Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 16 settembre 2020 con il titolo And Yet You Use Those Evil Big Tech Platforms. Curious! Traduzione di Enrico Sanna.
Capita spesso che un libertario di destra denunci, con qualche giustificazione, la stupidità di chi pensa che opporsi a qualche legge o istituzione statale significhi opporsi a qualche valore o a qualche fine da raggiungere in nome di tale valore. Voler abolire il ministero dell’istruzione, ad esempio, non significa volere l’ignoranza. Ma sono poi gli stessi libertari di destra, come vedremo, a fare un errore molto simile.
Un errore simile, la cui colpa ricade perlopiù sui sostenitori del capitalismo, è riassunta dall’espressione “anticapitalista con l’iPhone” diffusa sui social. Matt Bors ci ha fatto sopra una vignetta molto nota in cui un contadino dice: “Questa società fa schifo”, al che un troll di destra gli risponde da un pozzo: “Però anche tu fai parte della società. Io sono molto intelligente.”
Implicito nella risposta del troll è che se vogliamo i vantaggi, dobbiamo accettare anche gli arrangiamenti istituzionali che li rendono possibili. Ma così facendo si impedisce qualunque critica delle strutture sociali o delle istituzioni di qualsivoglia società, dato che l’unico modo per avere quei vantaggi passa dall’accettazione del sistema sociale che li rende possibili. Un sostenitore dell’economia pianificata sovietica avrebbe potuto sfidare un sostenitore del libero mercato con le stesse parole: “Però hai una casa, vestiti, mobili e elettrodomestici prodotti in industrie di stato che dipendono dai ministeri dell’industria e producono seguendo un Piano Quinquennale. Strano!”
Elizabeth Nolan Brown, in due articoli pubblicati su Reason a distanza di qualche giorno, casca in entrambi gli errori. In “Democrats Hate Facebook. Republicans Want To Ban TikTok. The Bipartisan Backlash Against Big Tech Is Here and It’s a Disaster” (13 agosto), scrive:
La gente comincia a considerare internet, e le opportunità che crea, una seccatura. Anche se i loro prodotti hanno cambiato pressoché ogni aspetto della quotidianità, le grandi aziende tecnologiche sono oggetto di critiche e di attacchi politici.
Per contro, spiega, la primavera scorsa c’è stato un momento in cui gli americani sembravano apprezzare ciò che queste aziende facevano per loro.
…mentre il paese chiudeva tutto e stava a casa a causa del virus, le aziende tecnologiche statunitensi sembravano godere di una rinata reputazione. Mentre tutti erano rinchiusi in casa, le aziende tecnologiche venivano in aiuto offrendo alimentari, divertimento, lavoro e possibilità di comunicare. Ma la tregua è stata breve. Cinque mesi di pandemia sembrano aver cancellato qualsiasi simpatia per la Silicon Valley.
“C’è stata una breve finestra temporale in cui tutti ringraziavano le tecnologie che permettevano di continuare a funzionare come società nonostante l’impossibilità di riunirsi in uno spazio fisico,” dice a Reason Eric Goldman, docente di diritto all’università di Santa Clara. “Ma la gratitudine è presto evaporata. Presto è ripreso l’odio verso le aziende di internet dimenticando i vantaggi che offrono.” …
…Proprio quando le aziende tecnologiche offrono innumerevoli vantaggi alla gente, ecco che torna più forte che mai la critica per le dimensioni e il loro potere, critica che qualcuno in gergo chiama “techlash” …
Pensiamo ai tanti modi in cui strumenti digitali e aziende tecnologiche hanno garantito l’accesso ad informazioni aggiornate e diversificate durante la pandemia. Pensiamo ai servizi di streaming, ai videogiochi interattivi, ai fornitori di libri digitali, a chi fa i podcast e alle applicazioni che ci hanno permesso di passare il tempo. I tanti servizi di messaggeria gratuita con cui abbiamo potuto mantenere i contatti con amici, famiglia, colleghi. Quegli strumenti online che garantiscono perlomeno la fattibilità dell’istruzione. Tutti quei servizi che permettono di fare donazioni, i mercati virtuali come Etsy e eBay, le applicazioni della gig economy da Uber a Patreon che aiutano a sbarcare il lunario.
