Prima parte
Di Kevin Carson. Articolo pubblicato originariamente su Mutualist Blog: Free Market Anti-Capitalism, 11 gennaio 2005. Pubblicato su C4SS il 17 dicembre 2012 con il titolo Vulgar Libertarianism Watch. Traduzione di Enrico Sanna.
Non appena ho pensato di aprire un blog, mi è venuta l’idea di scrivere una rubrica chiamata “Osservatorio del Libertarismo Volgare”, o qualcosa del genere. Per un attimo ho anche pensato di chiamare così il blog, e di dedicare gran parte del mio lavoro a denunciare quella sorta di analisi di finto “libero mercato” che non è altro che una difesa delle grandi imprese. Pur avendo materiale sufficiente a tenermi attivo per un tempo indefinito, ho deciso che sarebbe troppo per uno che ha solo due braccia.
Così ho deciso di assecondare l’impulso originario e pubblicare ogni tanto qualcosa sotto il titolo “Osservatorio del Libertarismo Volgare” senza però farne la caratteristica base del blog. E quale migliore partenza di questo articolo d’esordio?
Ma prima una nota sul termine libertarismo volgare. Il termine, coniato da chissà chi, allude sia al “marxismo volgare” dei marxoidi novecenteschi che a quella che Marx definiva “l’economia politica volgare” della generazione successiva a Ricardo e Mill. La caratteristica principale dell’economia politica volgare, secondo Marx, era nel fatto che non cercava più di analizzare scientificamente le leggi dell’economia ma era diventata un picchiatore al soldo degli interessi plutocratici. L’economia politica classica era un credo rivoluzionario che minacciava l’oligarchia terriera e i mercantilisti. Poteva anche piegarsi ad usi più rivoluzionari, come evidenziato dai socialisti ricardiani. La più famosa interpretazione socialista di Ricardo, ovviamente, è quella di Marx. Ma lo sviluppo in senso socialista dell’economia politica classica comprendeva anche sostenitori del libero mercato come Thomas Hodgskin (il più autorevole tra i socialisti ricardiani), i vari mutualisti e gli anarchici individualisti da Warren a Tucker a Spooner, oltre a molti georgisti. Il mio scritto tratta di questi ultimi deviazionisti piccolo borghesi. Con il trionfo dei possidenti industriali dell’Inghilterra degli anni 1830, l’attenzione passa dalla ricerca scientifica e dalla sfida al potere del vecchio regime, ad una giustificazione delle condizioni presenti.
All’inizio del Capitolo Quarto dei miei Studies in Mutualist Political Economy descrivo il libertarismo volgare come un’ideologia. Poiché il passaggio è la descrizione più coerente di cui sono capace, invece di reinventare la ruota tiro fuori il pigro che è in me e incollo qui i paragrafi più importanti:
Questa scuola libertaria ha scritto sul proprio stemma le parole d’ordine reazionarie: “Tutto l’aiuto possibile a quei poveracci dei padroni.” Qualunque sia l’argomento, è facile indovinare chi sono i buoni e chi i cattivi; basta invertire lo slogan de La Fattoria degli Animali: “Due gambe buono, quattro zampe cattivo.” I buoni, le vittime sacrificali dello Stato Progressista, sono sempre i ricchi e potenti. I cattivi sono i consumatori e i lavoratori che si arricchiscono con soldi pubblici. A mo’ di esempio principale di questa tendenza, pensate a come Ayn Rand descrive le grandi aziende come una “minoranza oppressa”, e il complesso industriale-militare come “un mito, o peggio”.
Secondo loro, apparentemente, l’ideale di società di “libero mercato” non è altro che il capitalismo così com’è meno lo stato sociale e normativo: una versione ipertiroidea del capitalismo dei baroni ladri dell’Ottocento, forse; o, meglio, una “società riformata” da persone come Pinochet, il Dioniso a cui Milton Friedman e i Chicago Boys facevano da Aristotele.
I libertari volgari apologeti del capitalismo danno all’espressione “libero mercato” un significato ambiguo: sembrano incapaci di ricordare, da un momento all’altro, se stanno difendendo i principi del libero mercato o il capitalismo esistente. È così che arrivano a scrivere articoli chiusi, standardizzati, in cui sostengono che i ricchi non possono arricchirsi a spese dei poveri perché “non è così che il libero mercato funziona”, dando per scontato che questo che abbiamo sia libero mercato. Se costretti, ammettono a denti stretti che l’attuale sistema non è un libero mercato, e che lo stato interviene spesso a favore dei ricchi. Detto questo, però, tornano a difendere le ricchezze delle aziende sulla base dei “principi del libero mercato”.
Lasciamo perdere e procediamo a vivisezionare il primo esemplare di libertarius vulgaris. Sarebbe una coincidenza sospetta se mi fossi imbattuto per caso in un grosso esemplare proprio mentre pensavo a come iniziare il blog. In realtà è successo il contrario: mi sono imbattuto in un articolo e ho deciso che era troppo goloso per ignorarlo. Se non vado su di giri e comincio a scrivere quando mi capita un’occasione simile, tanto vale che lasci perdere.
