Di Eric Fleischmann. Originale pubblicato il 16 novembre 2021 con il titolo NFT Suck for Labor. Traduzione di Enrico Sanna.
Dico subito che non sono un tecnofilo. Sono solo un tifoso dell’open-source e delle tecnologie eque, paritarie e decentrate; per il resto, sono a livello di Playstation.[1] Ci sono però certi aspetti del mondo tecnologico e digitale che mi urtano. Ad esempio l’ultima metastasi in fatto di proprietà privata: gli NFT (che forse avete già visto su internet). NFT sta per “non-fungible token” (oggetti non fungibili, ndt), che sono, come spiegano Robyn Conti e John Schmidt su Forbes…
una risorsa digitale che rappresenta oggetti reali, come opere d’arte, musica, elementi ingame e video. Si scambiano online, spesso con criptomonete, e solitamente sono codificati con lo stesso software delle criptovalute.
Esistono dal 2014 ma solo oggi stanno attirando l’attenzione come sistema di compravendita di opere digitali. Da novembre del 2017 a oggi in NFT è stata spesa la cifra incredibile di 147 milioni di dollari.
Sono detti “non fungibili” perché, a differenza delle normali criptovalute, non possono essere scambiati o venduti gli originali. La funzione di base di un NFT è di permettere l’acquisto dei diritti della versione originale di un oggetto che, tramite una blockchain (un elenco decentrato gestito tramite una rete crittografata), può essere autenticato dal possessore originale a prescindere da quante volte e in quanti modi sia stato condiviso.
Scontata la critica convenzionale d’impronta socialista: la proprietà privata è fondamentalmente antisociale, pertanto qualunque diffusione della stessa nel mondo digitale genera soprattutto problemi. Ma una critica più ampia della proprietà intellettuale precede internet di decenni ed è dominio di anarchici individualisti e mutualisti. Così scrive il grande mutualista Benjamin Tucker:
Il monopolio dei brevetti sostanzialmente protegge inventori e autori dalla concorrenza per un periodo lungo abbastanza da permettere loro di estorcere dalle persone un compenso enormemente sproporzionato al servizio offerto, ovvero dà a certe persone il diritto di proprietà, per un periodo di molti anni, su leggi e processi naturali, a cui si aggiunge la capacità di esigere un tributo in cambio dell’utilizzo di una ricchezza che dovrebbe essere liberamente accessibile. L’abolizione di questo monopolio sarebbe per i suoi beneficiari una salutare iniezione di terrore della concorrenza, il che dovrebbe indurli a ritenersi soddisfatti quando per i loro servizi ricevono un pagamento pari a quello ricevuto dai loro dipendenti per il loro servizio, e quando per assicurarsi questo pagamento metteranno sul mercato i loro prodotti ad un prezzo iniziale così basso da non attirare la concorrenza più di quanto non faccia qualunque altro prodotto.
Questa filosofia trova un degno erede novecentesco in Laurance Labadie, per il quale alcune delle principali “restrizioni alla libera produzione e distribuzione sono rappresentate dai brevetti, i diritti d’autore e i dazi”. Oggi Kevin Carson scrive: “se la Nike può pagare un paio di dollari per un paio di scarpe prodotte da uno sfruttatore in Bangladesh per rivenderle a duecento dollari è solo grazie alle protezioni garantite della ‘proprietà intellettuale’. Gran parte del prezzo infatti non rappresenta il costo dei materiali e della manodopera, ma il marchio commerciale”.[2] La proprietà intellettuale, come tutti i monopoli, serve pertanto a limitare la libera produzione e lo scambio volontario, spingendo i prezzi artificialmente al di sopra dei costi di produzione, oltre quell’equilibrio della teoria del valore-lavoro così come interpretato oggi da Laurance Labadie e Carson.[3] I quali scrivono rispettivamente: possiamo dire che, data la libera concorrenza, cioè il libero e equo accesso ai mezzi di produzione, alle materie prime, e a un mercato senza restrizioni, il prezzo di ogni prodotto tende sempre a riflettere il lavoro necessario alla produzione. Ovvero, il lavoro diventa il fattore predominante nella quantificazione del valore”; e, “[i]n un’economia a proprietà distribuita… le preferenze temporali si baserebbero solo sul calcolo che il lavoratore fa del proprio consumo presente contro il consumo futuro. E tutto questo consumo, presente e futuro, sarebbe indiscutibilmente opera del lavoratore.”
