Di Emmi Bevensee. Originale pubblicato il 15 maggio 2018 con il titolo Closed Borders and Black Market Economics. Traduzione di Enrico Sanna.
Nel 2012, il sedicenne José Antonio Elena Rodríguez fu ucciso a Nogales, in Messico, da un agente di confine che stava dall’altra parte del muro, in territorio statunitense. L’agente sparò stando una quindicina di metri più su del ragazzo, da dietro le placche arrugginite che formano il muro di Sonora. Secondo le dichiarazioni dell’assassino, il ragazzo “lanciava pietre mettendo a repentaglio la vita”, pertanto lui fece fuoco dieci volte da dietro le spalle. Nessun agente fu anche solo colpito da una pietra. L’agente che sparò è stato recentemente assolto dall’accusa di omicidio. Tra il 1995 e il 2016, il numero dei poliziotti di confine nel settore di Tucson (che comprende Nogales) è cresciuto del 1.000%, con un’impennata nel 2017. Il settore di Tucson ha attualmente otto stazioni di polizia con 4.200 agenti.
Mentre il tasso di omicidi cresce rapidamente a livelli allarmanti in Messico, negli Stati Uniti è stabile (anzi diminuisce): il paese esporta altrove la violenza della sua domanda repressa. Lo scarto ha raggiunto il picco nel 2010, quando il rapporto tra Stati Uniti e Messico era di 6 a 55 omicidi ogni 100.000 abitanti.[1] Dopo l’arresto del boss del cartello di Sinaloa, El Chapo, la violenza è cresciuta in tutto il paese, fino a diventare una guerra tra bande e all’interno delle bande. Il picco è stato raggiunto nel 2017, con 12.500 omicidi solo tra gennaio e giugno.
I dati statistici sono rappresentativi di una crisi violenta delle aree di confine causata dalla guerra alla droga, la militarizzazione delle frontiere e una lotta continua per il monopolio tra entità statali e non. Il mercato nero di questa zona di confine è fatto di frontiere militarizzate e guerra alla droga, dall’una e dall’altra parte, che hanno distorto il mercato in maniera così perversa che per i civili il monopolio è davvero la cosa più sicura. Stare in una città monopolizzata da un cartello è una benedizione. L’inferno è i territori contesi. E tutto congiura per esasperare le tensioni in perpetuo.
Cronologia del Declino
Fin dai tempi di Pablo Escobar alla fine degli anni novanta in Messico esisteva un megacartello chiamato “la federazione” che controllava tutto il mercato nero praticamente in monopolio. All’apice del successo, la federazione controllava la stragrande maggioranza del mercato nero messicano e forniva quasi il 90% della cocaina che entrava nel mercato statunitense. A gestire la federazione c’era un solo uomo, Félix Gallardo, “el jefe de los jefes”. Sotto il suo regno calò enormemente quella violenza che più tardi sarebbe divenuta inseparabile dalla guerra alla droga. Previdentemente, predisse la sua uscita di scena e divise il mercato messicano in vari territori controllati da diversi cartelli. Questo iniziale decentramento restò relativamente pacifico fino all’introduzione dell’Accordo di Libero Commercio del Nord America, o Nafta, e la stretta sull’immigrazione subito dopo l’inizio della guerra alla droga in Messico.
Nel 2006, con il presidente Calderón, il Messico cominciò la sua guerra alla droga; da allora ad oggi il Messico ha incassato 1,5 miliardi di dollari dagli Stati Uniti. Questa guerra cominciò con la costosa impresa di Calderón che mandò 6.500 uomini nel suo stato natale di Michoacán. Il costo più alto, però, fu in termini di vite umane: 200.000 persone furono uccise e altre 28.000 scomparvero. Nelle terre di confine la vera violenza non cominciò se non con la seconda guerra alla droga. Con il declino dei boss, divamparono le dispute territoriali. La struttura oligopolistica resta intatta, per quanto il governo messicano dica che le perdite umane erano un costo necessario all’abbattimento del potere dei narcos. Nel 2008, appena due anni dopo l’inizio della guerra alla droga in Messico, la principale alleanza tra narcos, tra i cartelli di Sinaloa e Beltran-Levya, cominciò a degenerare in guerra aperta.
