The following article is translated into Italian from the English original, written by Colin Ward.
Questo articolo è stato scritto da Colin Ward ed è apparso per la prima volta su Freedom, numero di giugno-luglio 1992.
Lo Sfondo
Quella minoranza di giovani europei che hanno avuto l’opportunità di studiare la storia d’Europa oltre a quella della loro nazione, sono venuti a conoscenza di due grandi eventi avvenuti nel secolo scorso (il diciannovesimo, ndt): l’unificazione della Germania, conseguita da Bismarck e l’imperatore Guglielmo I, e l’unificazione dell’Italia per opera di Cavour, Mazzini, Garibaldi e Vittorio Emanuele II.
Tutto il mondo, che a quei tempi significava l’Europa, accolse positivamente questi trionfi. Germania e Italia si erano lasciate alle spalle staterelli, repubbliche, città stato e Stato della Chiesa, per diventare stati nazionali, imperi, conquistatori. Erano diventate come la Francia, i cui piccoli dispotismi locali furono unificati con la forza per la prima volta da Luigi XIV con il suo slogan maestoso, “L’etat c’est moi”, e poi da Napoleone, erede della Grande Rivoluzione, proprio come Stalin che nel ventesimo secolo eresse la macchina amministrativa per assicurarsi che fosse una realtà. O erano diventate come l’Inghilterra, i cui re (con il suo unico governatore repubblicano Oliver Cromwell) avevano conquistato i gallesi, gli scozzesi e gli irlandesi, prima di andare a dominare il resto del mondo fuori dall’Europa. La stessa cosa accadeva all’estremità opposta dell’Europa. Ivan IV, giustamente chiamato “Il Terribile”, conquistò l’Asia fino al Pacifico, e Pietro I, conosciuto come “Il Grande”, servendosi delle tecniche apprese da Francia e Gran Bretagna, conquistò il Baltico, gran parte della Polonia e l’Ucraina occidentale.
Opinionisti all’avanguardia in tutta Europa accolsero Germania e Italia in quel club di gentiluomini che erano le potenze nazionali e imperialiste. Il risultato finale, in questo secolo, è una serie spaventosa di avventure di conquista, la perdita devastante in due guerre mondiali di vite giovani che venivano dai villaggi di tutta Europa, e l’ascesa di demagoghi populisti come Hitler e Mussolini, oltre ai loro emuli che, a tutt’oggi, proclamano ‘L’Etat c’est moi’.
Il risultato è che ogni nazione ha raccolto una messe di politici di ogni credo, che propugnano l’unità europea in tutti i sensi: economico, sociale, amministrativo e, ovviamente, politico.
Inutile dire che gli sforzi per l’unificazione promossi dai politici hanno prodotto a Bruxelles una moltitudine di amministratori, che emettono editti sulle varietà dei semi, sui componenti degli hamburger o dei gelati che si possono vendere in ogni singolo stato membro. I giornali riportano gioiosamente queste trivialità. La stampa presta molta meno attenzione all’altra corrente nascosta dell’opinione pan-europea, quella che si evolve a partire dalle opinioni espresse a Strasburgo da persone che appartengono a tutto lo spettro politico, che rivendica l’esistenza delle regioni, e che arriva a sostenere che lo stato nazionale fu solo un fenomeno del sedicesimo e diciassettesimo secolo e non avrà un futuro utile nel ventunesimo secolo. La storia amministrativa prossima ventura, in quell’Europa federata che si sforzano di scoprire, è l’anello di congiunzione tra, diciamo, la Calabria, il Galles, l’Andalusia, l’Aquitania, la Galizia e la Sassonia; regioni, piuttosto che nazioni, alla ricerca della loro identità regionale, economica e culturale, persa quando sono state incorporate negli stati nazionali, che hanno il centro gravitazionale altrove.
Durante la marea nazionalista del diciannovesimo secolo, ci fu una manciata di voci dissenzienti che spingeva per un federalismo dallo stile diverso. È per lo meno interessante vedere che i nomi di alcuni sopravvissuti corrispondono ai tre più noti pensatori anarchici di quel secolo: Pierre-Joseph Proudhon, Michail Bakunin e Peter Kropotkin. Durante la sua evoluzione nel ventesimo secolo, la sinistra politica ha liquidato la loro eredità come qualcosa di irrilevante. Tanto peggio per la sinistra, che ha spianato la strada alla destra, che così ha potuto impostare la propria agenda politica in favore del federalismo e del regionalismo. Sentiamo un po’ cosa avevano da dire questi precursori anarchici.