Ma perché parliamo della proprietà intellettuale e dei suoi effetti sui prezzi? A tutelare gli NFT è una blockchain, non lo stato, no? Non è proprio un diritto d’autore. No, gli NFT sono altra cosa rispetto al diritto d’autore e altre forme di proprietà intellettuale. Secondo David Lizerbram & Associates, chi possiede NFT…
ha diritto al possesso, alla vendita, al prestito o comunque alla cessione di detto NFT. Non ha il diritto (a meno che non possieda i diritti d’autore) di fare o vendere copie di un’immagine digitale, non può trasferire il diritto d’autore sull’opera, né creare opere derivate basate sull’originale.
In ambito digitale, la questione del “diritto di fare copie” è confusa. Ad esempio, se io compro un NFT e poi lo pubblico su Instagram con su scritto “Guardate che bell’NFT ho comprato!”, sto creando molte copie digitali. Ma oggi questo vale per le opere visive, e l’autore è libero di chiedere a Instagram di rimuovere la copia per violazione dei diritti. Il fatto che io possieda l’NFT non invalida tale richiesta a meno che io non possieda anche il diritto d’autore.
Dunque il prezzo di un NFT non altera direttamente (non in misura significativa, almeno) il prezzo dei beni rispetto ai loro costi di produzione, ma fa qualcosa di simile con il diritto di proprietà di un bene, creando così un mercato artificiale di proprietà di cose invece che di cose. Questo fa crescere il valore del certificato da poco più di zero – i costi di produzione del diritto di proprietà (ma c’è da dire che i costi di mantenimento “del singolo oggetto” con la blockchain meritano attenzione sistemica soprattutto in considerazione delle esternalità ambientali dato il forte uso di energia inquinante e un’attività che, come si vedrà poi, serve a far andare internet con la produzione di tecnologie informatiche) – a prezzi stratosferici dati dalla vendita speculativa dell’oggetto o come “originale” o come parte di un “marchio” NFT. Si crea così un finto valore completamente separato dall’attività necessaria alla sua produzione. Con uno scenario ipotetico, Amanda Yeo spiega questo proliferare di “falsi” valori:
Tu vai a una festa post-covid, o post-apocalittica, e agitando una bottiglia mezzo piena di birra urli nelle orecchie di qualcuno superando il frastuono della tecno.
“Ho dei tweet bloccati di @dril,” confidi, e dici anche @ perché è quello che sei diventato tu. “Come gli originali. Roba mia.”
“Tu non puoi possedere i tweet di qualcun altro,” risponde la tua vittima, per niente impressionata, e dà un’occhiata in giro alla ricerca di qualche amico. “È solo del testo su internet.”
Tu vacilli. “No, non hai capito; li ho tokenizzati. Ho preso l’originale. Tutto… Il resto, i retweet, sono solo copie. Non… I miei hanno un valore.”
Tu non puoi spiegare cos’è questo valore, ma siccome hai pagato due milioni e mezzo qualche valore dev’esserci. I diffusori continuano a battere il ritmo. Il ritmo batte sempre. Ha sempre battuto. Ha battuto tredici anni fa.
Sostanzialmente, è come credere che comprare “mezzo ettaro sulla luna”, o una stella, garantisca lo stesso valore di mezzo ettaro reale o di una stella reale, al punto che puoi rivenderli purché trovi qualcuno come te.
