Un sondaggio recente della Gallup ha scoperto che gli americani, con un margine di 52 contro 45, pensano che lo stato “debba… ridistribuire la ricchezza aumentando le tasse sui ricchi” (Matt Yglesias, “Americans want the government to ‘redistribute wealth by heavy taxes on the rich,’” Vox, 5 maggio). Tra il 1940, quando la domanda fu posta per la prima volta, e il 2005, quando c’è stata l’inversione, i no hanno sempre prevalso sui sì. Al di sotto dei 34 anni, la polarizzazione è ancora più accentuata: 59 sì contro 38 percento no.
È un bene che le persone, oggi più che mai, si accorgano, anche se in maniera distorta, che il sistema è orientato a favore dei ricchi, che ricavano gran parte delle loro ricchezze dagli altri. Il problema è che, così come sono inquadrate, domanda e risposta danno per scontato che l’attuale concentrazione di ricchezza sia una realtà inevitabile, a meno che lo stato non adotti politiche che la impediscano.
In realtà, l’attuale sistema è già il risultato di una pesante tassazione e ridistribuzione. Una tassazione, però, che pesa su di noi, mentre la ridistribuzione va a vantaggio dei ricchi. Gran parte della ricchezza dei plutocrati è una forma di assistenza sociale pagata con le tasse dalla maggioranza che lavora.
Per lo più, queste tasse non sono quelle della dichiarazione dei redditi che fate ogni quindici di aprile, né sono le tasse sugli acquisti fatti al supermercato, anche se parte di queste si trasforma in un sussidio di stato alle grandi aziende e ai ricchi. Il grosso, invece, è sotto forma di prezzi gonfiati dei beni e dei servizi che consumiamo. Noi paghiamo di più i beni di cui abbiamo bisogno perché lo stato protegge i monopoli, che a sua volta permettono ai produttori di fare prezzi più alti. Questo equivale ad una tassa. È assistenzialismo aziendale. È come dare i soldi al fisco, che poi li passa ai produttori.
Quando si innalza artificialmente una rendita o un’ipoteca perché lo stato protegge la proprietà assenteista di enormi terreni liberi, terreni che i ricchi hanno recintato proprio per tenerli liberi, ecco che state pagando una tassa ai proprietari terrieri. Quando si paga il 18% di interesse sulla carta di credito per via di leggi che impongono il corso forzoso o delle norme che regolano l’attività bancaria e che limitano la libera concorrenza nella fornitura del credito, ecco che state pagando una tassa agli usurai. Quando queste limitazioni alla fornitura del credito, o altre barriere normative al lavoro autonomo, spostano artificialmente il baricentro del potere contrattuale dal lavoro al capitale, così che i lavoratori sono in concorrenza tra loro per il posto di lavoro invece del contrario, la contrazione dello stipendio che ne segue è una tassa pagata ai capitalisti. Quando un medicinale brevettato, o un brano musicale, un software protetto da copyright, hanno un prezzo che è il 2.000% del costo di produzione, quella è una tassa che va a chi detiene la “proprietà intellettuale”. E quando le normative impongono forme di produzione meno efficienti, o la “proprietà intellettuale” permette ai produttori di inventare prodotti usa e getta che invecchiano rapidamente, ecco che il costo aggiuntivo di questo spreco è una tassa che si paga per tenere i livelli della domanda artificialmente alti e assorbire la sovrapproduzione.
Le ore che dobbiamo lavorare in più per pagare queste rendite insite nei diritti di proprietà artificiali o nello spreco, in tutto ciò che compriamo, rappresentano forse gran parte delle ore lavorate. Al confronto, anche l’aliquota massima pagata dai megaricchi non è nulla.
Da sempre, lo stato esiste per tassare lavoratori e produttori e dare una rendita alle classi economiche di potere che controllano lo stato. A meno che non applichino ai ricchi le stesse aliquote che applicano a noi, il che significa spogliarli praticamente di tutto, questi finiranno sempre per guadagnarci. Il programma fiscale dei “progressisti” non fa altro che limitare un po’ il tasso di rapacità. Sarebbe molto più sensato abolire tutti i monopoli legalizzati che permettono ai ricchi di derubare i poveri.