Un articolo recente a proposito delle elezioni britanniche citava una lettera che ammoniva gli elettori sostenendo che un governo laburista avrebbe danneggiato la ripresa economica del paese. Avallata dai leader delle maggiori industrie britanniche e inviata al quotidiano The Telegraph, la lettera sosteneva che l’elezione di un governo conservatore avrebbe mandato questo segnale al resto del mondo: “la Gran Bretagna è favorevole agli affari” e prosegue fermamente sulla strada tracciata da David Cameron con il suo taglio fiscale alle aziende. L’articolo continuava dicendo che l’attacco di Ed Milliband alle aziende aveva riportato l’orologio indietro agli anni ottanta, riportando la politica britannica “indietro alla vecchia formula della lotta di classe che qualcuno è abbastanza vecchio da ricordare.” Il titolo dell’articolo (“Lotta di classe contro libero mercato: non l’abbiamo già visto?”) è particolarmente interessante perché dà per scontato che la lotta di classe e il libero mercato stiano ai poli opposti della politica, e che non si possa avere l’una e l’altra cosa assieme.
L’idea che libero mercato significhi dominio corporativo e monopolizzazione è tra i presupposti di base di quasi tutte le discussioni politiche di oggi. Raramente messa seriamente in discussione, questa premessa sulla relazione di causa tra mercati e ingiustizia economica è diffusa anche nel linguaggio dei sostenitori del presunto libero mercato. Tutti, da una parte e dall’altra del dibattito politico, sembrano dare per scontato che chiunque si occupi di problemi come la diseguaglianza economica debba opporsi al libero mercato, e che essere antibusiness e essere antimercato siano la stessa cosa.
Da anarchico individualista, non credo a questa versione della realtà. Al contrario, credo che esistano buone ragioni per rigettarla. Tanto per cominciare, visti gli enormi privilegi e favoritismi concessi alle grandi aziende nel sistema economico, sembra strano che le discussioni finiscano sempre per accusare il puro e semplice libero scambio per le colpe commesse dalle grandi aziende. Apparentemente, è di moda pensare che il “capitalismo clientelare” sia un’eccezione al libero mercato, che ovviamente è un sistema basato sulla pura libertà d’impresa. Sarebbe molto più realistico pensare al capitalismo internazionale come ad un sistema caratterizzato essenzialmente dalla violazione del nostro concetto, normale e assennato, di libero mercato.
Se per “libero mercato” s’intende semplicemente un sistema in cui individui liberi possono associarsi e contrattare tra loro senza interferenze esterne, sotto la dovuta protezione del loro legittimo diritto alla proprietà privata, allora il sistema attualmente in uso in tutto il mondo è tutt’altro che libero mercato: tutto il sistema è l’eccezione alla norma. Forse quel fenomeno chiamato capitalismo storico non merita il beneficio del dubbio da parte dei libertari sostenitori del libero mercato. In questo caso, forse, chi difende coerentemente la competizione aperta, la proprietà privata e la sovranità dell’individuo in realtà appartiene alla sinistra radicale, è contro l’attuale sistema economico e rivendica i diritti di poveri e diseredati.
Allora il libero mercato è esso stesso una forma di lotta di classe. Non una rivolta violenta volta a riprendere il maltolto, ma un movimento graduale in direzione della libertà e dell’equità, una lenta sconnessione della politica dall’economica. In Gran Bretagna come nel resto del mondo, i lavoratori non hanno bisogno dello stato che garantisca loro particolari riconoscimenti o nuove protezioni. Al contrario, tutto ciò che occorre loro per recuperare il potere di contrattazione perduto è l’abolizione dei tanti trattamenti di favore che lo stato garantisce alle grandi aziende: agevolazioni, requisiti e licenze protettive, e leggi sulla proprietà intellettuale che impediscono alle persone della classe lavoratrice di spianare la propria strada e uscire dall’economia corporativa.