Questa rozza visione distopica dovrebbe preoccupare soprattutto i lavoratori. Primo, come visto, alimenta una cultura, diffusa in particolare su internet, che non capisce o non accetta il lavoro come motore principale del valore; una cultura, da notare, che può essere distrutta solo dall’azione diretta della classe lavoratrice e con la lotta per ampliare la diffusione dei mezzi di produzione e la ricchezza investibile.[4] Da quando si è affermato internet, questo è un grosso problema. Come spiega la Wu Ming Foundation…
Dietro l’apparenza fantasmagorica di internet si nasconde un insieme di relazioni sociali ben definite, che Marx definirebbe relazioni di produzione, di sfruttamento. La retorica internettiana trascura queste relazioni. Si potrebbe parlare di internet per ore, giorni, mesi, e sfiorare appena l’argomento di chi lo possiede, chi realmente controlla i nodi, le infrastrutture, l’hardware. Meno ancora si parla della piramide del lavoro, compreso il lavoro semischiavistico, incorporata nei dispositivi che usiamo (computer, smartphone, lettori digitali e così via) in conseguenza di internet. Ogni giorno le grandi aziende espropriano ricchezza sociale in rete e opprimono i lavoratori di ogni angolo del mondo rimanendo dietro le scene.
La fondazione va poi ancora più a fondo evidenziando come Facebook e altri social – le piattaforme che erano e sono indispensabili alla proliferazione degli NFT (Facebook e Twitter vorrebbero integrarli ancora di più) – sono in gran parte il prodotto del pluslavoro degli utenti. Di fatto…
“Tutto quello che fai su Facebook è pluslavoro perché non sei pagato. Tutti i giorni Zuckerberg vende il tuo pluslavoro, cioè la tua vita (i tuoi dati sensibili, i siti che frequenti e altro), e le tue relazioni. E ogni giorno guadagna milioni, perché lui possiede i [mezzi] di produzione e tu no. Le informazioni sono merce. La conoscenza è merce. Nel post-fordismo, o come vogliammo chiamarlo, è la merce per eccellenza.”
Tornando alla questione più in generale della valorizzazione dell’antilavoro, in una prospettiva marxista è qualcosa che compare in tutti gli scambi di mercato – come ovviamente le transazioni degli NFT, sotto forma di feticismo della merce, con la falsa convinzione che il valore di una merce sia in qualche modo intrinseco, e la conseguente incapacità di vedere il suo valore in quanto lavoro investito. E la scomparsa delle relazioni sociali di cui sopra non è che la versione “in rete” di questo fenomeno. Ma per gli anarchici individualisti e i mutualisti, come abbiamo detto, questo non è, almeno nella misura posta dai marxisti, una condizione universale dello scambio di mercato, bensì una condizione posta da un sistema economico come il capitalismo, che limita la libera concorrenza nella produzione e nello scambio, passando così a definire il valore attraverso l’utilità marginale. Entrambe le parti però concorderebbero probabilmente sul fatto che gli NFT contribuiscono ad incorporare il problema nella tecnologia blockchain.
Aggiungiamo poi che secondo i neoliberali moderati la proprietà intellettuale può diventare indispensabile a proteggere un’opera creativa. Lo stesso discorso viene usato per promuovere gli NFT, ed è così che la cosa mi veniva presentata quando facevo il musicista punk “part-time”. Quanto alla sinistra e i lavoratori tutto ciò può apparire come la conferma dello slogan “il lavoratore ha diritto a ciò che crea”. O perlomeno potrebbe sembrare uno stratagemma di cui può servirsi un grafico, un musicista o uno scrittore per aumentare il proprio profitto. Secondo Conti e Schmidt, infatti…
la tecnologia blockchain e gli NFT offrono a un creativo la possibilità unica di monetizzare le proprie opere. Un pittore, ad esempio, non è costretto a servirsi di una galleria d’arte o di un’asta per vendere le proprie opere. Può venderle direttamente al cliente sotto forma di NFT, che tra l’altro gli permette di tenere per sé una quota maggiore di profitto. Un creativo può anche programmare le royalties in modo da riscuotere una percentuale sul prezzo ogni volta che una sua opera viene venduta a un nuovo proprietario. È una possibilità allettante visto che solitamente, una volta venduta l’opera, non si riceve nulla da ulteriori utilizzi.