Proudhon
Il primo è Proudhon, che dedicò due delle sue voluminose opere all’idea della federazione opposta a quella dello stato nazionale. Sono La Federation et l’Unite en Italie del 1862, e, l’anno seguente, Du Principe Federatif.
Proudhon, che era cittadino di uno stato unificato e centralista, fu costretto ad emigrare in Belgio. Temeva l’unificazione dell’Italia su diverse basi. Nel suo libro De la Justice del 1858, sosteneva che la creazione dell’impero tedesco avrebbe portato soltanto problemi ai tedeschi ed al resto dell’Europa, e lo stesso argomento usò nei riguardi della politica italiana.
Al livello più basso c’era la storia, con fattori come la geologia e il clima che avevano influenzato i costumi e le abitudini locali. “L’Italia,” sosteneva, “è federale nella conformazione del suo territorio; nella diversità dei suoi abitanti; nella natura del suo ingegno; nelle abitudini; nella storia. È federale in tutto il suo essere ed è così da sempre… Diventando federale diventa libera tante volte quanti sono i suoi stati indipendenti”. Non sta a me difendere il linguaggio iperbolico di Proudhon, ma aveva anche altre obiezioni. Capiva perché Cavour e Napoleone III si erano messi d’accordo per convertire l’Italia in una federazione di stati, ma capiva anche, per esempio (in italiano nell’originale, ndt) che la Casa di Savoia non avrebbe mai accettato niente che non fosse una monarchia costituzionale centralista. E poi disprezzava profondamente l’anticlericalismo liberale di Mazzini, ma non perché amava il papato, bensì perché capiva che il motto di Mazzini, ‘Dio e popolo’, poteva essere sfruttato da qualche demagogo intenzionato a prendere il controllo della macchina di uno stato centralista. Secondo Proudhon, l’esistenza di una tale macchina era una minaccia assoluta alla libertà personale e locale. Proudhon fu quasi l’unico tra tutti i pensatori politici del diciannovesimo secolo ad accorgersene:
“Ciò che oggi è liberale in un governo liberale domani diventerà lo strumento potente di un despota e usurpatore. Per il potere esecutivo è una tentazione perpetua, e una minaccia perpetua alla libertà del popolo. Nessun diritto, individuale o collettivo, ha un futuro sicuro. Possiamo dunque definire la centralizzazione il disarmo di una nazione a tutto profitto del governo…”
Tutto quello che sappiamo sulla storia d’Europa, Asia, America Latina e Africa supporta questa percezione. Nè basta la versione nordamericana di federalismo, concepita così amorevolmente da Thomas Jefferson, a garantire la rimozione di questa minaccia. Uno dei biografi inglesi di Proudhon, Edward Hyams, commenta: “Fin dalla seconda guerra mondiale è diventato chiaro che gli Stati Uniti possono fare uso, e fanno uso, della macchina amministrativa federale per farsi burle della democrazia”. Il suo traduttore canadese, così parafrasò le conclusioni di Proudhon:
“Chiedi la sua opinione all’uomo della massa, e la sua risposta sarà probabilmente stupida, volubile, violenta; chiedila allo stesso uomo come membro di un gruppo, con un carattere distintivo di vera solidarietà, e la sua risposta sarà responsabile e saggia. Esponilo al ‘linguaggio’ politico della democrazia di massa, che rappresenta il popolo come un tutt’uno indiviso e considera la minoranza alla stregua di un traditore, e coltiverà la tirannia; esponilo al linguaggio politico del federalismo, in cui il popolo figura come un aggregato diverso di vere associazioni, e si opporrò alla tirannia fino alla fine.”
Questa osservazione rivela una conoscenza profonda della psicologia politica. Proudhon stava estrapolando dall’evoluzione della Confederazione Elvetica, ma l’Europa dà altri esempi in tutta una serie di campi particolari. I Paesi Bassi sono famosi per essere miti, se non indulgenti, in fatto di applicazione del codice penale. La spiegazione ufficiale sta nel fatto che nel 1886 il codice napoleonico fu sostituito da “un codice penale genuinamente olandese” basato sulle tradizioni culturali come “la ben nota ‘tolleranza’ degli olandesi e la tendenza ad accettare le minoranze”. Prendo da Willem de Haan, criminologo olandese, che cita la spiegazione secondo cui la società dei Paesi Bassi “tradizionalmente si è sviluppata su linee religiose, politiche e ideologiche piuttosto che di classe. Gli importanti raggruppamenti confessionali crearono le loro istituzioni sociali in tutti i maggiori ambiti pubblici. Questo processo … è responsabile della trasformazione di un atteggiamento tollerante e pragmatico in una regola assoluta di vita sociale”.
