Scrivo spesso della scarsità artificiale come sorgente di rendita per le classi possidenti, e sul ruolo che ha lo stato nell’imporla. Ma l’altra faccia della moneta è il ruolo che ha lo stato nel rendere artificialmente abbondante, per le classi privilegiate, ciò che è scarso in natura. Un esempio lo vediamo dalle notizie che parlano della politica che circonda gli oleodotti e i gasdotti nel Nordamerica.
All’inizio dello scorso mese di dicembre, il presidente americano Barack Obama ha approvato il progetto di un gasdotto che porterà gas liquefatto o petrolio ultra leggero dall’Illinois fino ad Alberta, sul confine canadese, dove verrà utilizzato per sciogliere le sabbie bituminose da cui estrarre il petrolio, che a sua volta sarà pompato nuovamente a sud verso gli Stati Uniti attraverso l’oleodotto Keystone XL. Due settimane più tardi, alcuni membri di un gruppo contrario all’oleodotto, Great Plains Tar Sands Resistance, sono stati arrestati con la finta accusa di “terrorismo” (pare che alcuni brillantini caduti dagli striscioni rappresentassero una “minaccia biochimica”). I componenti del gruppo si erano incatenati alla sede centrale della Devon Corporation per protestare contro i suoi legami con la TransCanada e l’industria delle sabbie bituminose di Alberta.
Se c’è qualcosa che illustra il principio dell’abbondanza artificiale, questo è il petrolio ricavato dalle sabbie bituminose di Alberta, nonché la mole degli interventi statali necessari a renderlo proficuo. È una classica bolla economica: prima si investono grossi capitali per mettere in funzione i pozzi, e poi la produttività va in caduta rapida (meno 38% solo il primo anno). È una bolla che non sarebbe mai nata se lo stato non avrebbe fatto pendere l’ago della bilancia da una parte con il suo peso. Gli oleodotti sono costruiti su terreni rubati con gli espropri (la maggior parte da popolazioni amerindie in violazione dei trattati, a volte addirittura profanando cimiteri sacri). Gli oleodotti non hanno l’obbligo di contribuire al Fondo Comune Contro i Versamenti di Petrolio (anche se, come abbiamo visto altre volte, in caso di grossi versamenti anche le petroliere e le piattaforme petrolifere hanno una responsabilità limitata ad una piccola frazione del danno probabile). Gli standard sull’inquinamento dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente, basati come sono su decisioni politiche e su un minimo denominatore comune, non riconoscono la responsabilità civile per gli illeciti commessi contro le comunità confinanti con l’inquinamento dell’aria e dell’acqua. E poi ci sono le leggi “anti-terrorismo”, usate come pretesto per contrastare le tattiche tradizionali di disobbedienza civile degli ambientalisti con pene molto forti.
Nell’economia globale, gli interessi della grande industria dipendono tanto dall’abbondanza artificiale quanto dalla scarsità artificiale. L’economia americana del ventesimo secolo aveva come modello un crescita estesa, basata su risorse rese artificialmente abbondanti e a buon prezzo più che su un uso più efficiente delle risorse esistenti. Il risultato è un’industria agricola che massimizza la produzione per ora di lavoro piuttosto che per ettaro, con un’efficienza nello sfruttamento della terra che è molto più bassa delle tradizionali forme di coltura intensiva, come l’orticoltura pensile. Ci sono anche “agricoltori” capitalisti che ricevono soldi dallo stato per tenere incolti grossi tratti di territorio (quando si dice un buon investimento fondiario), più o meno come succede nell’America latina, dove le haciendas e le latifundias tengono incolta la maggior parte dei terreni mentre gli altri, poveri di terre coltivabili, si vendono come braccianti stagionali.
La nostra economia, dall’industria al dettaglio, si basa su una tecnologia produttiva inefficiente e fortemente capitalizzata, un sistema di trasporti di lungo raggio basato su un uso eccessivo di autostrade pagate dai contribuenti, comunità motorizzate, una crescita estensiva delle città e la monocultura dei sobborghi.
Nel terzo mondo, l’industria agricola esporta i raccolti prodotti in terre rubate ai contadini indigeni, mentre le risorse naturali sono controllate dalle stesse società che le rubarono durante l’epoca coloniale, come la Shell in Indonesia e Nigeria, l’industria mineraria in Sudafrica, l’industria del rame nelle Ande, eccetera.
Questa abbondanza artificiale, come la scarsità artificiale, è assolutamente necessaria ad impedire il calo dei profitti sotto il capitalismo clientelare. Come nota James O’Connor in The Fiscal Crisis of the State (La Crisi Fiscale dello Stato), una fetta sempre più grande dei costi operativi della grande industria viene scaricata sulla società tramite le tasse.
Ma così come lo stato impone un tetto massimo ai costi di produzione, con la scarsità artificiale mette anche un limite minimo ai loro introiti. I regolamenti che impongono l’investimento di grossi capitali per la produzione tagliano fuori efficacemente il pericolo rappresentato dalla concorrenza delle piccole cooperative e dei singoli, le cui tecnologie produttive, effimere ed a basso costo, consentono di avere una produzione più efficiente di quella dei dinosauri di Wall Street. La forma principale di scarsità artificiale è la “proprietà intellettuale”, che con le sue rendite grava sui costi affrontati da altri produttori più dei costi di produzione veri e propri.
La buona notizia è che sia la scarsità che l’abbondanza artificiali non sono sostenibili. Il monopolio della “proprietà intellettuale” da cui dipende la scarsità artificiale sta diventando inapplicabile, come testimonia l’industria discografica. E come ha notato lo stesso O’Connor, gli incentivi pubblici ai costi di produzione inducono la grande industria a chiedere di più, fino a superare le capacità dello stato, che va in fallimento nel tentativo di soddisfare le richieste. Saranno queste due crisi parallele a distruggere il nesso tra lo stato e la grande industria.