Questo articolo è stato pubblicato originariamente su The Freeman il 24 agosto 2011 con lo stesso titolo.
Il movimento progressista sorto a cavallo tra Ottocento e Novecento, dottrina da cui nasce la moderna sinistra americana, viene talvolta visto erroneamente come una filosofia “anti-aziendale”. Certo era contro il mercato, ma questo non significa che fosse necessariamente anche contro le imprese. Più che altro, era dirigenzialista.
Dopo la Guerra Civile, l’economia americana cominciò ad essere dominata sempre più dalle grandi imprese. Ho già scritto su The Freeman a proposito del ruolo che lo stato ha avuto nella crescita dell’economia corporativa centralizzata: dalla concessione di terre e aiuti economici alle compagnie ferroviarie, facendo pendere l’ago della bilancia a favore di grosse manifatture con un mercato nazionale (“The Distorting Effects of Transportation Subsidies,” novembre 2010), ai brevetti, che furono tra gli strumenti principali del consolidamento dei cartelli in molti settori industriali (“How ‘Intellectual Property’ Impedes Competition,” ottobre 2009, tinyurl.com/lqzehv).
A queste gigantesche aziende seguirono grandi agenzie governative la cui missione era di supportare e stabilizzare l’economia corporativa. Quindi vennero le grandi università burocratizzate, il sistema scolastico centralizzato, e un assortimento di “consulenti professionisti” il cui compito consisteva nell’elaborare le “risorse umane” da cui le aziende e lo stato traevano alimento. Tutte queste burocrazie intrecciate avevano bisogno di un’enorme classe dirigenziale che le amministrasse.
Secondo Rakesh Khurana della Harvard Business School (in From Higher Aims to Hired Hands), i primi dirigenti industriali avevano una preparazione tecnica, e facevano nella grande azienda quello che prima avevano fatto nella piccola industria. La rivoluzione dirigenziale nelle grandi aziende, scrive Khurana, fu praticamente il tentativo di applicare il metodo ingegneristico (strumenti, processi e sistemi standardizzati e razionalizzati) all’intera organizzazione.
Secondo Yehouda Shenhav (Manufacturing Rationality: The Engineering Foundations of the Managerial Revolution), il progressismo fu l’ideologia dei dirigenti e degli ingegneri che amministravano queste grosse organizzazioni; mentre l’azione politica era l’applicazione all’intera società degli stessi principi usati per razionalizzare le aziende. Citando Robert Wiebe, Shenhav scrive:
Poiché le differenze tra ambiti fisici, sociali e umani erano confuse dai continui rimescolamenti, la società fu concettualizzata e trattata come un apparato meccanico. Società e aziende potevano, e dovevano, essere progettate come macchine da perfezionare continuamente. Dunque la gestione delle aziende (come della società in generale) doveva ricadere nell’ambito dell’ingegneristica. Problemi sociali, culturali e politici… potevano essere inquadrati e analizzati come “sistemi” e “sottosistemi” per poi essere risolti con mezzi tecnici…
A quell’epoca, “solo gli amministratori professionisti, i medici, gli assistenti sociali, gli architetti, gli economisti, potevano indicare la strada da seguire”. Il controllo da parte dei professionisti divenne poi più elaborato. Comportava analisi e predizioni, e lo sviluppo di tecniche professionali che guidassero gli eventi verso risultati prevedibili. Gli esperti “pianificarono rudimentali budget di governo, introdussero gli acquisti centralizzati e controllati e razionalizzarono la struttura burocratica.” Questo genere di controllo non era caratteristico soltanto dei professionisti delle grandi aziende. Si ritrovava anche nei movimenti sociali, nella gestione delle scuole, delle strade, delle città e dei sistemi politici.