Gli Stati Uniti vedono nel governo messicano un alleato nella guerra alla droga e un ulteriore fronte della sua fallita impresa proibizionista. Ma a tutt’oggi la militarizzazione e la chiusura delle frontiere resta una politica importante che avvantaggia i cartelli stessi. Con l’aiuto degli Stati Uniti, il governo messicano ha catturato 33 dei 37 trafficanti più importanti. Lungi dall’estinguere l’enorme violenza del mercato nero, le uccisioni l’hanno esacerbata.
Per molti anarchici e liberali, la verità scomoda di questa guerra di confine è che è il monopolio, e per qualche tempo anche l’oligopolio, non la concorrenza, ad aver portato una qualche pace, seppure a costi altissimi. Le lotte intestine e le guerre per il territorio sono cominciate quando le operazioni intergovernative hanno frantumato il mercato della droga. Un monopolio astatuale può portare una sorta di finta pace in zone di guerra, ma è una pace che ha un costo altissimo. Molti controeconomisti e agoristi fanno presto ad indicare nel commercio della droga una panacea che dirotta risorse dallo stato al mercato comune. Ma questo è un mercato troppo corrotto, che mal si adatta agli idealismi nonviolenti. Le zone di confine non sono come la Via della Seta del web profondo; sono zone di guerra. In una zona di guerra, anche i metri morali e le strutture di mercato sviluppano logiche interne perverse che autoalimentano le proprie distorsioni.
Bootlegger e Battisti
L’unica legge rispettata dai cartelli è la legge della domanda e dell’offerta. L’aumento della sorveglianza nelle aree di confine non intacca la domanda di beni e servizi forniti dai cartelli. Al contrario, quando nuove barriere incrementano i rischi operativi, i cartelli reagiscono migliorando le tecniche del contrabbando, aumentano i prezzi per tenere alti i profitti e stimolano la nascita di nuovi mercati interni in Messico e sul lato statunitense del confine. ~ Texoco de Mora, Borderland Beat– 2017
Nonostante l’assurda violenza, droghe e altri beni illegali continuano a passare il confine. Il mercato trova sempre una soluzione e i narcos, pur così brutali, sono affaristi geniali. I narcos sono anche incredibili innovatori STEM. I loro tunnel sono famosi per essere completamente pavimentati, elettrificati, dotati di climatizzazione e perfino di decauville. Possiedono flotte di droni che usano per trafficare e controllare e hanno messo in piedi sistemi sofisticati per ingannare e bloccare i droni della polizia di confine. La loro inventiva si allarga anche all’intimidazione e alle tecniche di guerra. Rapimenti, assassinii in pubblico, tortura, fosse comuni e infiltrazioni massicce nelle strutture politiche (di entrambi gli stati) servono a mantenere il vantaggio economico nonostante le pesanti interferenze.
I narcos si considerano vendicatori di una politica statunitense fatta di decenni di razzismo e colonialismo. La guerra alla droga è il loro fronte contro l’impero. Non per giustificare il loro male, ma qualcosa di vero c’è. Nessun altro combatte allo stesso modo la politica razzista, nazionalista, antiimmigrazione e antidroga degli Stati Uniti. Questo spiega perché molti signori della droga sono circondati da un’aura da rockstar, che si riflette nelle gloriose ballate norteñas (dette narcocorridos), nell’hip-hop, e perfino in certe sette dedicate alla Santa Muerte, che elevano i narcos al rango di mitologici guerrieri spirituali.
El Chapo, capo del cartello di Sinaloa recentemente catturato ed estradato negli Stati Uniti, è noto per le sue bravate spettacolari. Una volta con il suo piccolo esercito di guardie del corpo ha tenuto sotto chiave un ristorante di lusso di Città del Messico mentre era oggetto di una caccia all’uomo internazionale. Ha pagato da bere e mangiare a tutti i clienti. Un’aura mitica circonda le munifiche corruzioni, l’evasione da tutte le prigioni che hanno rinchiuso El Chapo, con tutto il conseguente strascico di sangue.
Il mercato nero di droga e armi lungo il confine tra Stati Uniti e Messico è alla base di gran parte delle economie, soprattutto cittadine, di entrambe le parti. A ciò si aggiunge il mercato di beni legali, contrabbandati a causa di normative, tasse e dazi sciagurati. Il sito Borderland Beat ricorda così questo aspetto trascurato: “Alcuni cartelli hanno infiltrato profondamente alcuni settori dell’economia legale, lungo il confine hanno posizionato strutture logistiche che servono ad agevolare il movimento delle merci legali attraverso i punti d’ingresso, così da evitare i forti dazi.” Nelle zone di confine, sia il mercato nero che quello grigio sono caratterizzati da violenze incredibili da parte dello stato e dei cartelli.
