Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 3 agosto 2021 con il titolo How NOT to Argue Against the Existence of Monopoly. Traduzione di Enrico Sanna.
Pare che da qualche settimana Liz Wolfe abbia usurpato il ruolo che era di Elizabeth Nolan di difensore capo delle piattaforme tecnologiche su Reason. Nel suo ultimo articolo sul tema, “Google CEO Sundar Pichai Is Right: Companies That Dominate Today May Be Gone Tomorrow” (26 luglio), l’argomento di fondo è semplice: “Chi oggi critica le grandi aziende tecnologiche dimentica che le aziende con una significativa quota di mercato vanno e vengono… I favorevoli ad un antitrust nel 2020 danno stranamente per scontato che non ci sarà distruzione creativa, nonostante la realtà storica dica il contrario.”
Certo non è solo Reason. Mi è capitato ultimamente di vedere libertari di spicco che sui social prendevano in giro la Warren perché su Twitter denunciava il monopolio di Facebook (perché su Twitter criticava Facebook, capito?). A parte la gaffe, quando in un mercato bipolare la Warren usa una piattaforma per accusare l’altra di monopolio, ignora il fatto che Facebook ha spodestato Myspace, eccetera.
Quello che tutte queste discussioni non afferrano è che è la struttura stessa del mercato a determinare comunque il monopolio, non il fatto che periodicamente qualche gigante ne elimini un altro in un mercato che rimane sostanzialmente immutato nel tempo. Non è tanto il fatto che le critiche “dimenticano” che i giganti vanno e vengono, quanto il fatto che ciò è irrilevante ai fini dell’esistenza del potere monopolistico.
Quel che conta è che, sì, Facebook e Twitter un giorno o l’altro potrebbero essere rimpiazzati da qualche altro gigante dei social, ma un cambiamento vero si avrà solo quando ci sarà una comunità di utenti di centinaia di milioni con un potere di rete sufficiente a scatenare una migrazione di massa da una piattaforma all’altra. Date le dimensioni necessarie – centinaia di milioni di persone, almeno –, ne consegue necessariamente che la stragrande maggioranza del mercato dei social per il momento resterà sotto il controllo di una manciata di piattaforme.
Questa struttura di mercato, inoltre, è il risultato di un regime giuridico protezionistico – un regime che né Wolfe né Brown si son mai degnati di ammettere in nessuno dei loro pezzi che narrano le vicende del vecchio signor Zuckerberg contro la Democrazia Dollarata – che impone un forte effetto di rete come condizione per diventare protagonisti del settore.
Nello specifico, si tratta di leggi che impongono barriere all’ingresso che richiedono enormi dimensioni minime anche solo per competere con i bestioni. Impedendo così ai piccoli di crescere granularmente o modularmente e rosicchiare quote di mercato dagli operatori storici. Basta vedere quello che accade a Mastodon e le altre attività di Fediverse. Nonostante l’ondata di profughi che hanno rumorosamente abbandonato Twitter per approdare a Fediverse in risposta alla gestione maldestra di Jack Dorsey, invitando altri a fare altrettanto, Fediverse non è mai andato oltre il 2% degli utenti di Twitter. Mastodon e gli altri componenti di Fediverse rappresentano un mercato di nicchia, e rimarranno così finché resteranno le attuali basi legali che garantiscono il potere di mercato di Twitter. Io possiedo un account su Octodon.social, ma lo uso raramente perché 1) manca gran parte delle mie amicizie di Twitter, 2) non voglio abbandonare le amicizie più intime che ho su Twitter passando esclusivamente a Fediverse e 3) non ho né tempo né attenzione da dedicare a due piattaforme. La questione ruota sempre attorno all’effetto di rete, insomma.
Io parlo del potere monopolistico legale di Facebook e Twitter, ma cosa significa in particolare? Il protezionismo legale di fatto proibisce quella che Cory Doctorow chiama interoperatività antagonistica. Ovvero impedisce la nascita di entità indipendenti gestite da utenti che, ponendosi a cavallo di piattaforme come Facebook e Twitter, ne importino gli elenchi dei contatti e permettano la comunicazione tra piattaforme; il tutto senza il permesso di Facebook e Twitter. Come spiega Doctorow:
Entità alternative a Facebook, come Diaspora, potrebbero utilizzare password e login dei loro utenti per captare i messaggi diretti a loro, così che questi potrebbero rispondere ai messaggi utilizzando Diaspora, senza essere controllati da Facebook. Gli utenti di Mastodon potrebbero parimenti ricevere e inviare messaggi su Twitter senza toccare i server di Twitter. Potrebbero nascere centinaia, migliaia di servizi, che darebbero agli utenti la possibilità di evitare seccature e spronare interessanti contributi da parte di altri utenti sia dei social tradizionali che dei nuovi.
Dato l’attuale regime legale, che proibisce queste attività, le barriere all’ingresso rappresentate dall’effetto di rete significano che o assumi dimensioni gigantesche o chiudi. Per cui non importa se qualcuna di queste piattaforme giganti viene rimpiazzata da qualcun’altra simile, il mercato sarà sempre dominato da quelle poche piattaforme grandi abbastanza da generare effetto di rete. Al contrario, con l’interoperatività antagonistica si elimina completamente la necessità di un effetto di rete, la gente potrebbe migrare verso altre attività con regole e interfacce di loro gradimento, pur mantenendo la propria presenza su Facebook e Twitter.