Questa caratteristica dirigenziale del progressismo accentuò il superamento delle divisioni di classe e ideologiche ricorrendo ad esperti disinteressati. Scrive Christopher Lasch (The New Radicalism in America):
Per i nuovi radicali il male da sradicare era il conflitto, più che l’ingiustizia o la disuguaglianza. Da qui l’idea di riformare la società… tramite l’ingegneria sociale attuata da esperti disinteressati in grado di vedere il problema nella sua interezza, esperti in grado di vederlo essenzialmente come un problema di risorse… la cui gestione e conservazione era compito di amministratori illuminati.
Shenhav racconta come questo ethos apolitico nascesse dalla ‘percezione di sé’ che avevano i tecnici: “La teoria americana della gestione fu presentata come una tecnologia scientifica amministrata per il bene della società in generale senza alcuna relazione con la politica.” Frederick Taylor, il cui approccio manageriale era un microcosmo nel progressismo, vedeva nella burocrazia “una soluzione alle fratture ideologiche, un rimedio ingegneristico alla lotta di classe.” Sia i progressisti che i tecnici dell’industria “erano terrorizzati dall’eventualità di una ‘lotta di classe’” e vedevano nell’“efficienza” la via alla “armonia sociale, capace di far coincidere l’interesse del lavoratore con quello del datore di lavoro.”
Le implicazioni, come ha scritto James Scott in Seeing Like a State (su cui tornerò abbondantemente più sotto), erano decisamente autoritarie. Solo una classe selezionata di tecnocrati in possesso delle “conoscenze scientifiche necessarie a individuare e creare questo superiore ordine sociale” era qualificata a prendere decisioni. In tutti gli aspetti della vita, la politica da seguire era compito di esperti che avevano come fine lo spostamento del più gran numero di questioni dall’ambito del dibattito politico pubblico a quello dell’amministrazione da parte di autorità appropriatamente qualificate. La politica, scrive Scott, “non fa altro che frustrare le soluzioni sociali architettate con gli strumenti scientifici adeguati alla loro analisi.” Come diceva un editoriale di New Republic, “la pratica politica è diventata troppo complessa per essere lasciata alle incomprensioni ambiziose di buonisti amatoriali.”
Il progressismo slittò verso la sinistra anticapitalista e incorporò parte del pensiero anti-aziendale nella sua frazione estrema. Ma gran parte dei progressisti vedeva nel trionfo dei grandi trust la vittoria di un’economia razionale ed efficiente, e vedeva di buon occhio un profitto stabile e ragionevole ottenuto tramite l’uso del potere politico.
Alla fine i progressisti utopici o socialisti scoprirono di essere diventati “utili idioti”. Il loro desiderio di irreggimentare e dirigere fu lasciato a briglia sciolta soprattutto quando questo coincise con i bisogni dell’economia corporativa creata da Rockefeller e Morgan. Per quello che Gabriel Kolko (The Triumph of Conservatism) chiamava “capitalismo politico”, questi bisogni erano il leitmotiv delle leggi dell’epoca progressista. Il capitalismo politico aveva come obiettivo dare alle dirigenze aziendali “la possibilità, utilizzando strumenti politicamente assicurati e stabilizzati, di pianificare l’azione economica futura sulla base di aspettative facilmente calcolabili” e perciò di arrivare “all’organizzazione dell’economia e delle più ampie sfere politiche e sociali, così che le aziende potessero agire in un ambiente sicuro e prevedibile e avere la garanzia di profitti ragionevoli nel lungo termine.”
La maggioranza progressista, lungi dall’abbracciare la lotta di classe della sinistra, vedeva nella stessa lotta una forma di irrazionalità che poteva essere superata grazie agli esperti. Cito ancora Shenhav:
Il malessere dei lavoratori e le altre discordie politiche del periodo erano trattate dai tecnici come se fossero casi particolari di comportamento incerto di una macchina, da trattare alla stregua di analoghi problemi tecnici. Tutto quello che disturbava il funzionamento liscio della macchina organizzativa era considerato comportamento incerto.
