Di Kevin Carson. Originale: On the Cuba Embargo, and Free Trade – Real and Imagined, pubblicato il 26 luglio 2021. Traduzione di Enrico Sanna.
L’entità del danno economico causato dall’embargo contro Cuba è stato ultimamente oggetto di dibattito. Qui non m’interessa parlare specificamente di Cuba, ma di quello che l’ideologia neoliberale chiama genericamente “libero commercio”, oggetto di un’interessante discussione sorta ai margini della questione cubana.
Il mio amico Adam Bates su Facebook dice:
Se i principi economici su cui si basano i commenti della sinistra a proposito dell’embargo cubano li applicassero ad ogni caso, e non solo a questo caso particolare, avremmo una base comune molto più ampia e saremmo molto più d’accordo.
È un argomento che ho sentito spessissimo ultimamente: se la sinistra si oppone all’embargo vuol dire che ritiene il commercio qualcosa di indispensabile e desiderabile. Se fosse coerente, quindi, dovrebbe sostenere anche il libero commercio in generale.
Ad esser precisi, in ballo non è il libero commercio. Nessun potere importante negli Stati Uniti vuole il libero commercio, quasi tutti quelli che pubblicamente invocano il “libero commercio” – compresi alcuni o molti libertari – nella pratica vogliono esattamente il contrario.
Qualcuno ha risposto così al ragionamento di Adam:
Io credo che gran parte della sinistra concorderebbe sul fatto che il commercio è in qualche misura indispensabile a tutte le nazioni, capitaliste o socialiste che siano. Per molti di noi, la questione è che gli accordi di libero mercato voluti dai poteri liberali dànno ai capitalisti il potere incontrastato di togliere l’aria ai produttori locali ed estrarre ricchezza dal paese.
Al che lui ha risposto:
Ma allora perché vi lamentate dell’embargo cubano? Perché non lo elogiate dato che protegge Cuba dallo sfruttamento economico?
Io credo invece che il problema stia nell’incapacità di distinguere tra scambio reciprocamente vantaggioso e “sfruttamento”.
Ma la questione non è un aut-aut. Dire che in una transazione la parte sfruttata ha un minimo di vantaggio (cosa ovvia), o che è necessaria, non contraddice lo sfruttamento. Non contraddice il fatto che una funzione necessaria abbia luogo in termini svantaggiosi per una parte. È come i prezzi monopolistici, in cui la parte dominante, grazie al suo grande potere economico, può impostare i prezzi in modo da massimizzare gli introiti; così che il prezzo, invece di attestarsi ad un punto di equilibrio che rispecchi il costo necessario a portare i beni sul mercato senza rendita economica, è impostato in maniera tale da dare al compratore quel minimo di valore che lo inviti a comprare ma facendogli pagare più del valore equo di mercato.
Se avveleni qualcuno e poi gli vendi a mille dollari un antidoto che ti costa un dollaro, certo quella persona ne ha un giovamento, sarebbe peggio se l’antidoto fosse vietato. Ma ciò non toglie che si tratta di sfruttamento dato dal differenziale di potere. Il commercio internazionale è truccato da un sistema di poteri che funziona allo stesso modo.
Il capitalismo concede quel minimo di libertà e utilità che gli permette di esistere, massimizzando al contempo la rendita che può ricavare chi sta in alto. Le “liberalizzazioni”, le “riforme del libero mercato” e il “libero commercio” di cui parlano pensatoi libertari finanziati dai miliardari, politici e opinionisti di destra, non è mercato o commercio libero. Quei programmi che parlano di un cosiddetto “libero mercato” o “libero commercio”, e che sono promossi da lobby capitaliste e pensatoi al soldo dei miliardari, puntano ad eliminare certi interventismi e protezionismi statali lasciando solo quelli che sono ancora utili a loro, oppure ad aggiungere nuovi interventi statali a favore del loro modello di profitto laddove le condizioni attuali lo richiedono. La libertà è permessa solo nella misura in cui massimizza un livello sostenibile di estrazione di ricchezza.
Ecco allora che “libero commercio” significa abbassare le barriere doganali mantenendo o rafforzando tutti quei monopoli che servono alle aziende transnazionali per i loro profitti. Significa rafforzare il protezionismo della proprietà intellettuale, che consente a queste aziende di appropriarsi di ciò che viene nominalmente prodotto in regime di esternalizzazione. Significa usare la schiavitù del debito e i programmi di adeguamento strutturale del fondo monetario per imporre la “privatizzazione” e l’esclusivizzazione di ogni genere di risorse. Significa costringere i governi delle ex colonie, tramite istituzioni multilaterali e minacce d’invasione o di golpe, a fare da poliziotto per il capitale occidentale, a soffocare i movimenti dei lavoratori e quelli per le riforme agrarie, e ad imporre la proprietà capitalista ai beni comuni depredati.
