Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 10 novembre 2014 con il titolo How the Soviet Union Won the Cold War. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
Non so quando questo articolo vedrà la luce. Al momento di scrivere, tutto il mondo celebra, con giusto entusiasmo, la caduta della Cortina di Ferro avvenuta venticinque anni fa. Durante la guerra ispano-americana, William Graham Sumner tenne un discorso, “La conquista degli Stati Uniti da parte della Spagna”, in cui sosteneva che, pur perdente sul campo di battaglia, la Spagna aveva vinto perché nel corso del conflitto gli Stati Uniti si erano trasformati, ad immagine della Spagna, in una potenza imperialista. Il parallelo con la caduta della Cortina di ferro e il comunismo dovrebbe essere evidente.
Anche se lo scioglimento post-sovietico in Europa orientale è stato distorto e corrotto dal “capitalismo dei disastri” neoliberale, dall’appropriazione delle vecchie industrie di stato, e dalla sussunzione di quei paesi nel sistema industriale globale, gli eventi del periodo 1989-91 rappresentano pur sempre una grande vittoria per il blocco sovietico. Non altrettanto per il resto del mondo.
Se internamente e con i paesi del Patto di Varsavia era violento e dittatoriale, in fatto di aggressioni e sovvertimenti all’estero il sistema di potere sovietico era una fotocopia degli Stati Uniti e del blocco corrispondente. Come disse Noam Chomsky, la Guerra Fredda fu sostanzialmente una guerra dell’Unione Sovietica contro i suoi satelliti e degli Usa contro il Terzo Mondo.
Era in atto anche una diretta dinamica da superpotenza, ma era relativamente debole. L’ordine postbellico di base (il Fondo Monetario e la Banca Mondiale che garantivano l’integrazione delle economie nazionali sotto il controllo del capitale industriale americano, le forze armate che, con la foglia di fico del consiglio di sicurezza dell’Onu, imponevano agli stati l’ordine industriale globale) funzionava esattamente come avevano previsto le élite pianificatrici nel 1994, come se l’Unione Sovietica non fosse mai esistita.
Talvolta l’Unione Sovietica faceva il guastafeste e, uscendo dal proprio cortile, appoggiava qualche movimento di liberazione nazionale, con un rischio minimo per se stessa e accrescendo i costi di mantenimento dell’impero statunitense. Probabilmente le scarse possibilità di confronto militare diretto con una superpotenza nucleare bastavano a impedire anche certe azioni marginali degli Stati Uniti (come avrebbe potuto essere l’invasione dell’Iran o l’invio di truppe nel conflitto arabo-israeliano del 1973).
Più in generale, però, l’Unione Sovietica rappresentava una lacuna, uno spazio vuoto con su scritto “Qui ci sono i comunisti”, sulla mappa della neoliberale pax americana. Al di fuori di quel sistema regionale condensato di dominio, l’atteggiamento americano era quello del più grande e aggressivo potere imperiale mai esistito: invase, sovvertì, detronizzò più stati di qualunque altro impero precedente. Se il “libro nero del comunismo” è un elenco di atrocità, in un ideale Libro nero dell’imperialismo troveremmo i milioni di morti indocinesi quando gli Stati Uniti presero il posto della Francia nel mantenere al potere dell’oligarchia terriera a Saigon, le centinaia di migliaia (stima minima) uccisi da Suharto dopo il colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti in Indonesia e la strage ancora più grande compiuta da Mobutu dopo l’assassinio di Lumumba, gl’innumerevoli morti causati dall’attacco genocida a Timor Est in Indonesia, le centinaia di migliaia, se non milioni, uccisi dagli squadroni della morte in America Centrale dopo il rovesciamento di Arbenz, le persone torturate dai dittatori militari in Brasile, Cile e altrove in Sudamerica durante l’operazione Condor, e infine i milioni fatti morire di fame o con le bombe in Iraq a partire dal 1990.
La caduta dell’Urss, che pure costituiva un parziale contrappeso, ebbe come risultato il dominio incontrastato senza pari degli Stati Uniti per un quarto di secolo. In questo lasso di tempo, il sistema di potere guidato dagli Stati Uniti si è consolidato è diventato più autoritario tanto all’estero quanto in patria.
