In Crimea, truppe prive di insegne hanno occupato l’aeroporto e preso il controllo della regione. A Mosca, il parlamento russo ha autorizzato senza obiezioni l’ex colonnello del Kgb Vladimir Putin all’impiego dei militari russi in Ucraina. A Kiev, capitale dell’Ucraina, un’insurrezione che forse è genuinamente spontanea e forse no, e che forse è composta da nazionalisti xenofobi e forse no, ha detronizzato il presidente eletto mandandolo via dalla capitale. In occidente, le solite persone sospette chiedono agli Stati Uniti e ai suoi alleati di “fare qualcosa”. Mentre ci avviciniamo al centenario della Grande Guerra, c’è un’altra crisi, in una località a cui gli abitanti del centro imperiale raramente fanno caso, che minaccia di sconvolgere il castello di carte globale.
La posizione degli anarchici è tanto ovvia quanto prevedibile: ci opponiamo all’esistenza dello stato e, naturalmente, a tutte le guerre. Ma per ragioni legate alla critica dell’azione dello stato basata su un’analisi anarchica e di mercato, un intervento in questa disputa è un’idea particolarmente brutta, ed è molto improbabile che gli interventisti trovino desiderabili le conclusioni a cui porta. Per capire perché, dobbiamo esaminare la storia dell’Ucraina in particolare, e dell’est europeo in generale.
Nella mente di un occidentale, la storia di questa regione è dominata dall’Unione Sovietica e dal suo collasso improvviso ventitré anni fa; ma l’Unione Sovietica non era altro che la continuazione in nuove forme ideologiche del vecchio impero russo, che nel corso dei secoli allargò la sua egemonia alle popolazioni confinanti finché non diventò un’unica distesa dal Baltico al Mare di Bering e dall’Artico ai confini con la Persia, la Mongolia e la Cina, formando il più grande impero coloniale mai visto.
Poiché le colonie russe non erano mai possedimenti oltremare popolati da genti di diverso colore e con culture profondamente diverse, la natura fondamentalmente coloniale dell’intento russo spesso si perde. Questa natura, poi, è ancora più oscurata dalla retorica anticolonialista sovietica, che al di là delle dichiarazioni faceva una politica verso i suoi confinanti che era il proseguimento dell’intento imperiale russo.
Per molti versi, l’Ucraina offre un esempio paradigmatico di come la Russia trattava il suo “vicino estero”, tanto per usare il termine russo che indica le colonie della Russia. Ufficialmente, gli ucraini non erano considerati una nazione separata, la lingua ucraina era bandita, le chiese ucraine erano costrette ad adottare le norme religiose della chiesa russa oppure ad andare in clandestinità, ed erano vietati perfino i vestiti e le festività tradizionali ucraine. La politica ufficiale, in Ucraina come altrove, era la “russificazione”, ovvero il tentativo dello stato di sostituire la cultura indigena con quella russa, e di convertire i colonizzati in russi.
Questo genere di politica è tipica dello stato ovunque sia nel suo processo di formazione. Come ha documentato con grande capacità Graham Robb nel suo The Discovery of France, gli stati accentratori impongono invariabilmente una lingua, una religione e una cultura specifica nel tentativo di “unificare la popolazione”, ovvero per indottrinarli, così che sentano l’asservimento più come patriottismo che come una dominazione straniera. Questo processo rappresenta la continuità tra il processo “domestico” di un indottrinamento imposto dallo stato, come la scuola pubblica e la chiesa di stato, e le forme più familiari di “colonialismo”.
Il modo in cui i russi trattano il vicino estero è una via di mezzo tra il “colonialismo domestico”, che serve alla formazione dello stato, e il più familiare colonialismo d’oltremare. Le culture soggiogate dallo stato russo, in particolare quelle di lingua e identità slava, sono parenti strette della cultura russa, e questa vicinanza ha il potere di oscurare la natura fondamentalmente imperiale dell’espansionismo russo; agli occhi degli occidentali, questo processo ricorda più la ormai accettata nascita dello stato, quando il governo centrale impone il suo potere “unificando la nazione”, abbattendo i movimenti locali e secessionisti, che un certo “imperialismo”, oggi riprovato, in cui i colonizzatori soggiogano i colonizzati eliminando le culture indigene. Le ideologie “pan-slave” presentano gli slavi, un insieme disparato di gruppi linguistici e culturali, come un unico popolo giustamente governato dal centro imperiale russo, che si tratti dell’ortodossia zarista o del “socialismo in un solo paese”.