Facebook e Twitter diventerebbero Meta-Facebook e Meta-Twitter, semplici infrastrutture o piattaforme che ospitano centinaia o migliaia di entità autonome separate, e il loro effetto di rete diventerebbe come lo scheletro di una mucca divorata dai piranha. Lo stesso potrebbe accadere con un Meta-Amazon agganciato a venditori indipendenti, Meta-Uber utilizzata come piattaforma per le cooperative di ridesharing, e così via. È come convertire un centro commerciale Walmart in un bazar con mille chioschi, lasciando a Walmart le luci, il condizionamento e le pulizie.
Ma è vietato. Viviamo in un regime che ti impone un minimo di capitale e risorse che ti permetta di ottenere l’effetto rete che hanno Zuckerberg o Dorsey, se vuoi prendere il loro posto. Ecco alcuni esempi specifici (citati sempre da Doctorow) di leggi in tal senso:
Il CFAA è teoricamente uno statuto che combatte l’intrusione informatica. Punisce chi “utilizza oltre il limite autorizzato” un computer non di sua proprietà. Già quando passò, oltre quarant’anni fa, la legge fu criticata da esperti e operatori perché vaga. Un giorno, avvertirono, avrebbe potuto essere sfruttata per colpire chi per normali attività con il proprio computer si connette ad un server e il proprietario di questo server sottopone l’autorizzazione a pesanti “condizioni d’uso” e “termini di servizio”…
Quarant’anni dopo, le paure trovano conferma: oggi il CFAA è usato per minacciare intimidire, querelare o anche arrestare persone che compiono attività altrimenti perfettamente lecite, semplicemente perché hanno violato questo o quell’altro termine di servizio. La metastasi dei termini di servizio, divenuti poemi scritti in impenetrabile burocratese, ha creato un mondo in cui tutto ciò che ostacola le ambizioni commerciali dei monopoli digitali è potenzialmente un reato.
Poi c’è il comma 1201 del Digital Millennium Copyright Act del 1998, voluto da Bill Clinton, che trasforma in reato qualunque tentativo di “aggirare i sistemi che controllano l’accesso” (ovvero il DRM) a materiali coperti da diritto di copia…
Messi assieme, CFAA e DMCA offrono alle aziende digitali la possibilità di servirsi di una oscura dottrina legale mai approvata dal Congresso ma normalmente imposta in tribunale: attacco al modello aziendale.
…Uber e Lyft hanno prolissi termini di servizio pieni di norme che regolano il modo in cui si è autorizzati a comunicare con i loro server. Questi termini vietano l’uso dei server per localizzare gli autisti se non per prenotare una corsa. Non si può contattare un autista, cancellare la prenotazione e farne un’altra con un servizio alternativo.
Inoltre le applicazioni di Uber e Lyft sono criptate, e se si vuole fare ingegneria inversa occorre decrittarle (magari catturando un’immagine del codice mentre viene eseguito in un telefono virtuale simulato al computer). Decrittare un’applicazione senza permesso significa “aggirare i sistemi che controllano l’accesso” a materiale coperto da copyright (il materiale di cui è fatta l’applicazione è coperto da copyright).
Passiamo all’altra obiezione, ovvero che l’esistenza di Twitter dimostra in qualche modo che Facebook non ha un potere monopolistico. Tecnicamente, è così. Come dice Lionel Hutz, dire così è tecnicamentecorretto, è la miglior forma di correttezza. Ma quello di Facebook e Twitter è un potere oligopolistico. Tra le due non ci sono molte differenze. Le relazioni di potere tra aziende e consumatori sono praticamente le stesse in entrambi i casi.
Che si tratti di mercati monopolistici o oligopolistici, le aziende non stanno lì ad accettare il giusto prezzo, lo impongono. In un mercato oligopolistico si impone un sistema in cui “chi domina determina i prezzi”, le aziende minori sono costrette ad accettare i prezzi imposti dalle aziende dominanti. E poi in un mercato oligopolistico le aziende possono fare molto per limitare la concorrenza in materia di modello aziendale, design del prodotto e altro, evitando accuratamente qualunque miglioramento del prodotto. Ricordate l’accordo informale di sessant’anni fa fra le tre principali case automobilistiche, che prevedeva di non introdurre certe innovazioni finché tutte e tre non fossero state pronte?
Ovviamente, il caso dei social è diverso perché sono gratis; la fonte di reddito sono i tuoi occhi. Ma la concorrenza limitata quanto a modello aziendale è la stessa di qualunque altro mercato oligopolistico. Facebook e Twitter agiscono piuttosto arbitrariamente e in maniera autoritaria, spesso introducono cambiamenti nell’interfaccia poco rispettosi della volontà della maggioranza degli utenti. Aspetto e gestione di Facebook sono terribili perché l’unica alternativa è Twitter, e viceversa.
Elizabeth Warren ha ragione. Facebook è un monopolio che esercita un potere incontrollato sui suoi utenti, un potere in combutta con lo stato. A sbagliare è Liz Wolfe, non i nemici delle aziende tecnologiche.
Ma anche la proposta della Warren, che vorrebbe spezzettare il monopolio di Facebook e Twitter, è sbagliata. Come tutti i liberal vecchio stampo, vede l’economia aziendale attraverso le lenti della produzione di massa novecentesca, e vorrebbe spezzettare Facebook così come accadde con la Standard Oil. Ma è il potere di Facebook che dev’essere spezzato. E per farlo non servono nuove leggi, basta eliminare quelle vecchie che impediscono a noi di spezzarlo. O che ci impediscono di sviluppare gli strumenti tecnici per aggirare il vecchio senza finire dentro.