Non a caso si usa il termine “cartelli” per indicare i narcotrafficanti. Da un punto di vista economico, i cartelli sono gruppi affaristici il cui obiettivo è l’accrescimento dei profitti e la riduzione della concorrenza con qualunque mezzo, come il controllo dei prezzi, la limitazione della fornitura o l’eliminazione della potenziale concorrenza. Dopo la caduta della “Federazione”, il mercato clandestino della droga in Messico da monopolio è diventato un oligopolio: un piccolo gruppo di venditori controlla il mercato, spesso con accordi di collusione, espliciti o impliciti, che permettono loro di agire in maniera simile ai monopoli. Ma i cartelli si trovano in una situazione che gli esperti della teoria dei giochi chiamano Dilemma del Prigioniero, per cui, nonostante le collusioni, sono spinti ad imbrogliarsi tra loro e a farsi la guerra dei prezzi. Questo rende particolarmente difficile il mantenimento dell’efficienza (Pareto) o di una condizione di equilibrio ideale (Nash). Al crescere della concorrenza, la collusione diventa meno appetibile e meno possibile. In questo fallimento del mercato, creato dall’incrocio degli incentivi perversi del proibizionismo, gli imprenditori della droga estraggono profitto con la violenza, le tendenze monopolistiche e il soffocamento della possibile concorrenza.
La domanda nel mercato della droga è relativamente rigida, le persone sono disposte a pagare sempre di più per la stessa quantità. Unendo ciò alla chiusura delle frontiere, il margine di profitto dei cartelli cresce. Si tratta di un fenomeno ben studiato. Polizia di confine e narcos finiscono spesso per avere gli stessi obiettivi. È un fenomeno noto come effetto “bootlegger e battisti”, e prende il nome dal fatto che bootlegger (i produttori clandestini di alcolici durante il proibizionismo, ndt) e battisti volevano entrambi la chiusura domenicale dei bar, anche se per ragioni completamente diverse. Più i narcos sono armati, e più la polizia vuole gingilli scintillanti; e viceversa. Un’accoppiata vincente.
I cartelli sono una sorta di microstati. Hanno i loro eserciti privati, sono spesso fuori dalla portata della polizia di stato, e nei territori controllati da loro gestiscono gran parte delle questioni di legge, ordine e ridistribuzione delle risorse.
I narcos vanno avanti indisturbati anche in quelle città del nord invase da agenti federali e militari. I cartelli sono impegnati in questioni sociali. “Passano più tempo ad oziare che a sparare,” dicono di loro due investigatori della narcotici. Sono profondamente patriottici; in senso culturale, più che statalista, anche se spesso influenzano o controllano le campagne politiche. E sono tra le maggiori potenze economiche e fonti di lavoro nel mercato nero, grigio e bianco (hanno anche imprese legali) soprattutto nel Messico settentrionale.
Possiedono tutta la violenza e il potere monopolistico dello stato, ma con più rischi operativi e meno responsabilità internazionali. Le autorità statunitensi e messicane danno il peggio di se stesse nei territori di confine. Come ogni stato, i cartelli fanno qualcosa per vivere, crescere e tenere in piedi il monopolio nel proprio territorio. Ma data la forte distorsione dei mercati, mancano della responsabilità strutturale degli altri stati. Il proibizionismo non fa nulla per limitare la domanda, pertanto questi microstati prosperano nell’unico mercato a loro disponibile: il mercato nero. Per certi versi, la guerra alla droga voluta da Calderón è una sorta di guerra civile tra stati in concorrenza tra loro in zone in cui il monopolio governativo della violenza e del potere è dubbio.
Se i cartelli tendono ad evolversi in stati, l’atteggiamento della polizia di frontiera esaspera la brutalità di entrambi i poteri monopolistici e della concorrenza nel mercato delle droghe e delle migrazioni nel deserto di Sonora. È qui che vengono allo scoperto gli aspetti peggiori della guerra alla droga, aspetti che giustificano esponenzialmente le stesse politiche fallite che li hanno generati. Gli Stati Uniti, con la loro polizia di confine e la guerra alla droga, sono complici della ferocia di entrambe le parti di questa sanguinoso, seppur immaginario, confine.