Ma ancora più importante delle dimensioni e dell’aggressività dell’impero statunitense rispetto a quello sovietico, è la classe che questo serve. Come nel caso dell’Unione Sovietica e dei suoi paesi satellite, la politica estera degli Stati Uniti e dei suoi principali alleati serve gli interessi di una classe di potere interna.
Il sistema di potere dello stato corporativo americano, così come il vecchio sistema socialista burocratico statale sovietico, ruota attorno al controllo dell’informazione. In Unione Sovietica questo significava censura dell’informazione e blocco fotocopiatrici al fine di impedire il libero flusso di informazioni in grado di contrastare l’interpretazione di regime dei fatti o di minarne la pretesa legittimità. Nel blocco statunitense abbiamo invece il controllo industriale della riproduzione e distribuzione dell’informazione al fine di ricavarne profitto.
In senso più ampio ciò significa che la cosiddetta “proprietà intellettuale” è uno dei punti cardine del modello di profitto di tutti i settori dominanti dell’economia industriale mondiale. Alcuni dei settori più proficui, come l’intrattenimento e il software, dipendono dalla vendita diretta di informazioni proprietarie che potrebbero essere riprodotte praticamente gratis. Altri prodotti, come le medicine, l’elettronica, le sementi geneticamente modificate, dipendono dal brevetto delle formule o dei processi produttivi. Altri ancora, praticamente tutta la produzione delocalizzata, dipendono da brevetti e marchi commerciali per delocalizzare la produzione fisica in fabbriche che sfruttano i lavoratori nel Terzo Mondo, mantenendo unicamente il monopolio legale del diritto di acquistare e disporre delle merci. Probabilmente, questi settori industriali di dimensioni mondiali crollerebbero senza gli standard draconiani della “proprietà intellettuale” esportati dagli Stati Uniti sotto forma di “accordi di libero mercato” (che tali non sono, ovviamente).
È dalla caduta dell’Urss che gli Stati Uniti fanno una politica aggressiva per punire chi sfida il proprio status di potere egemone (vedi l’Iraq e i Balcani); al contempo hanno messo su un’impalcatura di trattati e statuti (NAFTA, Uruguay Round GATT, Digital Millennium Copyright Act e un assortimento di “accordi di libero mercato” che integrano gran parte del pianeta nel suo modello di capitalismo industriale).
Internamente, l’importante bisogno del potere industriale di controllare l’informazione ha portato alla gestione dei diritti digitali (DRM) che rendono impossibile duplicare film, musica e software, con relativo divieto di sviluppo e diffusione di tecniche che infrangono i DRM, oltre a un uso crescente di poteri illegali ed extragiudiziari, come il sequestro immediato di siti web senza accuse o processi, semplicemente sulla base del sospetto di contenere materiale “piratato”. Joe Biden in persona diresse (dalla sede della Disney!) una unità speciale del ministero della giustizia, chiudendo decine di siti web in violazione totale del quarto e quinto emendamento. I fornitori di accesso a internet hanno assunto, al servizio dell’industria cinematografica e musicale, il ruolo di poliziotto nei confronti dei loro clienti paganti, interrompendo il servizio sulla base di denunce d’infrazione non verificate. Gli accordi commerciali citati premono per l’adozione globale di questo nuovo aspro regime di “proprietà intellettuale” statunitense.
Intanto le politiche per la sicurezza interna degli Stati Uniti (già gonfiate a dismisura con la militarizzazione Swat dell’antidroga e le leggi antiterrorismo di Clinton nel 1996) dopo l’undici settembre facevano altri balzi in avanti. Tutta l’infrastruttura di controllo elettronico negli aeroporti, con i suoi appalti ai privati, il controllo illegale dei telefoni e di internet, con la collaborazione di fornitori d’accesso e social, l’intreccio tra militarizzazione crescente della polizia e il soffocamento con metodi militari di movimenti di protesta come Occupy e Ferguson, tutto ciò si è solidificato in un complesso industrial-sicuritario da decine di miliardi di dollari e un sistema poliziesco criminale.
Il capitalismo aziendale di tipo occidentale, così come l’economia globale che ne è parte integrante (con l’appoggio determinante delle forze armate statunitensi), operano dietro quella che può essere considerata una muraglia DRM.