In altre parole, è la diversità, non l’unità, che crea quel genere di società in cui voi ed io possiamo vivere a nostro agio. E l’atteggiamento dei moderni abitanti dei Paesi Bassi affonda le radici nelle diversità delle città stato dell’Olanda e della Zelanda; questo, come il regionalismo di Proudhon, fa capire che l’unico futuro auspicabile per l’Europa è nell’adattamento armonico delle differenze locali.
Nel decennio 1860-’70, Proudhon assistette ad una discussione su una confederazione europea, o Stati Uniti d’Europa. Commentò così:
“Sembra che non intendano altro che un’alleanza di tutti gli stati attualmente presenti in Europa, grandi e piccoli, presidiati da un congresso permanente. Danno per scontato che ogni stato manterrà la forma di governo che meglio gli si adatta. Ora, visto che ogni stato avrà diritto di voto in congresso in proporzione alla sua popolazione e il suo territorio, il risultato sarà che i piccoli stati saranno presto incorporati in quelli più grandi…”
Bakunin
Il secondo dei miei mentori del diciannovesimo secolo, Michail Bakunin, richiama la nostra attenzione per diverse ragioni. Fu quasi solo, tra i pensatori politici del diciannovesimo secolo, ad immaginare gli orrendi conflitti dei moderni stati nazionali del ventesimo secolo nelle due guerre mondiali, e il destino del marxismo accentratore nell’impero russo. Nel 1867, Prussia e Francia sembravano sull’orlo di una guerra su quale impero avrebbe dovuto controllare Lussemburgo e questo, attraverso una rete di interessi e alleanze, “minacciò di far sprofondare tutta l’Europa”. A Ginevra si tenne il congresso della Lega per la Pace e la Libertà, sponsorizzato da personaggi influenti di diversi paesi come Giuseppe Garibaldi, Victor Hugo e John Stuart Mill. Bakunin colse l’occasione per rivolgersi all’uditorio, e pubblicò le sue opinioni sotto il titolo di Fédéralisme, Socialisme et Anti-Théologisme. Questo documento si articolava in sette punti sui quali, secondo Bakunin, il congresso di Ginevra era unanime.
Il primo punto proclamava: “Al fine di far trionfare la libertà, la giustizia e la pace nelle relazioni europee, e di rendere impossibile la guerra civile tra le diverse popolazioni che costituiscono la famiglia europea, esiste solo una strada da seguire: costituire gli Stati Uniti d’Europa”. Il secondo punto osservava che, per raggiungere questo obiettivo, le regioni avrebbero dovuto sostituire gli stati: “La nascita di questi Stati d’Europa non potrà mai avvenire tra gli stati così come sono attualmente, e questo perché tra le diverse potenze esiste una disparità mostruosa.” Quarto punto: “Nonostante il fatto che uno stato burocratico e centralizzato, e pertanto militarista, si faccia chiamare repubblica, non può far parte di una federazione internazionale. È la sua stessa costituzione, una negazione esplicita o implicita della libertà interna, a significare necessariamente guerra permanente e minaccia all’esistenza dei paesi vicini”. Di conseguenza, il quinto punto chiedeva: “Che tutti i sostenitori della Lega dedichino tutte le loro energie alla ricostruzione dei diversi paesi così da rimpiazzare le vecchie organizzazioni, interamente fondate sulla violenza e il principio dell’autorità, con una nuova organizzazione che si basi unicamente sugli interessi, i bisogni e le propensioni della popolazione, e che non abbia altro principio al di fuori di una federazione libera di individui in comuni, comuni in province, province in nazioni, e queste ultime in Stati Uniti, prima d’Europa, e poi del mondo intero.”
L’orizzonte dunque si allargava progressivamente, ma Bakunin ammetteva preventivamente la possibilità di secessione. L’ottavo punto dichiarava che: “Il semplice fatto che una regione sia diventata parte, anche volontariamente, di uno stato non significa che sia obbligata a rimanere legata per sempre. La giustizia umana non può accettare un obbligo in perpetuo… Il diritto alla libera unione e all’egualmente libera secessione è il più importante tra i diritti politici; senza questo, la federazione non sarebbe altro che centralismo camuffato.”