L’arrivo del Trattato di Libero (sic) Commercio del Nord America (Nafta) nel 1994 ha esacerbato le già disumane condizioni di lavoro delle maquiladoras. Prima dell’approvazione del Nafta, le maquilas assorbivano appena il 5% dei posti di lavoro nell’industria, ma già tre anni dopo erano al 25% circa. Oggi la percentuale è salita al 63%. Anche se molte maquilas sono controllate o in società con il corrotto, violento e incontrollabile stato messicano e i cartelli, le scarne opportunità che offrono sono presentate su un piatto fatto di cultura monopolistica e clientelismo a cui si accompagna la violenza dei cartelli e lo sfruttamento con la promessa di guadagni finanziari (“plato o plomo”, come si dice, “piatto o piombo”). Già mi immagino le proteste di libertari e capitalisti… Certo le maquilas creano opportunità economiche, ma se “schiavitù volontaria” e maquilas rappresentano il loro ideale di società liberata allora la loro moralità è a livelli sottomarini e l’immaginazione è ancora più giù. Perché il Nafta non è un accordo di libero commercio, ma l’occasione per gli oligopolisti multinazionali per estrarre ricchezza con il neocolonialismo. Il risultato è un peggioramento deciso delle condizioni di lavoro, non la promessa di un commercio internazionale. Le categorie più vulnerabili, quelle che più di tutte subiscono orribili violenze (da parte dello stato o dei narcos) in città come la messicna Juárez, sono le stesse, rappresentate da bambini e donne, spesso povere e minorenni, che migrano per lavorare nelle maquilas. Fatto ironico, a subire le violenze sono i dipendenti e molto raramente le stesse maquilas, che sono protette da stato e narcos. Il flusso di capitali provenienti dagli Stati Uniti finisce in quelle aree in cui è massima la concentrazione di maquilas e di assassinî, e questo non fa che sottolineare il fatto che la politica estera statunitense, con la sua militarizzazione delle frontiere, crea devastazione e strane alleanze proprio nelle zone di confine.
Altro esempio dell’accidentale alleanza tra narcos e polizia di frontiera è il progetto Prevenzione tramite Dissuasione approvato subito dopo il Nafta. Il progetto è alla base del disastroso boom delle assunzioni di poliziotti di confine negli anni novanta, continuato fino ai primi anni duemila. Durante la preparazione del Nafta i baroni del “libero commercio” sapevano che l’accordo avrebbe causato sofferenze e intensificato le migrazioni, così all’accordo aggiunsero la militarizzazione del confine, strozzando secoli di sostanziale libertà di movimento che contribuivano a quello scambio di cui il mercato ha bisogno.
Il sistema chiamato Prevenzione Tramite Dissuasione, adottato subito dopo l’approvazione del Nafta, tentava di fermare i migranti solo nei canali più sicuri, dando per scontato che le zone climaticamente più impervie, come il deserto di Sonora, avrebbero fatto da barriera naturale. Ma non è stato così. Il risultato è che ora i narcos hanno meno territorio da controllare e possono concentrarsi su quelle zone rimaste relativamente libere. I narcos controllano tutti i movimenti clandestini. I “cattivi” spalloni demonizzati dalla destra antimigrazione sono spesso centroamericani che sono stati derubati per strada e non hanno più soldi per corrompere o per pagare una guida. La politica della polizia di frontiera, che costringe i canali migratori attraverso le aree urbane e gli spazi relativamente sicuri, ha permesso ai narcos di concentrare i loro sforzi contromilitarizzati in questi canali ristretti.
Dopo una spesa di 2,4 miliardi in tecnologie militari destinate alla chiusura delle frontiere con la fallimentare Secure Borders Initiative (o più probabilmente a causa di ciò), bootlegger e battisti hanno colpito ancora, come dimostra la crescita vertiginosa della produzione di droga nel 2010. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato,
La produzione di metanfetamine avviene in laboratori clandestini. Le aree con la più alta concentrazione di laboratori sono Michoacán e Jalisco. È difficile fare una stima del livello produttivo, ma si pensa che sia alto e in crescita… e secondo le stime delle agenzie governative statunitensi nel 2009 la coltivazione è cresciuta significativamente. La coltivazione di oppio è più che raddoppiata, da 6.900 ettari nel 2008 a 15.000 a settembre 2009, il livello più alto mai registrato in Messico e tutta l’America Latina messa assieme. La produzione di cannabis è cresciuta del 35%, da 8.900 ettari nel 2008 a 12.000 nel 2009, il livello più alto dal 1992.
