Nel 2011 partecipai ad una discussione pubblica presso King’s Books a Tacoma, nello stato di Washington. Si parlava dell’effetto che hanno le guerre sui soldati e le loro famiglie. Mi ero preparato a rispondere parlando dell’impatto che le guerre continue hanno sulle famiglie che incontravo nella sala parto dove lavoro. Durante questa discussione, però, fui sorpreso da uno dei partecipanti che invocava rumorosamente il ritorno alla coscrizione obbligatoria. Il pubblico approvò vivacemente.
Da allora mi è capitato di vedere molte, molte altre richieste, l’ultima delle quali nell’ultimo libro di Andrew Bacevich, di un ritorno alla coscrizione da parte di persone apparentemente contro la guerra. La premessa, a volte esplicita e a volte no, dietro queste richieste è che la coscrizione fermerebbe la brama americana di guerre e di interventi all’estero distribuendone il peso più equamente. La coscrizione è stata condannata, giustamente, perché è una forma di schiavitù; e qualche volta una forma mortale, per giunta. Ma anche chi sviene alla sola idea di considerare schiavi i soldati americani non può negare la semplice realtà storica che la coscrizione non ha mai, mai, neanche una volta, fermato o rallentato o in qualche modo inibito il corso di una guerra.
La prima guerra americana combattuta con la coscrizione fu la rivoluzione, e fu combattuta tutta quanta fino alla sua conclusione. La seconda fu la guerra civile, che costò più vite americane di ogni altra guerra. E se la coscrizione causò diverse rivolte, prima fra tutte una protesta anti-coscrizione degenerata in pogrom contro i neri a New York, anche questa guerra fu combattuta fino al suo sanguinoso esito finale. Anche la prima e la seconda guerra mondiale furono combattute in gran parte con coscritti e fino al loro infelice esito finale. Nel secondo caso, due grandi città furono immolate al dio della guerra da una nuova odiosa arma sganciata da aerei con un equipaggio composto parzialmente da coscritti.
La guerra di Corea e, soprattutto, quella di Vietnam formano quella che la lobby pro-coscrizione considera la chiave di volta del loro ragionamento. L’interpretazione classica è che l’americano medio era stufo di vedere le vite dei suoi figli distrutte dalla guerra d’attrito di Westmoreland, mentre Lyndon Johnson apparentemente diceva: “Se ho perso Cronkite, ho perso l’americano medio.” Apparentemente, le manifestazioni di protesta persuasero il governo americano a lasciare il Vietnam. Questa interpretazione non considera chi realmente fermò la guerra americana in Vietnam: i vietnamiti.
La rivoluzione, la guerra civile, le due guerre mondiali: per il governo americano, queste sono guerre vittoriose. La vittoria è sempre popolare; una guerra vittoriosa, per quanto ovviamente aggressiva o assurdamente ingiusta, raramente genera un’opposizione significativa. Ma in Vietnam l’America non stava vincendo. Stava perdendo, e malamente. L’americano medio scese in strada, è vero, ma non perché Johnny tornava a casa in una scatola. Scese in strada perché Johnny stava perdendo.
L’interpretazione pro-coscrizione della opposizione alla guerra di Vietnam ha un fondo razzista e imperialista; nega ai vietnamiti il loro ruolo di protagonisti della loro storia; esalta orgogliosamente i bianchi americani che protestavano agitando cartelli per le strade, ignorando i contadini vietnamiti che davano le loro vite per cacciare via l’ennesima potenza imperialista che pretendeva di comandare in casa loro. A fermare la guerra di Vietnam non furono gli studenti dei college che agitavano i cartelli; furono i risaioli con gli AK-47. Gli americani si commuovono per la morte di un coscritto solo quando il coscritto muore in una guerra che sta perdendo. Il credito per l’opposizione a questa guerra non va agli americani a casa ma alle vittime straniere del governo americano.
L’idea secondo cui la guerra perderebbe popolarità se solo il peso fosse distribuito fra tutti sembra intuitiva e accattivante, ma storicamente è un’illusione. La vittoria rende le guerre popolari, e la sconfitta le rende impopolari. Se vogliamo fermare la macchina della guerra dall’interno del centro imperiale, dobbiamo fare tutto il possibile per incepparla, che si tratti di contrastare gli arruolamenti, appoggiare l’opposizione al mondo militare, far conoscere i costi del militarismo, ricorrere allo sciopero fiscale, o fare altro che possa servire. E mentre dibattiamo sui fini ultimi dei comunisti in Vietnam o degli islamici in Iraq, dobbiamo sempre ricordare che le persone che fanno più di ogni altro per fermare la macchina da guerra sono quelle che prendono le armi in mano e la combattono.
Di Jonathan Carp. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 17 ottobre 2013 con il titolo The Draft Never – Ever – Stopped a War. Traduzione di Enrico Sanna.