Arriva il 2015 e niente auto volanti.
E la tranquillità, la sicurezza economica che, al di là dei balocchi, era la parte più seducente dell’anno 2015 in Ritorno al Futuro – Parte II? Perché mancano, così come mancano i fax e i CD? E perché, nel cinquantesimo anniversario della Fiera Internazionale del 1964-65, il futuro appare decadente come i suoi edifici rimasti (visti per l’ultima volta assieme al suo compagno kitsch degli anni sessanta: i quadri della serie Big Eyes di Margaret Keane)?
Marty McFly non fu il primo a viaggiare nel paradisiaco futuro americano. Un secolo prima, nel suo libro Guardando Indietro 2000-1887, Edward Bellamy mandava il protagonista Julian West nel mondo utopico del 2000, un mondo reso possibile da un’economia statalizzata. West rimane estasiato dall’abbondanza creata dalla pianificazione centrale così come Marty rimane estasiato davanti al volopattino; la notevole assenza di risentimenti anticonsumistici nella retrospettiva post-Trabant è incredibile. Già molto prima dell’anno duemila era chiaro che le imprese private di Ritorno al Futuro, ispirate da Reagan, avevano vinto. Se esiste qualcosa che può spingere la produttività e allo stesso tempo ridurre le ore di lavoro, non è l’efficientismo di Bellamy ma la concorrenza tra aziende, come quella tra Spacely Sprockets e Cogswell Cogs che dava al patriarca de I Pronipoti una settimana lavorativa di due ore.
Forse la Mattel e la Pepsi non sono poi così diverse dall’economia pianificata di Bellamy.
L’osservazione conferma ciò che disse David Graeber, e cioè che Marx ed Engels “avevano ragione a insistere che la meccanizzazione della produzione industriale avrebbe distrutto il capitalismo, ma avevano torto quando prevedevano che la competizione sul mercato avrebbe costretto i proprietari delle fabbriche a meccanizzare comunque. Se ciò non è accaduto è perché la competizione sul mercato non è, nella realtà dei fatti, un fattore essenziale della natura del capitalismo come loro immaginavano.” I mercati hanno una certa affinità con la tecnologia a tutto vantaggio degli operatori del mercato, perché danno a questi ultimi la possibilità di incrementare il valore di ciò che si crea e allo stesso tempo ridurre la quantità di lavoro richiesta per creare quel valore. Perciò il libero mercato rappresenta un pericolo esistenziale per tutte quelle istituzioni di terze parti che si appropriano della ricchezza prodotta dal lavoratore.
A frenare lo sviluppo tecnologico è quell’alleanza tra grandi imprese e stato osservata da Robert Anton Wilson. Ecco quindi che “i grandi sindacati, le aziende e lo stato si mettono tacitamente d’accordo per rallentare l’automazione, puntare i piedi e far andare l’economia con il freno tirato.”
L’attesa perenne di un nuovo viaggio sulla luna o di un altro Progetto Manhattan dà per scontato che progetti centralizzati su larga scala, finanziati dallo stato o da colossi monopolistici alla Ma Bell, siano indispensabili se si vuole fare un salto tecnologico. Come nota Ralph Nader, però, anche nel ventesimo secolo dominato da questi golia “invenzioni come le lame d’acciaio inox (Wilkinson), le radio a transistor (Sony), le fotocopiatrici (Xerox) e la foto istantanea (Polaroid), sono state fatte da piccoli nomi poco noti al momento dell’exploit.”
Il seguace più presciente di Bellamy forse è stato Ernest B. Gaston, che ha fatto una sintesi di Guardando Indietro con l’altro grande testo riformatore americano del tempo, Progresso e Povertà di Henry George. Fairhope, l’esperimento utopico di Gaston, realizzava il futuro armonioso immaginato da Bellamy grazie alla cooperazione volontaria all’interno della competizione sul mercato così come immaginata da George.
Per andare dove stiamo andando non occorre che lo stato, o i colossi industriali, facciano le strade.