Bakunin parla con ammirazione della Confederazione Elvetica che, parole sue, “oggi pratica il federalismo con grande successo”. E anche Proudhon prese esplicitamente come modello la supremazia del comune attuata in Svizzera come unità dell’organizzazione sociale, collegata tramite il cantone ad un consiglio federale puramente amministrativo. Entrambi, però, ricordavano gli eventi del 1848, quando la Sonderbund dei cantoni secessionisti fu obbligata ad accettare la nuova costituzione approvata dalla maggioranza. Così Proudhon e Bakunin furono d’accordo nel condannare la sovversione del federalismo da parte del principio di unitarietà. In altre parole, deve esserci un diritto alla secessione.
Kropotkin
La Svizzera, proprio in virtù della sua forma di governo decentrata, divenne un rifugio per numerosi dissidenti politici che venivano dagli imperi austro-ungarico, tedesco e russo. Uno di questi, un anarchico russo, fu espulso. Era troppo anche per il Consiglio Federale Svizzero. Era Pëtr Kropotkin, autore dell’unione del federalismo ottocentesco con il regionalismo del ventesimo secolo.
In gioventù, come ufficiale dell’esercito, partecipò a spedizioni geologiche nelle province del lontano oriente dell’impero russo; la sua autobiografia esprime il suo oltraggio nel vedere come l’amministrazione e la gestione finanziaria centrali rendevano vano ogni miglioramento delle condizioni locali tramite l’ignoranza, l’incompetenza e la corruzione universale, e tramite la distruzione di antiche istituzioni comunitarie che avrebbero potuto dare la possibilità alle persone di cambiare la propria vita. I ricchi diventavano più ricchi, i poveri più poveri, e la macchina amministrativa affondava nella noia e nella malversazione.
Ogni impero e ogni stato nazionale ha una produzione letteraria simile, come l’impero britannico e quello austro-ungarico, e le stesse conclusioni si trovano negli scritti di Carlo Levi e Danilo Dolci. Nel 1872, Kropotkin visitò l’Europa occidentale per la prima volta e in Svizzera fu inebriato dall’aria democratica; borghese, addirittura. Decise di stare tra i fabbricanti di orologi che vivevano sul massiccio del Giura. Martin Miller, suo biografo, spiegò come ciò cambiò la sua vita:
“Incontrando e parlando con i lavoratori del loro lavoro, Kropotkin conobbe quel genere di libertà spontanea, scevra da autorità o indirizzi dall’alto, che lui aveva sognato. Isolati e autosufficienti, i fabbricanti di orologi del Giura colpirono Kropotkin come un esempio di ciò che avrebbe potuto trasformare la società se solo questa comunità avesse potuto svilupparsi su larga scala. Non dubitava del suo successo perché non si sarebbe trattato di imporre un ‘sistema’ artificiale come quello che Muraviev tentò in Siberia, ma di lasciare che l’attività naturale dei lavoratori andasse avanti secondo i loro interessi.”
Questo fu il punto di svolta della sua vita. Il resto fu dedicato, in un certo senso, alla raccolta di esempi a favore dell’anarchia, del federalismo e del regionalismo.
Sarebbe sbagliato pensare al suo approccio come ad una semplice questione di storia accademica. Per provarlo, mi basta farvi notare lo studio di Camillo Berneri pubblicato nel 1922, ‘Un Federalista Russo, Pietro Kropotkine’. Berneri cita la ‘Lettera ai Lavoratori dell’Europa Occidentale’ che Kropotkin diede all’esponente del partito laburista britannico Margaret Bondfield nel giugno 1920. In questa lettera dichiarava:
“La Russia imperiale è morta e non si riavrà mai più. Il futuro delle varie province che compongono l’impero vedrà la nascita di una grande federazione. I territori naturali delle diverse parti di questa federazione sono indistinguibili dai territori familiari alla storia della Russia, della sua etnografia e della sua vita economica. Ogni tentativo di tenere sotto l’autorità centrale tutte le parti che costituiscono l’impero russo, come la Finlandia, le province baltiche, la Lituania, l’Ucraina, La Georgia, l’Armenia, la Siberia, e altre, è destinato a fallire. Il futuro di quello che era l’impero russo appartiene ad una federazione di unità indipendenti.”