La militarizzazione delle frontiere è una trappola. Più si combatte e più si crea ciò che si vorrebbe distruggere. Anche se non c’è nulla da distruggere.
Agoristi e Frontiere Aperte
In una cornice agorista, i contrabbandieri sono parte del mercato nero, ovvero della controeconomia. I bootlegger forniscono beni che le persone hanno naturalmente diritto di acquistare. Sono imprenditori che aggirano lo stato per offrire beni e servizi ingiustamente criminalizzati. Questi imprenditori controecononomici sono però spinti a sostenere l’intervento statale, visto che questo riduce la concorrenza. Allo stesso modo, il proibizionismo gonfia i profitti dei cartelli della droga. Impedisce la concorrenza. E ciò alimenta il prezzo delle droghe. ~ Nathan Goodman, C4SS – 2016
La gente ama la droga, le armi e la roba a buon prezzo. La situazione non cambia. Cambiano solo le condizioni, le fonti e il modo in cui si fanno transazioni. Secondo i principi agoristici e controeconomici, il mercato è fuori dal controllo dello stato, è un sistema graduale ma rivoluzionario per creare una nuova società nel guscio della vecchia. In realtà, il mercato nero è distorto dall’oscuro ventre molle della politica statalista e dalla chiusura e militarizzazione delle frontiere, così che siamo costretti a batterci per un sistema che assicuri lo scambio etico. Al di là degli incentivi etici ed economici dietro un mercato comune antiproibizionista e antinazionalista, è ora che guardiamo attentamente il casino che abbiamo messo su. Pur non senza colpe, i narcos occupano una posizione richiesta dal mercato e ignorata nella pratica. Gli sforzi paralleli che tendono a depenalizzare e porre fine al fallimento del proibizionismo si accoppiano al bisogno di creare alternative nonviolente alle guerre infinite che gli Stati Uniti esportano per soddisfare i propri bisogni.
La depenalizzazione di tutte le droghe e l’apertura delle frontiere ridurrebbero drasticamente il margine di profitto dei cartelli più violenti, compresi i mostruosi cartelli corporativi rappresentati dai militari e la polizia di confine di Stati Uniti e Messico. Ma non è una panacea.
I narcos, così come il complesso militare industriale di stato, hanno eccezionali capacità di adattamento e diffusione. Con la depenalizzazione, il mercato potrebbe almeno cominciare a correggere se stesso. Le iniziative comunitarie di difesa in stile zapatista avrebbero una qualche speranza nella lotta per l’autodeterminazione. Calerebbe la spinta al profitto generato dall’attuale carneficina. Tecnologie agoristiche basate sul web e iniziative nonviolente potrebbero iniziare ad avere successo in entrambe le parti di questa devastata e immaginaria frontiera. La concorrenza porterebbe ad un prodotto di migliore qualità e al controllo da parte del consumatore, abbattendo il rischio di overdose e avvelenamento. Gli imprenditori locali del mercato della droga potrebbero fuggire dall’ombra della violenza e riportare i miliardi nell’economia latinoamericana, magari ponendo fine al sistema delle maquiladoras, e con una reale possibilità di porre fine a questa violenza ciclica portata dagli accordi commerciali neocoloniali. Nessuno conosce le potenzialità. Forse lo spagnolo potrebbe diventare davvero la lingua principale negli Stati Uniti. 😉
1. I dati statistici alla base di questa asserzione e il grafico nella sezione seguente sono frutto di una ricerca originale basata su: El Instituto Nacional de Estadística y Geografía (1, 2, 3), Consejo Nacional de Población, FBI Uniform Crime Reporting Statistics, e U.S. Census Bureau. Ho utilizzato anche questo e altri articoli scritti dal Center for Global Development. I dati dimostrano una chiara correlazione tra la guerra alla droga portata avanti dallo stato, la chiusura delle frontiere (dove la violenza è massima) e la violenza. I dati raccolti dal governo messicano riguardo il tasso di omicidi nelle zone di frontiera (senza contare le morti causate da polizia e federali) appaiono fortemente correlati tra loro (r^2 = 0,718, r = 0,816). Questo significa che l’impennata del 2006, all’inizio della guerra alla droga, non è un’anomalia, ma una realtà che si ritrova in grossa misura in tutte le zone di confine.