Come disse Hilaire Belloc (The Servile State) a proposito della controparte fabiana britannica, la linea principale del movimento progressista accettò subito l’impossibilità di espropriare le grandi aziende e le fortune dei plutocrati, trovando molto più comodo fare il socio di minoranza della plutocrazia e dirigendo la propria brama di irreggimentazione contro la classe lavoratrice:
Fate leggi che mettano a carico della classe possidente in misura appropriata l’alloggio, il vitto, il vestiario e lo svago della massa proletaria, e che le regole siano rispettate, con ispezioni e sanzioni, da quelli che lui [il fabiano] pretende di beneficiare, e vedrete che si realizzerà tutto quello che gli sta a cuore.
Come dice Scott, l’istinto pianificatore pressoché illimitato delle classi manageriali era diretto soprattutto verso il basso:
Ogni angolino dell’ordine sociale può essere migliorato: l’igiene personale, la dieta, la cura dei piccoli, l’alloggio, il comportamento, lo svago, la struttura famigliare e, cosa spregevole, l’eredità genetica della popolazione. I lavoratori poveri furono spesso i primi a sperimentare la pianificazione sociale… I sottoproletari la cui povertà era potenzialmente minacciosa (nullatenenti, vagabondi, malati mentali, criminali) potevano diventare oggetto delle pratiche di ingegneria sociale più estreme.
Il progressismo era una branca di quella che Scott chiamava l’ideologia “modernista superiore”, che “immaginava un’ingegnerizzazione razionale e totale di tutti gli aspetti della vita sociale al fine di migliorare le condizioni umane.” Questo modernismo superiore possedeva una sua sensibilità estetica: una comunità organizzata razionalmente, una fattoria, o una fabbrica, doveva “apparire irreggimentata e ordinata geometricamente”. A ciò si aggiungeva una certa simpatia per il gigantismo e la centralizzazione che si tramutava in “dighe faraoniche, snodi centralizzati per le comunicazioni e i trasporti, grandi fabbriche, grandi fattorie, e città a scacchiera…” Leggere le “Utopie” di H. G. Wells, osservare le opere architettoniche di Albert Speer dà un’idea di tutto ciò.
Il modernismo superiore era scientistico, non scientifico, basato, scrive Scott, su una “versione muscolare della fede nel progresso scientifico e tecnologico” tipica dell’Illuminismo, incentrato su “una suprema fiducia in sé riguardo il progresso lineare ininterrotto…, l’allargamento della conoscenza, la crescita produttiva, l’estetica razionale dell’ordine sociale, la crescente soddisfazione dei bisogni umani e, non ultimo, un dominio crescente sulla natura (compresa la natura umana) commisurato alla comprensione scientifica delle leggi della natura.” I santoni di questa ideologia erano esattamente gli stessi che formavano la base sociale del progressismo: “pianificatori, ingegneri, architetti, scienziati e tecnici [che il modernismo superiore] celebrava come i progettisti del nuovo ordine.”
C’è un aspetto dell’analisi che Scott fa del modernismo superiore che per noi è importantissimo: l’uso che fa del concetto di meti (vedi mitologia greca, es). Più di ogni altro a mia conoscenza, il libro di Scott andrebbe letto assieme a quella che Hayek, in “The Use of Knowledge in Society”, chiama conoscenza distribuita, tacita o idiosincratica. (Come dice Hayek, questa è la conoscenza delle circostanze necessarie a prendere una decisione che esiste “unicamente sotto forma di coriandoli di quella conoscenza… frammentata che i diversi individui possiedono.”).
Scott distingue meti da techne, che è un corpo di conoscenze universali deducibili dai principi base. Meti, è invece una (perlopiù non semplificabile) conoscenza derivante dall’esperienza pratica, concernente il particolare, il variabile e il locale, che richiede una “sensibilità” per gli aspetti unici di una data situazione ottenibile solo nel lungo termine.
Il modernismo superiore tendeva a considerare meti come un nemico e cercava di soppiantarlo con schemi centrali fatti di pianificazione e dominio, o a livello di società tramite l’ingegneria sociale di stato, o a livello aziendale ad opera di dirigenti tayloristi.