Voi ed io possiamo vedere l’importanza di questa opinione, anche se fu rigettata come profondamente irrilevante per settanta anni. Durante il suo esilio in Europa occidentale, ebbe contatti con molti pionieri del regionalismo. La relazione tra regionalismo e anarchia è stata delineata in maniera elegante, o addirittura stravagante, da Peter Hall, il geografo che dirige l’Istituto californiano per lo Sviluppo Urbano e Regionale di Berkeley, nel suo libro Cities of Tomorrow (1988). Lì troviamo Paul Elisee Reclus, compagno anarchico di Kropotkin e geografo, che sosteneva la validità di una società umana su piccola scala basata sull’ecologia delle proprie regioni. E poi Paul Vidal da la Blache, un altro tra i fondatori della scienza geografica, che sosteneva che “la regione era più che un oggetto di studio; era qualcosa che forniva le basi per la ricostruzione della vita sociale e politica.” Spiega Hall che per Vidal la regione, e non la nazione, “come forza che fa andare lo sviluppo umano, in un rapporto reciproco quasi voluttuoso tra l’uomo e l’ambiente circostante, era la sede della libertà intelligibile e il luogo di origine dell’evoluzione culturale, entrambe attaccate e erose dallo stato nazionale accentratore e dall’industria su larga scala.”
Patrick Geddes
Infine lo straordinario biologo Patrick Geddes, che cercò di incapsulare tutte queste idee regionaliste, che fossero geografiche, sociali, storiche, politiche o economiche, in una ideologia a favore del regionalismo, a noi nota attraverso il lavoro del suo discepolo Lewis Mumford. Hall sosteneva che:
“Molte delle prospettive iniziali, anche se certo non tutte, del movimento pianificatore derivavano dal movimento anarchico che fiorì tra gli ultimi decenni del diciannovesimo secolo e i primi del ventesimo… Questi pionieri non immaginavano tanto una forma alternativa, quanto una società alternativa, né capitalista né burocratico-socialista: una società basata sulla cooperazione volontaria tra gli uomini, che lavorano e vivono in piccole comunità autogovernate.”
Oggi
Oggi, alla fine del ventesimo secolo, questa è l’opinione che condivido. Mettendo in guardia i popoli europei sulle conseguenze che avrebbe potuto avere un approccio che non fosse federalista e regionalista, questi pensatori anarchici del diciannovesimo secolo si dimostrarono un secolo più avanti dei loro contemporanei. Sopravvissuti a tutte le esperienze disastrose del ventesimo secolo, le classi governative degli stati nazionali europei hanno adottato politiche che portano ad un’esistenza soprannazionale. Il dilemma cruciale che si trovano di fronte è la scelta tra una Europa di stati e una di regioni.
130 anni fa, Proudhon pose il problema in relazione all’idea di un equilibrio di forze in Europa, obiettivo di teorici politici e uomini di stato, e contestò dicendo che questo era “impossibile a realizzarsi tra grandi potenze dotate di costituzioni unitarie”. In La Fédération et L’Unité en Italie aveva argomentato che “il primo passo verso la riforma del diritto in Europa” era “la restaurazione della confederazione in Italia, Grecia, Paesi Bassi, Scandinavia e la valle del Danubio, come preludio al decentaramento dei grandi stati e quindi al disarmo generale”. E in Du Principe Fédératif notò che “Tra i democratici francesi c’è stato un gran parlare di confederazione europea, o Stati Uniti d’Europa. Dicendo così, però, sembra che non intendano altro che un’alleanza tra tutti gli stati attualmente esistenti in Europa, grandi e piccoli, presidiati da un congresso permanente.” Una tale federazione, sosteneva Proudhon, sarebbe stata o una trappola o qualcosa di insignificante, per la semplice ragione che gli stati maggiori avrebbero dominato su quelli minori.
Un secolo più tardi l’economista Leopold Kohr (austriaco di nascita, britannico di nazionalità, gallese per scelta), che come gli altri si definisce anarchico. pubblicò il libro The Breakdown of Nations, in cui esalta le virtù delle società su piccola scala e sostiene, una volta di più, che i problemi dell’Europa hanno origine negli stati nazionali. Elogiando una volta di più la Confederazione Svizzera, afferma, servendosi delle mappe, che il problema dell’“Europa”, così come quello di ogni federazione, è che deve dividersi, non unirsi.
