La Rivincita dei Luddisti

Di Dawie Coetzee. Originale: Vindicating the Luddites, del 23 giugno 2022. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

È da così tanto tempo che mantengo la stessa posizione (più o meno dove il distributismo chestertoniano incontra il lato individualista del mutualismo proudhoniano) che comincio a pensare di aver ragione perché vengo criticato da entrambi i rami di una falsa dicotomia. I conservatori mi considerano un comunista duro e puro e i comunisti vedono in me o un imbonitore o uno zombie plagiato dal capitale, e comunque non entrambe le cose. Se per natura mi identifico con la sinistra, non è solo perché ne condivido le preoccupazioni e un generale fine ultimo, ma anche perché “centro”, che generalmente afferma di trascendere la dicotomia destra-sinistra, è diventato oggi un eufemismo che indica qualcosa che sta più o meno a destra.

La mia ambiguità verso Karl Marx mi pone similmente in una posizione scomoda. La mia opinione sull’opera di Marx è che si tratti di roba di grande valore ma profondamente tarata. Così facendo mi attiro l’odio delle due principali correnti che si rifanno a Marx: da un lato i marxisti ortodossi, che pensano che il pensiero marxiano rappresenti il punto d’arrivo di tutta la filosofia politica, e che la filosofia storica di Marx confermi automaticamente e anticipatamente tutto il pensiero marxista ortodosso, per cui non è possibile criticare il pensiero di Marx se non da posizioni di ignoranza; dall’altro lato chi considera Marx il vero anticristo, chi pensa che se una sola parola di Marx si realizzasse il mondo crollerebbe. La questione è che Marx non l’ha azzeccata per un pelo, ma, e questa è la tragedia, si tratta di un pelo che fa una grande differenza.

Si discute se Marx credesse o meno nel determinismo tecnologico. Applicando il suo metodo dialettico, si può dire che il politico determina il tecnologico ma anche che il tecnologico determina il politico. Qualche volta, una o due, lo dice anche. Ma poi costruisce una teoria complicata sulla base dell’ultima evoluzione della sua dialettica tale da ridurre le sue precedenti posizioni alle dimensioni di una nota a piè pagina. Se Marx avesse detto che la fabbrica è spuntata bella e finita dal grembo della storia (da Crono, ad esempio, come disse Jacques Maritain) il suo schema di pensiero non sarebbe stato diverso. Un giorno la fabbrica uscì da una scatola di cartone, tra i trucioli di polistirolo, e prima dell’ora del tè chiunque avesse due centesimi da investire era lì che studiava l’accluso manuale intitolato Il capitalismo. Come in un culto del cargo.

Marx aveva, anche se in forma vaga, un concetto di un ordine tecnologico voluto da Dio? È per questo che liquidò i produttori artigianali indipendenti come irrilevanti? È per questo, o piuttosto perché era un politologo e non un inventore o un artigiano, che non riuscì a concepire una natura tecnologica radicalmente diversa della produzione artigianale indipendente? O aveva investito troppo nell’ascesa macro-storica dei “lavoratori uniti” per contemplare la possibilità?

Comunque sia, il panorama attuale vede una tecnologia sovrana in corsa libera, seguita da un capitale in affanno oggi celebrato tanto dai marxisti quanto dai pierre. Se non fossimo così assuefatti a questo panorama, capiremmo quanto è sbagliato.

Ci sono stati ultimamente diversi tentativi di rivalutare i luddisti dell’Ottocento inglese, liberandoli dalla maledizione popolare che ci vede un simbolo della blasfema reazione tecnofobica. Tra questi c’è un libro pubblicato l’anno scorso da Gavin Mueller, Breaking Things at Work: The Luddites are Right about Why You Hate Your Job, che non vedo l’ora di leggere. Non avendo ancora avuto la possibilità di leggerlo, non so fino a che punto io e lui trattiamo gli stessi argomenti, ma a giudicare da qualche frammento sembra di sì.