Il modernismo superiore, scrive Scott, aveva “scarsissima fiducia… nelle capacità, nell’intelligenza e nell’esperienza delle persone comuni.” Le conoscenze della popolazione, diffuse localmente, dovevano essere, nel migliore dei casi, trattate con condiscendenza, purificate delle sue caratteristiche frammentarie e locali, codificate in un insieme di regole universali, ridotte a loro volta a formule verbali che la casta sacerdotale trasmetteva come conoscenza.
Quello che noi chiamiamo taylorismo è solo una sfaccettatura del più ampio progetto modernista. Una caratteristica del modernismo superiore, nota Scott, era “un ristretto ‘produttivismo’ materialistico [che] trattava il lavoro manuale come un sistema meccanico da scomporre in trasferimento di energia, moto e fisica del lavoro”, e il lavoro era semplificato in “problemi isolati di efficienza meccanica” e ricondotto sotto il dominio scientifico. Il taylorismo cercò soprattutto di “scomporre minutamente il lavoro in fabbrica in movimenti scindibili, precisi e ripetitivi.” L’obiettivo di Taylor, detto con parole sue, era che la dirigenza “si assumesse… l’onere di mettere assieme tutte le conoscenze tradizionali, che in passato avevano fatto parte del bagaglio dei lavoratori, per classificarle, tabularle, e trasformarle in regole, leggi, formule…. Ecco quindi che tutta la pianificazione, che nel vecchio sistema era fatta dal lavoratore…, doveva essere fatta dalla dirigenza secondo leggi scientifiche.”
Il proposito era separare comprensione e decisione dalla messa in pratica. La casta dirigenziale determina le “pratiche migliori” e scompone l’azione pratica in un insieme di semplici sottoprocessi il più possibile efficienti, e il lavoratore esegue il compito seguendo le istruzioni senza possibilità di pensiero critico.
Ma per sua natura, dice Scott, il modernismo superiore è riduzionista o “schematico” e “ignora sempre le caratteristiche essenziali di qualunque ordine sociale reale e funzionante.” Il progressismo, come ideologia modernista superiore, non considera le conoscenze nascoste.
Nel caso del taylorismo, questo significa che la soppressione di meti sacrifica quelle conoscenze lavorative distribuite tra i lavoratori la cui considerazione è indispensabile se si vuole governare adeguatamente il processo produttivo. Un dirigente taylorista non può far sì che il processo produttivo risponda ad un controllo centrale, così come un’autorità pianificatrice centrale non può arrivare a comprendere e controllare l’economia nazionale.
Secondo David Noble (Forces of Production), le macchine a controllo computerizzato (MCC) furono introdotte nell’industria di produzione di massa (nota: prima fra tutte e più massicciamente nell’industria bellica) al fine di sostituire meti con un sistema di controllo centralizzato diretto da dirigenti ed ingegneri, come sistema per superare la frammentazione della conoscenza propria della conoscenza distribuita. Le MCC avevano il compito di spostare il baricentro del potere verso l’alto ponendo la produzione sotto il controllo degli ingegneri e rendendo superflue le capacità professionali degli addetti alle macchine.
Sfortunatamente per chi ci credeva, le MCC non eliminarono il bisogno di meti. Come fa notare Noble, ben presto i dirigenti capirono che l’unica cosa che queste macchine potevano produrre “automaticamente”, senza l’intervento continuo e intelligente del lavoratore, erano i pezzi di scarto. Quando i lavoratori, seguendo strategicamente le regole imposte, cominciarono a fare a meno di meti, ecco che l’incidenza di pezzi di scarto sulla produzione salì alle stelle.
(Ironicamente, oggi si comincia a spostare gran parte della capacità manifatturiera dalla produzione industriale di massa verso le piccole attività, con MCC di piccola scala manovrate da artigiani esperti.).
Si direbbe che meti, o la conoscenza distribuita, dopotutto, sia uno di quei tratti distintivi dell’azione umana che testardamente sopravvive a tutti i tentativi di sostituzione.