Bisogna riconoscere, però, che i sostenitori di una Europa Unita hanno sviluppato una dottrina della ‘sussidiarietà’, secondo cui non devono essere le istituzioni soprannazionali della Comunità Europea a prendere le decisioni, ma preferibilmente le amministrazioni a livello regionale o locale, contrapposte ai governi nazionali. Questa principio particolare è stato adottato dal Consiglio d’Europa, che ha chiesto ai governi nazionali di adottare il Trattato di Auto-Governo Locale “per formalizzare l’adesione ai principio secondo cui le decisioni dovrebbero essere prese al livello più basso possibile per essere trasferite ai livelli più alti tramite il consenso.”
Questo principio è un tributo straordinario a Proudhon, Bakunin e Kropotkin e le opinioni a cui diedero voce in solitudine (a parte alcuni pensatori spagnoli come Pi y Margall o Joaquín Costa). Ovviamente, questo è uno dei primi aspetti dell’ideologia pan-europea che i governi nazionali solitamente scelgono di ignorare. In questo senso, ci sono differenze evidenti tra i vari stati nazionali. In alcuni, come la Germania, l’Italia, la Spagna e perfino la Francia, la macchina dello stato è infinitamente più decentrata di quanto non fosse cinquanta anni fa. Lo stesso potrebbe accadere presto all’Unione Sovietica. Forse questa devoluzione non procede al passo che voi o io avremmo voluto, e riconosco volentieri che i fondatori della Comunità Europea sono riusciti nell’intento di far cessare gli antagonismi nazionali rendendo inconcepibile una futura guerra nell’Europa occidentale. Ma siamo ancora lontanissimi da un’Europa delle regioni.
Oggi vivo nello stato più centralizzato dell’Europa occidentale, dove il dominio del governo centrale è cresciuto smisuratamente, non diminuito, negli ultimi dieci anni. Qualcuno ricorderà le parole del primo ministro britannico nel 1988:
“Non abbiamo contratto i confini dello stato in Gran Bretagna solo per allargarli nuovamente a livello europeo, con un superstato che domina da Bruxelles”.
Questo è il linguaggio di chi non vede la realtà. Non occorre essere sostenitori della Commissione Europea per accorgersene. Dimostra pienamente quanto alcuni di noi siano lontani dal comprendere la verità che è nelle parole di Proudhon: “Come singola federazione anche l’Europa sarebbe troppo grande; potrebbe essere solo una confederazione di confederazioni.”
L’avvertimento degli anarchici è proprio questo: lo stato nazionale impedisce la nascita di un’Europa delle regioni. Se voi ed io avremo qualche influenza sul pensiero politico del prossimo secolo, dovremmo utilizzarla per promuovere la causa del regionalismo. “Pensa globale, agisci locale” dice uno degli slogan più efficaci del movimento ecologista. Lo stato nazionale ha battuto la scena europea per un breve periodo. Dobbiamo liberarci delle ideologie nazionaliste per agire localmente e pensare regionalmente. Solo così potremo diventare cittadini di tutto il mondo, non di una nazione né di un superstato transnazionale.
Bibliografia:
Pierre-Joseph Proudhon, Selected Writings, a cura di Stewart Edwards (Londra, Macmillan, 1970)
Pierre-Joseph Proudhon, Del Principio Federativo, Introduzione, traduzione e cura di Paolo Bonacchi (2000, http://www.abonacchi.it/PaoloBonacchi/Del_principio_federativo.pdf)
Edward Hyams, Pierre-Joseph Proudhon (Londra, John Murray, 1979)
Michael Bakunin, Selected Writings, a cura di Arthur Lehning (Londra, Jonathan Cape, 1973)
Willem de Haan, The Politics of Redress (Londra, Unwin Hyman, 1990)
Martin Miller, Kropotkin, (University of Chicago Press, 1976)
Camillo Berneri, Peter Kropotkin: His Federalist Ideas (1922) (London, Freedom Press, 1942)
Peter Hall, Cities of Tomorrow: an intellectual history of urban planning and design in the twentieth century (Oxford, Basil Blackwell, 1988)
Leopold Kohr, The Breakdown of Nations (Londra, Routledge, 1957)
Ernest Wistnch, After 1982: The United States of Europe (Londra, Routledge, 1989)
Consiglio Europeo, The Impact of the Completion of the Internal Market on Local and Regional Autonomy (Council of Europe Studies and Texts, Series no. 12, 1990)
Margaret Thatcher, Address to the College of Europe, Bruges, 20th September 1988.