Certo non è l’ideale. Ma senza la tecnologia attuale, sarebbe molto peggio …
Pensiamo ai tanti [abusi della polizia] evitati dagli smartphone e le videocamere, ma anche da chi permette la libera diffusione dei video.
Da notare come sia per lei che per Eric Goldman ad un insieme di cose (internet e le opportunità che esso crea, la possibilità di acquistare alimentari e altro, la tecnologia, lo streaming, i videogiochi eccetera, gli smartphone, i video digitali, le tecnologie attuali) corrisponda un altro insieme (Big Tech, Silicon Valley, le aziende di internet, le principali aziende tecnologiche statunitensi).
Se non stai attento, ti frega. Perché le due cose non corrispondono, così come gli alloggi, i vestiti e gli elettrodomestici non corrispondevano all’industria di stato sovietica. Le stesse funzioni tecniche di base possono essere offerte con un gran numero di arrangiamenti istituzionali diversi. Ogni società di classe sceglie un suo particolare arrangiamento. E quest’ultimo riflette gli interessi della classe dominante. Come scrive Paul Goodman, “un sistema distrugge i sistemi avversari vanificandone la possibilità di manovra per poi dimostrare che il suo è l’unico sistema possibile.”
Il fatto che beni e servizi di cui ci serviamo vengano da un particolare insieme di arrangiamenti istituzionali scelto dalle strutture di potere – e da chi sennò? – non legittima quegli arrangiamenti.
In “Anti-Tech Warriors Are Coming For Your Food Delivery Apps” (17 agosto) Brown applica lo stesso ragionamento alle applicazioni per la consegna a domicilio dei negozi di gastronomia.
Negli Stati Uniti, moltissimi consumatori e aziende si servono di applicazioni che permettono alla gente di ottenere servizi altrimenti inaccessibili e alle attività di ampliare la clientela, offrendo al contempo un piccolo lavoro flessibile a chi fa le consegne…
Non sorprende il fatto che le agguerrite attività tradizionali non ne vogliano sapere. Non sono disposte a condividere i propri guadagni con chi ha le applicazioni, né vogliono dare ai loro clienti la possibilità di servirsi altrove. È una guerra. E da quando è iniziata la pandemia, con la gente a casa e i ristoranti chiusi, l’uso delle applicazioni si è diffuso.
Chi vorrebbe eliminare le applicazioni, ovviamente, non dice apertamente così. Dice che le applicazioni “sfruttano i ristoranti, i lavoratori, i consumatori”, che drenano “soldi dall’economia locale”.
Ma la loro campagna “Protect Our Restaurants” è sostanzialmente lobbismo, chiede l’intervento dello stato a favore di una categoria protetta, affinché le vecchie gastronomie continuino ad incassare senza migliorare il proprio servizio. Abbiamo visto altre crociate simili lanciate da giornali, alberghi e altre aziende il cui modello economico obsoleto è stato minato da internet …
…Le loro soluzioni si riducono sostanzialmente alla richiesta di regole più stringenti.
Qui, tutto ciò che esprime positività e libertà (i vantaggi che le applicazioni “forniscono”, “permettono” e così via) si riferisce alle benevole applicazioni. Mentre ciò che esprime negatività (agguerrite aziende tradizionali, non vogliono [detto più volte], far scomparire, lobbismo, categoria protetta, modello economico obsoleto) è attribuito a chi si oppone. Se vi sentite un po’ presi in giro, non è colpa vostra.
Anche la questione normativa è ugualmente inquadrata in maniera parziale. Ad offrire “libertà” e “scelta” sono sempre le applicazioni, mentre i cattivi – le “vecchie gastronomie” che odiano la “concorrenza” – vogliono più regole.
Chiariamo alcune cose. Prima di tutto, il modello di profitto di queste applicazioni – che, cosa che Brown non dice mai, sono proprietarie, chiuse, monopolio di certe aziende – dipende interamente da un monopolio della proprietà intellettuale. E, cosa scomoda per Brown che gioca a fare il moralista, la proprietà intellettuale è una normativa governativa che blocca la concorrenza.