Nel corso dei secoli, l’interazione delle successive potenze coloniali russe, zarista o sovietica, con le varie rinascite nazionaliste che scoppiavano ad intermittenza nei territori tra la Russia e la Germania, hanno creato una regione incostante, dai confini fortemente arbitrari che non corrispondono a nessun confine linguistico, etnico o culturale. La politica ufficiale russa ha incoraggiato gli insediamenti russi nel vicino estero, così come la politica francese incoraggiò gli insediamenti francesi in Algeria, e il risultato attuale è la presenza di grosse minoranze russe nella maggior parte dei paesi del vicino estero; e ci sono molte regioni all’interno di questi paesi che hanno una decisa maggioranza russa, con un impatto simile a quello che gli insediamenti dei presbiteriani scozzesi ebbero sulle “Piantagioni dell’Ulster” nel diciassettesimo secolo. I tentativi periodici di sterminare culturalmente e fisicamente le popolazioni indigene, poi, hanno creato una divisione netta tra colonizzatori e colonizzati. Per le popolazioni etnicamente ucraine, la Holodomor, la carestia ucraina come strumento del terrore, fu un tentativo deliberato da parte dei sovietici di sterminare il più possibile gli ucraini e distruggerli come popolo. Nei resoconti russi la Holodomor, quando è citata, diventa un’ordinaria carestia, non una politica deliberata dello stato, e le commemorazioni ucraine diventano semplice propaganda anti-russa. (Il parallelo con Gorta Mór, la Grande Carestia Irlandese del 1845, è evidente: gli irlandesi la considerano un prodotto della politica britannica. “Dio mandò la malattia delle piante, gli inglesi la carestia”. Dal canto loro, gli inglesi danno la colpa alla monocoltura degli irlandesi e, in un passato più crudamente razzista, alla natura degli irlandesi ritenuta primitiva).
L’Ucraina è attraversata da varie linee di divisione: fra le altre, tra ucraini e russi, ovviamente, ma anche tra cosacchi e non cosacchi, tra ortodossi e cattolici, e tra gli ucraini e tutte le altre minoranze etniche non russe. Certo non possiamo conoscere tutte le parti in cui è divisa l’Ucraina, perché possiamo accedere solo ad informazioni di seconda mano filtrate attraverso le varie lenti politiche. Ogni proposta di intervento occidentale in Ucraina dipende fortemente da queste linee di divisione. A differenza dei propositi puramente imperialistici di Putin, volti ad assicurare l’egemonia su un territorio più vasto, l’occidente vuole che l’Ucraina abbia un “governo stabile e democratico”. L’occidente è ancora legato all’imperativo della pace di Vestfalia, che considera sacri i confini nazionali, confini che, nel caso dell’ex impero russo-sovietico, furono tracciati in gran parte da burocrati imperiali per ragioni di stato imperiali.
Perciò, mentre noi anarchici considerano la forza militare sempre discutibile, e condanniamo senza dubbi la mossa di Putin per soggiogare l’Ucraina, l’intervento militare delle forze occidentali è particolarmente inadatto alla situazione. Non c’è accordo che possa soddisfare tutte le parti, perché chiunque si ritroverà dalla parte dei perdenti è sicuro che nutrirà sentimenti revanscistici e sarà determinato a vendicarsi non appena cesserà il sostegno occidentale. Se dovesse intervenire con l’obiettivo di ottenere un certo risultato favorevole, l’occidente sarebbe costretto ad intervenire in perpetuo; oppure, come vediamo in Iraq e Afganistan, ad un certo punto dovrebbe rassegnarsi a veder collassare l’ordine che ha stabilito.
La lunga, complessa storia dell’Ucraina, con l’eredità pesante dell’imperialismo (perché i discendenti dei coloni russi in Ucraina e in altre colonie del vicino estero hanno certamente interessi tanto legittimi quanto gli irlandesi e scozzesi, o gli americani bianchi che vivono in territori un tempo indiani) complicano le cose al punto che un insediamento diventa una sorta di pianificazione centrale. Chi pianifica, che si tratti degli autori del Gosplan o di Washington, non può accedere a tutte le informazioni rilevanti necessarie all’applicazione del piano. Non solo, ma queste informazioni non possono esistere finché le popolazioni non le hanno generate dopo aver ricomposto le loro differenze. Capita che una risposta facile non esista, e in questo centenario della Grande Guerra dovremmo tenere bene in mente che l’intervento in una crisi può scivolare rapidamente fuori controllo. Le popolazioni di questa regione possono andare d’accordo pacificamente e a lungo solo se si lascia che siano loro a determinare i termini della convivenza. Il nostro intervento non può che peggiorare le cose.