Qualche commentatore ha risposto così all’intervento di Adam:
Il problema di Stati Uniti & Co. è che generalmente impongono l’egemonia liberale con due possibilità: zero o cento per cento. Cuba non vuole cento e per punizione si prende zero.
E Adam ha risposto:
Bè, il commercio o è libero o non è. Vuoi forse che gli Stati Uniti impongano un mezzo embargo?
Qual è il tanto giusto di libertà da concedere? Forti dazi?
(…)
Se McDonald’s vuole aprire quindici attività a Cuba, dovrebbero permetterglielo? Se la Nike vuole aprirci una fabbrica, dovrebbero permetterglielo?
(…)
La mia impressione è che senza l’embargo il regime cubano sarebbe collassato, o si sarebbe riformato radicalmente, già decenni fa.
HBO, turismo, nuove auto e McDonald’s faranno in dieci anni quello che cinquant’anni di violenza e dimostrazioni di forza non hanno fatto.
In tutta onestà verso il commentatore, a me sembra chiaro che per “cento per cento” non intende esattamente libero commercio, ma un’economia aperta al cento per cento al dominio di McDonald’s, HBO e altri, alle condizioni che vogliono loro. Tutti quegli esempi di “libero commercio” elencati da Adam sono in realtà esempi di aziende il cui modello di profitto dipende interamente da una vasta gamma di misure protezionistiche. L’ideologia neoliberale lo chiama “libero commercio” perché non comporta dazi o restrizioni alle importazioni.
Se Cuba dovesse aprire la propria economia a quel genere di “libero commercio” di cui parla gran parte dei capitalisti e degli opinionisti libertari istituzionali, cadrebbe al cento per cento sotto il dominio di un ordine aziendale globale inerentemente protezionistico, sfruttatore e estrattivistico. Aprire il commercio, ma non ai termini imposti da McDonald’s, Nike o il consenso di Washington, non è un mezzo embargo. Mezzo embargo è semmai quello che la destra libertaria chiama “libero commercio”.
Ora immaginiamo invece che Cuba o qualche altro paese ex coloniale adotti un vero regime di libero mercato alle proprie condizioni, non del genere promosso dal consenso di Washington. Immaginiamo che vengano eliminati i dazi, così da permettere importazioni illimitate, ma senza tutte quelle forme di protezionismo che rappresentano la linfa del capitalismo globale. Ovvero:
1) Brevetti e marchi commerciali statunitensi non contano e i produttori cubani possono produrre per il mercato locale imitazioni di scarpe e altri prodotti industriali Nike… senza il marchio Nike.
2) Non valgono le leggi sul franchising che dànno a McDonald’s il potere di imporre le condizioni di vendita dei Big Mac.
3) Non sono riconosciute le leggi sul copyright e le licenze, che permettono a HBO di vivere di rendita.
4) Sono annullati i debiti contratti con la Banca Mondiale e le altre istituzioni private.
5) Le piantagioni di canna da zucchero diventano cooperative slegate dalle sanguisughe di Miami (lo stesso principio si applicherebbe ovviamente, tra l’altro, anche alle miniere sudafricane e al petrolio nigeriano, che sarebbero gestiti come un bene comune).
Questo sarebbe davvero libero commercio, e non credo che piacerebbe a HBO, McDonald’s e altri. Ma sono anche sicuro che davanti ad un vero libero commercio come questo gli Stati Uniti non si fermerebbero alle minacce. Joe Biden, Neera Tandem, Dick Cheney e Mike Pompeo strillerebbero allo stato fallito, e la CIA con tutta la macchina golpistica partirebbe in quarta.
L’espressione “il commercio porta vantaggi reciproci” ha diversi significati secondo cosa si intende per “commercio”. Quando ne parlano i telegiornali e i pensatoi libertari di destra, è sostanzialmente falsa. Quello che quasi tutto il parlatoio convenzionale chiama “libero commercio” va a beneficio soprattutto di chi sta in cima alla catena alimentare. Il libero commercio di cui parlavo prima, invece, è quello che migliora la vita di tutti tranne i profittatori e i parassiti.
Meglio allora un vero mercato libero, del tipo che non consegna un intero paese ai vari McDonald’s, Nike, HBO e industrie automobilistiche. Che siano i paesi del sud del mondo ad imporre il libero mercato a McDonald’s e HBO, non il contrario. E se avverrà su vasta scala, sarà come una carica di dinamite alle fondamenta dell’ordine aziendale transnazionale. CIA, WHISC e tutta la macchina golpistica staranno a guardare.