E nonostante tutto il gran parlare di libertà – con parole che significano possibilità, offerta, cambiamento, scelta, flessibilità – la mano che libera può anche incatenare. Grazie al controllo monopolistico delle applicazioni sulle piattaforme, si possono imporre unilateralmente le tariffe a gastronomie, tassisti e clientela. Si sa che le applicazioni fanno la cresta alle gastronomie e rubano le mance ai tassisti, in quest’ultimo caso contribuendo a ridurne la paga. Son sicuro che Brown risponderebbe che il mercato limita il loro potere di agire così perché clientela, tassisti e gastronomie hanno la possibilità di rifiutare il prezzo; ma il potere di impostare il prezzo ad un livello che massimizza il profitto sulla base dell’utilità per il consumatore, impostandolo ad un livello appena al di sopra delle capacità di gran parte delle persone, è la definizione esatta di tariffa monopolistica.
Quanto alla finzione dei lavoratori “liberi professionisti”, non sta in piedi neanche un secondo. Come dice Cory Doctorow a proposito di Amazon Flex, si tratta di
un sistema di consegna che rientra nella “gig economy” fingendo che gli autisti siano liberi professionisti, anche se poi ogni loro minimo movimento viene registrato da un’applicazione controllando il lavoratore come mai capitava coi padroni del passato.
Quanto alla gig economy in generale, la storia del “libero professionista” è solo un trucco che serve a trasferire rischi e costi dal datore di lavoro al lavoratore, che non è affatto indipendente come i veri liberi professionisti.
Gli autisti di Amazon Flex sono lavoratori “addomesticati” la cui paga è determinata da un algoritmo a scatola chiusa impostato in modo da tenerli un po’ più su del fallimento (ed è per questo che hanno cominciato ad APPENDERE I CELLULARI AGLI ALBERI).
In parole povere, se un’azienda possiede l’applicazione che “gestisce” il tuo lavoro, e se può licenziarti unilateralmente, allora è il tuo datore di lavoro. Punto. Chiunque sostenga il contrario è un imbonitore.
Brown inquadra la questione nei termini ingannevoli di “vecchio e clientelare” opposto a “nuovo e di rottura”, ma se c’è qualcosa che dev’essere rotto qui sono proprio queste applicazioni proprietarie, quelle che un sincero sostenitore dell’economia della condivisione chiamerebbe “piattaforme della morte nera”. Il loro monopolio basato sulla proprietà intellettuale non è affatto diverso dal protezionismo garantito dallo stato che impone l’obbligo della licenza ai tassisti.
Dire che bisognerebbe ringraziare le aziende tecnologiche per i vantaggi offerti è come dire che il contadino medievale avrebbe dovuto ringraziare il feudatario per la possibilità di accedere alla terra da cui traeva vantaggi e sostentamento. Sembra di vedere Brown che spunta da un pozzo e dice: “E però tu stranamente usi i prodotti di quelle cattive aziende tecnologiche.”
Il consumatore deve rendere omaggio alle aziende tecnologiche in cambio dei servizi per la stessa ragione per cui i contadini dovevano trattare con i proprietari terrieri per potersi servire della terra: le aziende tecnologiche hanno un monopolio legale che permette loro di controllare l’accesso ai servizi tecnologici grazie ai diritti artificiali di proprietà intellettuale garantiti dallo stato. Così come i feudatari, anche le aziende tecnologiche possono fare a meno del freno costituito dalle “normative statali”. Perché le normative sono la base del loro potere.
Possiamo rompere il loro potere o annullando o ignorando le leggi sulla proprietà intellettuale – le normative statali – alla base del loro potere. Un modo per farlo passa da quella che Doctorow chiama “interoperabilità avversaria”. In poche parole, significa togliere le protezioni da codici e protocolli di applicazioni proprietarie, togliere le protezioni ai segreti industriali relativi ai codici sorgente, togliere tutte le altre barriere legali imposte alle applicazioni open-source, per servirsene senza dover ottenere il permesso.
Una possibilità allettante sarebbe creare una difesa legale assoluta per quelle aziende che fabbricano parti “interoperabili” utilizzabili con prodotti di aziende dominanti, dall’inchiostro di terze parti per le stampanti ai lettori di Facebook che intercettano i messaggi e li filtrano secondo le tue specifiche, e non quelle di Zuckerberg. Questa difesa metterebbe al riparo i piccoli sviluppatori da accuse di contraffazione, elusione del copyright, violazione di brevetto e, ovviamente, violazione dei termini di servizio.