Ma la realtà è molto meno rosea e Yeo spiega benissimo perché:
Si dice che gli NFT siano un vantaggio per i grafici digitali perché offrono la possibilità di essere pagati per il proprio lavoro. Oggi capita spesso che le immagini vengano facilmente scaricate, duplicate e diffuse online senza neanche dare credito all’autore. L’NFT autentica un’opera, le attribuisce valore, stimola il mercato dell’arte permettendo ai collezionisti di collezionare. Ma davvero si tratta di un buon uso delle criptovalute?
Io dico: se vuoi un’opera d’arte unica, commissionala all’artista. Se vuoi che l’autore sia compensato per la propria opera, contatta direttamente l’artista. Se ti sta a cuore il futuro del mercato delle opere d’arte, allora rivolgiti a un artista.
Per giunta l’NFT neanche garantisce che il denaro vada all’autore. Allo stato attuale, niente impedisce a qualcuno di trasformare in NFT l’opera di qualcun altro, dichiararla sua e trarne profitto. Di fatto sta già succedendo. C’è anche un servizio di Twitter che trasforma in NFT ogni tuo tweet anche se non l’hai scritto tu: basta metterci un tag.
La tecnologia blockchain, in particolare la criptomoneta, è sempre più accessibile, spuntano dappertutto spuntano cripto bancomat e sempre più paesi approvano l’uso delle criptovalute. Come dice Jim Barth, “inizialmente si trattava di un movimento di nicchia sostenuto da pochissimi iniziati, ma sta già seguendo la traiettoria del cellulare, degli acquisti online, dei pagamenti elettronici e di altri sviluppi comportamentali legati alla tecnologia. Tutte queste innovazioni partono in sordina, raggiungono una massa critica e si diffondono massicciamente.” Barth nota anche come anche “i più diffusi sistemi di pagamento, compreso Paypal, diano la possibilità di comprare e vendere bitcoin, o frazioni di bitcoin, direttamente dal proprio conto. Sempre più aziende tecnologiche, come Square Inc., accettano pagamenti in bitcoin e tengono parte delle loro riserve liquide in moneta digitale. Anche Visa si è gettata nella mischia. Coinbase, il principale mercato di criptovalute statunitense, si appresta ad offrire una carta di debito Visa con cui spendere bitcoin dal proprio conto Coinbase Visa.” Ora che la sua popolarità aumenta, è bene che si sappia quale terribile, stupida realtà gli NFT rappresentano per grafici, musicisti, scrittori e altri artisti.[5] Per il lavoratore, gli NFT sono una fregatura.
[1] Vedi Kevin Carson, The Homebrew Industrial Revolution: A Low-Overhead Manifesto, Karl Hess’s Community Technology, e E.F. Schumacher, Small Is Beautiful: Economics as if People Mattered.
[2] Qui i diversi tipi di proprietà intellettuale – brevetto, diritto d’autore, marchio commerciale – hanno lo stesso effetto come strumenti di monopolio.
[3] Odiati dagli economisti! Sappiatelo!
[4] Nel contesto di internet e le sue tecnologie, la fondazione Wu Ming vede tutto ciò come una “alleanza a livello mondiale tra ‘attivisti digitali’, operatori della conoscenza e dell’industria elettronica.” Ma poi aggiunge che “i modi di questa alleanza sono tutti da scoprire.”
[5] La miglior cosa per un creativo è e sarà sempre il permesso dell’autore o sistemi simili del common digitale e intellettuale. Come dice Carson, per esempio, “la condivisione di file ha mandato in fumo una montagna di introiti dell’industria discografica. E si tratta di perdite a carico delle case discografiche e dei loro profitti. Gli autori non hanno subito perdite significative; anzi, probabilmente con la condivisione hanno aumentato le vendite.” Nel mio piccolo di musicista punk (vedi i miei progetti Consumerist, Manbitesdog, e Soy.), rendere di ampio e immediato dominio la mia musica ha fatto crescere il seguito e incoraggiato la gente a comprare cassette, magliette e altro. Questo fenomeno è una costante del settore creativo. Come Carson, anch’io credo che: “una libera cultura va a vantaggio di consumatori, autori e la cultura in generale. Gli unici a non avere vantaggi sono le (parassitarie) aziende. Buon viaggio!”