I luddisti storici non erano nemici della tecnica. Al contrario, erano tecnicamente esperti nel loro campo, conoscevano benissimo gli aspetti tecnologici della loro attività. La loro protesta distruttiva non era indiscriminata ma diretta specificamente contro quelle aziende che più sfacciatamente sfruttavano manodopera a basso costo. Non erano spinti da una lotta di principio contro il “progresso” in generale. I luddisti non lottavano contro quella che oggi chiamiamo “disoccupazione tecnologica”, ma contro l’imposizione di un regime di relazioni economiche del tutto nuovo che passava attraverso la manipolazione della tecnologia da parte dei capitalisti. Si trattava di un movimento di lavoratori, anche se la storiografia generalmente non li pone nel contesto della legge delle chiudende del 1773 di quasi quarant’anni prima, una legge pensata per snellire e accelerare l’appropriazione pezzo per pezzo dei beni comuni, che andava avanti a velocità crescente con atti del parlamento fin dai primi anni del Seicento. Il movimento luddista non era una novità, rientrava tra le numerose rivolte dei lavoratori che da circa mezzo secolo reagivano al processo di appropriazione dei beni comuni. Un processo che cambiò non solo l’equilibrio sociale ma anche la forma del regime economico prevalente.

Cosa molto importante, le appropriazioni ebbero come effetto la liberazione sul panorama economico di una cospicua eccedenza di manodopera da assumere a basso salario. L’importanza determinante di questo fattore non può essere trascurata. Ancora oggi questa eccedenza di manodopera storicamente architettata resta il fattore socio-economico più rilevante in tutto il mondo.

L’idea di un sapere tecnico che sorge spontaneamente dal corso della storia, pur se mediato dalle scoperte scientifiche, non ci permette di capire come un combinato di grosse concentrazioni di capitale terriero e abbondanza di manodopera a basso costo abbia fornito gli strumenti dell’innovazione tecnologica ai tempi della Rivoluzione Industriale. Le innovazioni messe in pratica erano quelle che permettevano ai capitalisti di sfruttare l’abbondanza di manodopera a basso costo attraverso uno schema produttivo basato sull’impiego salariato delle masse da parte di una piccola élite. Tutta l’innovazione doveva servire questo obiettivo, il resto restava in sottordine, se non era attivamente soffocato o impedito. Non c’era niente di spontaneo, niente di inevitabile. La tecnologia diventò il terreno di coltura in cui cresce il profitto del capitale.

Lo sviluppo tecnologico dell’industria tessile prima dei luddisti non era affatto statico. Quei lavoratori tessili poi diventati luddisti già utilizzavano quelle innovazioni tecnologiche che alleviavano la fatica e acceleravano e rendevano meno pericoloso il lavoro. Molte innovazioni tecnologiche erano state anticipate proprio da loro. Quindi non lottavano contro le innovazioni in genere, ma contro quelle create specificamente per essere incompatibili con il loro modello organizzativo. L’uso sempre più diffuso di questo genere di innovazioni da parte dei capitalisti costringeva i tessitori indipendenti a competere con la manodopera rappresentata da contadini un tempo autosufficienti e ai quali, dopo essere stati costretti a lasciare la propria attività, non rimaneva che accettare il lavoro offerto dai capitalisti al salario imposto da questi ultimi. I luddisti si ritrovavano così a subire non solo la perdita della loro modesta ricchezza ma anche la degradazione: da rispettati artigiani indipendenti che erano stati, si ritrovavano di fatto in condizioni di schiavitù.

Al danno si aggiunse poi la beffa di un modello lineare di sviluppo tecnologico. Ovvero l’idea che solo un miglioramento oggettivo possa guidare il cambiamento tecnologico, e che nessuno sviluppo è mai stato possibile se non quello che è stato realizzato e che è inevitabile, sovrano e auto-ontologico: un processo acontestuale a sé stante. Marx era a conoscenza di questo modello quando cominciava a scrivere di queste cose appena pochi decenni dopo la fine delle rivolte luddiste? Sapeva dei luddisti? Se sì, come faceva a non vedere che le autorità britanniche, dopo aver soffocato il movimento con grande dispiego di forze, avevano un forte interesse a far passare i luddisti per un branco di pazzi infuriati contro l’inevitabile, contro il “progresso” che sorge spontaneamente come sorge il sole? Marx ignorava i propositi delle classi di governo o fingeva di non vederle per convenienza?

Riassumendo, quattro sono i punti mancanti a gran parte del discorso sui luddisti:

1. Il contesto storico del movimento è rappresentato dall’istituzione, in dimensioni inedite grazie all’appropriazione dei beni comuni, del sistema salariale come prevalente relazione economica predefinita, e non da un semplice cambiamento di proporzioni delle relazioni tra datore e lavoratore.