Non è solo la proprietà intellettuale a impegnare lo stato nel mantenimento dell’ordine aziendale. Con la sua politica estera, gli Stati Uniti aiutano le aziende transnazionali a mantenere il dominio neocoloniale della terra e delle risorse naturali in tutto il Terzo Mondo. In combutta con le élite di potere nazionali, il capitale occidentale perpetua l’antico furto di risorse dei vecchi imperi coloniali europei. Fin dai tempi di spagnoli e inglesi nel nuovo mondo e di Warren Hastings in Bengala, gli imperi hanno espropriato la terra e cacciato via i contadini a milioni, trasformando le vecchie tenute famigliari in piantagioni. Si impadronivano dei giacimenti per farci lavorare i forzati. Gli eredi di questo furto (le multinazionali minerarie e petrolifere, ma anche le oligarchie terriere locali colluse con le industrie agricole) continuano ancora oggi a incassare ricchezze prodotte nel sud del mondo per centinaia di miliardi di dollari. E quando le popolazioni cercano di riprendersi ciò che gli appartiene, le multinazionali si affidano all’intervento delle forze armate statunitensi o della Cia, come nel caso del rovesciamento di Arbenz in Guatemala.
Tra guerra alla droga e al terrorismo (una guerra contro il quarto, quinto e sesto emendamento) e l’allargamento del potere di polizia e di sorveglianza alla guerra contro la pirateria della proprietà intellettuale, gli Stati Uniti hanno creato il loro gulag con una popolazione carceraria che è la più grande al mondo dopo la Corea del Nord.
L’aspetto forse più ironico è che l’economia aziendale americana rivaleggia con il mondo sovietico in quell’unico ambito che era il suo orgoglio: la pianificazione centrale e il burocratismo. Fin dalla stabilizzazione del potere economico aziendale, un secolo fa, quando le principali industrie manifatturiere sono diventate dominio di un oligopolio formato da poche aziende, queste ultime hanno assunto le forme della pianificazione centralizzata e burocratizzata proprio come i vecchi ministeri industriali sovietici. Ignorano o soffocano chi, stando sul posto, conosce la situazione meglio di loro, annullano i loro giudizi con i diktat, sprecano irrazionalmente miliardi in investimenti e utilizzano un sistema di trasferimento interno dei prezzi tanto avulso alla realtà quanto lo era il gosplan, e a partire dalla rivoluzione neoliberale e il capitalismo da far west degli anni Ottanta i vertici aziendali sono stati monopolizzati da un’oligarchia inamovibile di laureati autoregolamentati sostanzialmente identica alla nomenklatura sovietica. Riescono a sopravvivere alle loro stesse smaccate inefficienze e corruzione per la stessa ragione per cui riusciva a sopravvivere l’economia pianificata sovietica: perché operano in un più ampio sistema di potere statale che li protegge dalla concorrenza esterna.
Così, al posto del mondo di venticinque anni fa, con una pessima superpotenza mondiale parzialmente frenata da una pessima superpotenza regionale con un potere oligarchico burocratico pianificato centralmente e imposto su parte del continente eurasiatico, oggi abbiamo una singola orridissima superpotenza mondiale senza impedimenti, con un potere finanziario pianificato e monopolistico, imposto sull’intero pianeta. Al posto della cortina di ferro in Europa continentale e Corea, con il filo spinato e le torrette e i mitra, abbiamo un impero mondiale con una cortina fatta di DRM, i droni, le portaerei. L’Unione Sovietica è morta. Lunga vita all’Unione Sovietica.
Ma voglio aggiungere alcune cose. Questo nuovo sistema di potere, rispetto al vecchio collassato venticinque anni fa, non è né inevitabile né sostenibile. Nel controllare l’informazione è, nella pratica, peggio del vecchio regime sovietico. I sovietici alla fine capirono che bloccare le fotocopiatrici non poteva fermare la diffusione dei samizdat, ma il loro tentativo fu un successo enorme rispetto a quello degli americani contro The pirate bay, Chelsea Manning, Wikileaks, Anonymous e Edward Snowden. Le tecnologie usate per imporre la “proprietà intellettuale” sono (sono state) sorpassate rapidamente da tecniche libertarie di aggiramento. Le tecnologie d’interdizione che sfidano l’espansione del potere militare americano sono molto più economiche e hanno un ciclo d’innovazione più rapido rispetto alle tecnologie usate per l’aggressione militare. Come l’altro, anche questo impero del male ha i giorni contati.