro pubblico ed espropri per pubblica utilità, idem per il sistema autostradale. Le rotte transoceaniche necessarie alle catene logistiche sono rese possibili da organismi finanziati dai contribuenti.
Sono decenni che l’obiettivo principale della politica estera statunitense è l’instaurazione e il mantenimento di regimi amici del capitale occidentale nel sud del mondo. La storia di questa politica è una storia di colpi di stato, invasioni, assassinii politici e squadre della morte, nonché di milioni di persone torturate o uccise. Abbiamo appena ricordato il massacro di Peterloo, ma bisogna sapere che sono centinaia i massacri di Peterloo causati dagli Stati Uniti e i suoi vassalli in tutto il mondo. E ricordiamo anche che il grosso degli aiuti ai paesi esteri, nonché dei prestiti della Banca Mondiale, sono andati alla costruzione di servizi di supporto e infrastrutture senza le quali gli investimenti dei capitali esteri non potrebbero mai essere proficui.
Il modello aziendale basato sulla delocalizzazione della produzione reale, affidata a fabbriche del Terzo Mondo, è possibile solo perché brevetti e marchi commerciali consentono alle aziende di mantenere il monopolio legale sulla commercializzazione di ciò che viene prodotto in appalto. La funzione principale dei cosiddetti “accordi di libero commercio” è in realtà il protezionismo: serve ad esportare gli standard di massima statunitensi sulla “proprietà intellettuale” in altri paesi, così da garantire questo modello di produzione delocalizzata.
Grazie alle leggi sulla proprietà intellettuale, le aziende statunitensi possono delocalizzare la produzione delle sneaker alle fabbriche del sudore, che le producono per pochi dollari il paio, per poi rivenderle sul mercato occidentale a 150 dollari. Idem per i prodotti elettronici, il cui prezzo è dato principalmente dalla rendita sulla proprietà intellettuale e non dal lavoro più i materiali. In assenza di restrizioni di brevetto e marchio commerciale, la soluzione economicamente migliore sarebbe che le manifatture asiatiche, che ora producono Nike e iPhone in appalto, facessero le stesse scarpe e gli stessi telefoni per venderli sul mercato locale ad una frazione del prezzo attuale. Per gran parte dei beni, la produzione più efficiente somiglierebbe a quella propria della micromanifattura diffusa tipica dell’Emilia Romagna, una produzione rivolta alla produzione comunitaria. Produrre per l’esportazione da un continente all’altro è proficuo solo perché i contribuenti assorbono gran parte dei costi delle inefficienze e perché leggi come la proprietà intellettuale impediscono ogni possibile concorrenza da parte di modelli produttivi più efficienti.
Ma non è tutto. È il capitalismo aziendale in quanto sistema ad essere enormemente inefficiente, perché dipende dalle sovvenzioni sui materiali e dalla socializzazione di altri costi, oltre che dalla rendita fornita dai diritti di proprietà inventati e dalle barriere imposte dallo stato alla concorrenza. Il suo modello si basa più sul consumo massiccio e crescente di risorse a prezzi artificialmente bassi che sull’uso efficiente delle risorse esistenti.
E poi il capitalismo è inefficiente a causa delle conseguenze della storica appropriazione dei beni comuni e di altre ruberie, che combinate con il trasferimento della ricchezza verso l’alto producono enormi disparità economiche. L’effetto di queste disparità è che una grossa fetta dell’attività economica serve alla protezione del capitale con l’imposizione dei diritti di proprietà in poche mani. Altro effetto è che moltissime aziende sono proprietà assenteiste, il che crea ogni genere di problemi legati alla conoscenza in senso hayekiano, al conflitto di interessi e alle strutture gerarchiche aziendali, così che controlli e protezioni assorbono una parte significativa delle risorse aziendali. Altro effetto del trasferimento di ricchezza verso l’alto è la crisi cronica delle eccedenze produttive dovuta a carenze nella domanda, crisi a cui si ovvia con l’obsolescenza programmata e altre soluzioni che incrementano lo spreco produttivo. In sostanza, tutta l’economia è piagata da spese burocratiche, lavori stronzata e irrazionalità.
In questo senso, l’economia alternativa che sta crescendo negli interstizi del capitalismo è esattamente il contrario. Perché è decentrata, opera nei beni comuni, è orientata in gran parte alla produzione diretta per l’uso e ha tutto il vantaggio, come spiega Ralph Borsoi in The Distribution Age, di evitare tutti i costi di marketing e distribuzione tipici della distribuzione supply-push. Non essendoci all’origine una concentrazione di ricchezza rubata, non impone quei grossi costi (lavori stronzata) necessari alla protezione del capitale. Non essendoci accesso privilegiato a risorse rubate –enormi capitali e territori frutto di passati sfruttamenti – deve fare un uso il più possibile efficiente delle materie prime. Data l’autogestione e l’organizzazione orizzontale, non genera conflitti di interesse che richiedono strutture manageriali gerarchiche per il controllo e la sorveglianza (altri lavori stronzata). Spinta da un’etica di libertà e di informazione aperta, priva di barriere che limitano i tempi di reazione e i cicli innovativi, può stringere d’assedio il capitalismo. Usando sistemi produttivi effimeri (che richiedono pochi capitali e poche risorse materiali), e minimizzando la capacità inutilizzata dei beni capitali grazie all’economia della condivisione, la sua produzione non è afflitta dal problema degli sprechi.
Date queste circostanze, non ci ritroviamo a competere in condizioni di svantaggio sotto le regole del capitalismo. Stiamo creando, nei meandri del capitalismo, un sistema più efficiente in grado di superare il capitalismo stesso, facendo un uso migliore delle risorse e con meno sprechi. Questo sistema è destinato a crescere a spese del capitalismo, privandolo della forza lavoro di cui ha bisogno e impedendogli quella crescita continua senza la quale non può sopravvivere.
Edificare una controeconomia basata sui beni comuni significa non solo consumare ma anche produrre e fare qualunque altra cosa in maniera eticamente corretta; e questo non sotto ma dentro il capitalismo, come una forza che lo divora dall’interno.