Nel caso di social a gestione opaca come Twitter e Facebook, una qualsiasi alternativa open-source gestita dall’utente potrebbe, passando Twitter e/o Facebook, importare elenchi di contatti e creare post interpiattaforma senza dover chiedere il permesso a Jack Dorsey o Mark Zuckerberg.
Alternative a Facebook, come Diaspora, permettono, servendosi del login dell’utente, di scaricare i messaggi in arrivo da Facebook e rispondere direttamente da Diaspora eludendo i controlli di Facebook. Gli utenti di Mastodon possono leggere e pubblicare su Twitter senza passare mai dai suoi server. Potrebbero nascere centinaia o migliaia di servizi che permettono agli utenti di bloccare le interferenze e attirare interessanti contributi da parte di altri utenti, che si tratti di quelli già esistenti sui social o di altri nuovi.
Invece di persone scontente costrette a rivolgersi a Mastodon su Fediverse che ha meno dell’uno percento degli utenti di Twitter, vedremo Twitter diventare una piattaforma aperta come Fediverse, con tutto l’effetto rete di Twitter.
Facebook trae vantaggio dall’“effetto rete”, per cui il suo valore aumenta ad ogni utente iscritto (perché più utenti significano più probabilità che la persona che cerchi sia su Facebook). L’interoperabilità avversaria può permettere ai nuovi partecipanti al mercato di appropriarsi dell’effetto rete, lasciando che i loro utenti restino in contatto con i loro amici su Facebook anche dopo essersi cancellati.
Nel caso specifico di quelle che erroneamente vengono chiamate applicazioni di “ride-sharing”, spiega Doctorow come l’interoperabilità avversaria potrebbe dar vita ad un ride-sharing vero:
Immaginiamo un’applicazione distruttiva che distrugge i distruttori.
Poniamo che io abbia una applicazione di ride-sharing (chiamiamola Meta-Uber) connessa a tutte le cooperative di tassisti al mondo. Quando atterro, cerco un taxi con Uber o Lyft, ma una volta che il tassista ha risposto, la mia Meta-Uber gli chiede: “Hai una applicazione della cooperativa sul cellulare?” Se sia il tassista che io abbiamo quella applicazione, cancelliamo la prenotazione con Uber e la trasferiamo su Meta-Uber.
Si potrebbe così sfruttare quella base costituita dai tassisti al servizio di Uber e Lyft, i miliardi gettati per legalizzare il servizio nelle varie città del mondo e gli altri miliardi spesi in marketing per inculcare l’idea del ride-sharing nella testa della gente.
Questo ipotetico Meta-Uber opererebbe una transizione dolce da un servizio di proprietà di azionisti alle cooperative di lavoratori. Quando hai bisogno di un taxi, lo trovi, senza incappare nel dilemma della gallina e dell’uovo dei tassisti che mancano perché non ci sono passeggeri che mancano perché non ci sono tassisti. Una corsa dopo l’altra, Lyft e Uber potrebbero essere cannibalizzate e portate all’ospizio.
I miliardi spesi per assicurarsi il “vantaggio della prima mossa” non rappresenterebbero più una muraglia eretta a protezione delle loro attività: sarebbero invece una pietra al collo. Lyft e Uber si ritroverebbero con un’eccedenza di capitale per miliardi da cui i loro investitori si aspettano un rientro, mentre le cooperative, avendo semplicemente cavalcato le due aziende, non avrebbero nessun peso sulle spalle.
Possiamo farlo?
Sì. Tecnicamente, non è molto difficile. Il servizio abbina a tassista e cliente un codice unico relativo alla corsa, Meta-Uber verifica che il codice unico del tassista corrisponda a quello del cliente, quindi cancella la prenotazione usando la funzione apposita di Uber o Lyft e ne crea un’altra uguale con Meta-Uber…
Si possono immaginare centro altre Meta: una Meta-Amazon che reindirizza l’ordine alla più vicina libreria; una Meta-OpenTable che rimanda la prenotazione ad una cooperativa.
Queste cooperative finirebbero per distruggere i monopoli digitali arrivati al potere predicando il mantra della distruzione [cioè quei monopoli che Brown e altri su Reason difendono tanto calorosamente, K.C.]. Ognuno di quei monopolisti digitali si ridurrebbe ad un belato, diventerebbe un superpredatore sconcertato che ringhia e si contorce impotente mentre viene ridotto a brandelli da mille minuscoli morsi da parte di uno sciame di nuovi arrivati veloci e altamente evoluti.
