La maggiore organizzazione del Tea Party in America, Tea Party Patriots, ha recentemente celebrato il suo quinto anno di attività promettendo di raddoppiare gli sforzi per ottenere il pareggio del bilancio federale e il ripagamento del debito pubblico. L’effetto, immagino non intenzionale, sarebbe la distruzione del capitalismo come lo conosciamo oggi.
Il capitalismo corporativo, fin dalla sua formazione alla fine del diciannovesimo secolo come cuore dell’economia americana (con una grossa dose di intervento statale), è afflitto da due croniche tendenze critiche: 1) Una insufficiente domanda in aggregato, che risulta in una capacità produttiva infruttifera, e 2) un surplus di investimenti capitali a cui non seguono profitti.
In assenza dell’intervento statale nell’economia, volto a nascondere il calo del profitto attraverso la spesa di stimolo della domanda, l’acquisto diretto di produzioni industriali e la creazione di nuove opportunità di investimento, il capitalismo corporativo americano – e con esso il sistema capitalistico mondiale – sarebbe già morto di Depressione cronica decenni fa.
L’unica ragione per cui la Grande Depressione degli anni trenta non portò il sistema alla fine fu il fatto che la seconda guerra mondiale ovviò temporaneamente al problema della capacità produttiva inutilizzata e del surplus di capitali offrendo nuove enormi opportunità di profitto (finanziate con il debito pubblico, ovviamente) e distruggendo gran parte degli impianti e dei macchinari del resto del mondo. Nel 1945 gli Stati Uniti emersero come il paese con la maggior capacità industriale al mondo, e praticamente privo di concorrenza da parte di quelle che un tempo erano state le aree industrializzate d’Europa. Con la maggior parte degli impianti costruiti a partire dal 1940 a spese dei contribuenti, l’industria americana usciva dalla guerra enormemente modernizzata ed equipaggiata. L’effetto pratico fu un riavvio totale, una generazione di prosperità caratterizzata da cicli economici deboli, sicurezza del posto di lavoro e salari in crescita.
Attorno al 1970, però, avendo l’Europa e il Giappone ricostruito le proprie capacità industriali, il mondo fu nuovamente afflitto da un eccesso produttivo e una scarsità nella domanda. Da allora il capitalismo ricorre ad un espediente dopo l’altro per evitare la crisi. È a partire dagli anni ottanta che l’economia americana viene tenuta fuori dalla recessione in gran parte grazie ad enormi deficit federali, che aggiungono qualche centinaio di miliardi di dollari l’anno di domanda aggregata ed evitano che capacità in eccesso e sovrapproduzione sfuggano di mano. I capitali in eccesso hanno trovato sfogo nella cosiddetta economia FIRE (Finanza, Assicurazioni e Immobiliare), fiorita a partire dagli anni ottanta, nelle bolle speculative gonfiate dall’intervento statale come il Dotcom Boom negli anni novanta, e infine nel boom immobiliare nei primi anni duemila.
Ma c’è una via di sbocco per i capitali in eccesso di cui si parla poco, ed è il debito pubblico (vedi “Superflous labor and state debt,” The Real Movement, 10 marzo). Il debito attuale è attorno ai 17.000 miliardi di dollari. E, contrariamente a ciò che dice la destra, non sta spingendo fuori gli investimenti privati. Allo stato attuale, le imprese si rifiutano di espandere le proprie capacità, o di assumere personale, perché non c’è abbastanza domanda su cui fare affidamento per ripagare gli investimenti. Quei 17.000 miliardi, dunque, non avrebbero trovato altro impiego utile; ma ecco che, grazie alla cortesia dello Zio Sam, chi possiede debito pubblico americano può contare su un rientro garantito… ed esentasse! È una funzione analoga a quella svolta dai contributi agricoli tesi a tenere su i prezzi: i grossi proprietari terrieri ricevono una rendita per i terreni tenuti fuori produzione.
Il modello capitalistico emerso alla fine dell’ottocento – e che lo stato a contribuito enormemente a creare – è sempre dipeso dall’intervento statale su larga scala per mantenere la propria rimuneratività. La grande espansione dello stato, lo stato sociale, l’industria bellica e la spesa in deficit, lungi dal rappresentare un’invasione di quel campo che prima apparteneva al “libero mercato”, sono funzionali alla sopravvivenza del sistema capitalistico così come lo conosciamo noi.
L’idea del Tea Party di pareggiare il bilancio e ripagare il debito pubblico avrebbe l’effetto di togliere questo aiuto essenziale del governo ad un sistema che, anche così, sopravvive appena. Taglierebbe 500 miliardi l’anno di domanda aggregata ad un’economia che a malapena sta a galla. E scaricherebbe 17.000 miliardi di capitale in un mercato già saturo: al confronto, la Grande Depressione fu una passeggiata.
Quello che abbiamo noi oggi non è libero mercato. È un sistema strutturalmente definito dalla collusione massiccia tra capitale e stato, profondamente dipendente dall’intervento statale per la propria sopravvivenza. Il programma del Tea Party distruggerebbe alla base i mezzi di sopravvivenza del capitalismo. Io non sono un keynesiano. Io non voglio salvare il capitalismo. Voglio solo un libero mercato senza particolari privilegi statali per le grandi imprese e i ricchi. E allora, se davvero voi gente del Tea Party volete distruggere il capitalismo, non posso che dire: benvenuti a bordo, compagni!