2. I luddisti non erano contro l’introduzione di innovazioni “tecnologiche” veramente “inedite”, ma contro l’appropriazione, a beneficio del capitale, di quelle tecnologie che d’ora in poi sarebbero state sviluppate, un aspetto centrale del capitalismo fin dall’inizio.

3. Oggi l’idea prevalente dello sviluppo tecnologico, della sua relazione con le scoperte scientifiche, il significato della storia e così via, hanno una chiara impronta storico-politica.

4. Le tecnologie sviluppate ai fini capitalistici hanno volutamente impedito altri percorsi tecnologici, il che ci porta ad interrogarci su quelle tecnologie che avrebbero potuto essere e non sono state.

Oggi in molti ambiti di studio sembra che si stia passando dal discorso dell’inevitabilità a quello della possibilità,. Il quadro teorico della Costruzione sociale della tecnologia risale agli anni novanta e dev’essere aggiornato. Più recentemente, questo cambiamento è stato l’argomento principale di The Dawn of Everything: A New History of Humanity di David Graeber e David Wengrow: l’idea che l’uomo primitivo non sia stato costretto, come si credeva, ad optare per processi fissi e obbligati, ma abbia avuto ampia possibilità di ideare e sperimentare ci fa capire come le possibilità di un avanzamento tecnologico non sono esclusiva del capitalismo ma possono presentarsi, quando si sa cosa si vuole ottenere, in un qualunque momento della storia tecnologica. È questo che la vicenda dei luddisti dovrebbe evidenziare.

Nel caso delle turbine a vento, ad esempio, c’è stato un momento in cui un sistema a portanza e resistenza rappresentava un miglioramento del sistema a pura resistenza. Ora provate a chiedervi, alla luce di tutto il sistema socio-tecnologico, se non è un errore perseguire un sistema a pura portanza nel nome di una efficienza astratta. Quali sono state le conseguenze sul panorama energetico economico politico? Uno sviluppo più intensivo dei sistemi a resistenza (più la portanza) non avrebbe soddisfatto meglio le nostre esigenze reali, le esigenze di persone normali? Conosciamo bene lo sviluppo raggiunto dalle turbine eoliche nel Novecento: sono numerosi i siti a cui si possono applicare le più recenti scoperte.

Tra gli ostacoli che impediscono queste enormi possibilità di sviluppo, uno tra i più odiosi è la tendenza a progettare restando dentro le possibilità tecnologiche dell’industria capitalista. L’evoluzione delle tecniche illustrative è stata influenzata da queste possibilità, e un esempio lo vediamo nell’adozione diffusa dei pennarelli a partire dagli anni Sessanta. Il loro tratto morbido riproduceva gli spigoli arrotondati tipici degli oggetti di plastica stampati ad iniezione. I disegni fatti in questo modo quasi necessariamente rappresentavano oggetti di plastica stampati ad iniezione e, esemplificando esteticamente l’operato di designer professionali, facevano credere che gli oggetti disegnati da questi esperti incorporassero il linguaggio del design della plastica stampata ad iniezione. Anche nelle successive moderne tecniche di rendering si è mantenuto questo modo di disegnare gli oggetti, riflettendo quindi le tecniche produttive dell’industria capitalista.

Un esempio tra tanti: ci sono materie plastiche che hanno capacità incredibili, ma non è per questo che oggi tutto è di plastica. La roba di plastica è spesso oggettivamente peggiore del corrispondente di legno, metallo, ceramica o altro materiale dettato dal buon senso. Oggi tutto è di plastica perché, contro ogni logica, costa meno; e costa meno perché produrre una pletora di oggetti in plastica artificialmente economica serve a tenere (tra le altre cose) industrie estrattive fortemente capitalizzate in piedi in ambienti ostici. Sono ragioni ciniche, ma pare che proprio non riusciamo ad immaginare un oggetto migliore, rivoluzionario, futuristico, senza automaticamente immaginarlo in volgare polipropilene. Rinunciare asceticamente alla plastica non porta da nessuna parte. Dobbiamo invece riuscire ad immaginare un uso delle materie plastiche laddove effettivamente ha senso usarle, il che significa ridurne fortemente la produzione e impegnarsi ad usarle, magari di qualità superiore, in quantità adeguatamente più piccole. La speranza è che siano tanti a sentirsi abbastanza liberi di usare la propria intelligenza per farlo.

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