Il vero ostacolo, come spiega lui stesso, non è tecnico ma legale:
Il diritto tecnologico è una pletora di norme desuete sistematicamente distorte da aziende “di rottura”, che le usano prima per farsi largo nella vecchia industria e poi per proteggersi dai nuovi arrivati o per cercare di distruggerli.
La prima è la Legge sull’abuso e le frodi informatiche (FCAA), teoricamente una normativa anti-intrusione che punisce l’uso “oltre il limite autorizzato” di un computer altrui. Già ai tempi dell’approvazione, oltre quarant’anni fa, esperti e operatori dissero che era troppo generica e che un giorno avrebbe potuto essere usata per criminalizzare il normale uso del proprio computer, perché per certe attività occorre connettersi ad un server il cui proprietario potrebbe imporre pesanti “condizioni d’uso” e “termini di servizio”. Se questo atteggiamento avesse preso piede, si diceva allora, le condizioni imposte avrebbero potuto acquisire la forza di una legge penale, e la loro violazione avrebbe potuto portare all’arresto.
Quarant’anni dopo, le paure sono realtà: la CFAA è usata per minacciare, intimidire, denunciare e anche arrestare persone impegnate in attività altrimenti perfettamente legali, semplicemente perché hanno violato qualche termine di servizio. Il fatto che i termini di servizio si siano metastatizzati in poemi scritti in impenetrabile gergo giuridico ha creato un mondo in cui ogni tentativo di ostacolare le ambizioni commerciali dei monopolisti è un potenziale crimine.
C’è poi l’articolo 1201 del Digital Millennium Copyright Act del 1998, voluto da Bill Clinton per criminalizzare “l’aggiramento dei controlli dell’accesso” (la gestione dei diritti digitali, o drm) nelle opere coperte da copyright…
Messi assieme, CFAA e DMCA hanno dato la possibilità alle aziende digitali di creare un sistema legale ombra mai approvato da nessun parlamento ma regolarmente applicato dai giudici sotto forma di spregio criminale del modello aziendale.
Il CFAA e il DMCA 1201 sono stati accuratamente distorti fino a farne uno schermo difensivo, antidisturbo, a vantaggio esclusivo delle aziende digitali. I tassisti tradizionali, ad esempio, non possono servirsene per tenere Uber e Lyft fuori dalla loro città.
Ma Uber e Lyft possono servirsi di questi strumenti legali per tenere Meta-Uber lontano dai loro profitti. Prolissi termini di servizio stabiliscono le regole con cui una persona può comunicare con i loro server. Ad esempio, vietano l’uso dei server per localizzare i tassisti per fini che non siano la prenotazione di una corsa. E ovviamente non permettono di localizzare un taxi per poi cancellare la prenotazione e rifarla con l’applicazione di una cooperativa.
E l’applicazione è criptata sul tuo telefonino, e per entrarci con l’ingegneria inversa dovresti prima decriptarla (magari catturando un’immagine del codice decriptato mentre viene eseguito su un telefono virtuale simulato su un computer). Decriptare un’applicazione senza permesso è “aggiramento dei controlli di accesso” di materiale protetto da copyright (il codice dell’applicazione è coperto da copyright).
Uber e Lyft possono usare DMCA 1201 per impedire a chiunque di utilizzare l’applicazione per localizzare un tassista di una cooperativa, mentre CFAA permette loro di impedire che la prenotazione sia spostata da Uber a Meta-Uber.
Queste barriere legali – ancora una volta, norme statali protezioniste – sono al cuore del modello aziendale su cui si basano tutte le applicazioni proprietarie, non solo quelle di “ride-sharing”.
Riassumendo, ogni singola parte del ragionamento di Brown, che inquadra la cosa in termini di Davide contro Golia, è falsa. È il Big Tech che è blindato e clientelare, e usa le norme statali per soffocare la concorrenza. Dovrebbero essere le gastronomie, i taxi, i clienti e tutti gli altri utenti di queste cosiddette piattaforme della Morte Nera ad espropriarne la proprietà intellettuale, romperne il monopolio e mandare a quel paese i loro sostenitori.