In “That Taco Bell Brouhaha”, Art Carden parla del boicottaggio (da parte dei Wobblies, studenti vari, coalizioni antisfruttamento e altri) della Taco Bell in difesa degli indiani Immolakee che raccolgono pomodori. Rispondendo a chi accusa la Taco Bell di pagare salari da sfruttamento, Carden risponde:
Sbagliato. La politica salariale della Taco Bell allevia la “miseria dei braccianti agricoli e delle loro famiglie”, non la promuove. Il salario non è imposto al lavoratore; c’è una ragione se questo accetta di raccogliere pomodori per una paga “sotto la soglia della povertà”. In un’economia di mercato, fa così perché la paga “sotto la soglia della povertà” offerta dai fornitori della Taco Bell è l’offerta migliore tra quelle disponibili. È la stessa ragione per cui tante persone fanno la fila per essere assunte “a sfruttamento” nei paesi in via di sviluppo. Lungi dal contribuire alla “miseria”, Taco Bell migliora la vita dei lavoratori offrendo loro qualcosa di più della migliore alternativa.
Prima di correre a stigmatizzare il libero mercato e le forze di mercato, dobbiamo chiederci quali sono le condizioni iniziali dei lavoratori. In molti casi, i fornitori della Taco Bell impiegano immigrati che “passano il confine”. A Immolakee gli immigrati vengono da luoghi come Haiti, Messico e America Centrale, zone in cui i mercati sono stati azzoppati da generazioni di interventi statali. Il risultato è un vero e proprio esercito di lavoratori a cui non è stato permesso di sviluppare capacità lavorative tramite un impiego sul libero mercato e che ora sono adatti giusto a raccogliere pomodori per una miseria. Lungi dall’essere nemici del lavoro, i mercati americani offrono agli immigrati l’opportunità di migliorare notevolmente lo standard di vita e le prospettive dei figli.
In questi paragrafi troviamo così tante caratteristiche del libertarismo volgare che non si sa da dove cominciare. La difesa dell’atteggiamento aziendale nell’ambito del “capitalismo allo stato attuale”, espressa in termini di “così funziona il libero mercato”, è, come dicevo nel passaggio tratto da Mutualist Political Economy, un segno della presenza di un libertario volgare.
Fa un certo effetto, però, trovare uno scritto del genere in un’istituzione strettamente associata alla memoria di Murray Rothbard. Uno dei temi centrali dell’opera di Rothbard, o di rothbardiani come Joseph Stromberg, è la natura essenzialmente statalista (e sfruttatrice) del capitalismo corporativo nella sua forma presente. Come dice Rothbard in “The Student Revolution” (The Libertarian, primo maggio 1969), “il nostro stato corporativo usa il potere di imporre le tasse per accumulare capitale a beneficio delle aziende e dei loro costi.” Passare da un eccellente analisi del libero mercato come questa, o questa (PDF), a un’apologia della situazione attuale come il pezzo visto prima, è un’oscenità.
Particolarmente in linea con lo stile libertario volgare è l’affermazione secondo cui la Taco Bell fa una “offerta migliore” rispetto alla “migliore alternativa”. È un’affermazione che, formulata in modi leggermente diversi, si può trovare in forme standard pseudo-mercatiste praticamente in ogni numero di The Freeman: Ideas on Liberty o in qualunque edizione quotidiana del blog dell’Adam Smith Institute. Ecco qualche esempio preso da The Freeman:
Ora che lavorano per un’azienda straniera, i lavoratori “non sindacalizzati a basso salario” ecuadoregni stanno meglio? È chiaro che la pensano così, altrimenti avrebbero continuato a fare quello che facevano prima (lascereste il vostro lavoro per un altro a condizioni peggiori e paga più bassa?) ~ Barry Loberfeld, “A Race to the Bottom”, luglio 2001
La gente in Cina, Indonesia e Malesia fa la coda quando una multinazionale americana apre una fabbrica. Questo perché, anche se i salari sono bassi secondo gli standard americani, i posti di lavoro creati dalle aziende americane sono spesso tra i migliori di quei paesi. ~ Russell Roberts, “The Pursuit of Happiness: Does Trade Exploit the Poorest of the Poor?”, settembre 2001
Così la Rivoluzione Industriale diede la possibilità a questa gente, che non aveva nient’altro da offrire sul mercato, di vendere il proprio lavoro ai capitalisti in cambio di un salario. Riuscirono a sopravvivere proprio grazie a ciò… Come dice Mises, il fatto stesso che la gente accettasse un lavoro in fabbrica significava che questo lavoro, per quanto a noi sgradevole, rappresentava la loro migliore opportunità. ~ Thomas E. Woods Jr., “A Myth Shattered: Mises, Hayek, and the Industrial Revolution”, novembre 2001
Nell’America dell’Ottocento, gli attivisti antisfruttamento prendevano di mira soprattutto quelle fabbriche che impiegavano poveri immigrati, uomini, donne e bambini. Anche se le condizioni di lavoro erano terribili, queste fabbriche davano la possibilità di guadagnarsi il pane a molte persone prive di qualifiche. Di solito, chi lavorava lì lo faceva perché quella era l’opportunità migliore disponibile…
È vero che i salari dei lavoratori dei paesi in via di sviluppo sono scandalosamente bassi se paragonati a quelli americani, e che le condizioni di lavoro offendono la sensibilità del ricco e industrializzato Occidente. Ma ho verificato in molti casi che le opportunità che vengono dall’estero sono generalmente meglio delle alternative locali, dall’America Centrale al sud-est asiatico. ~ Stephan Spath, “The Virtues of Sweatshops”, marzo 2002
Ultimamente, l’argomento è stato ripreso da Radley Balko, che ha definito il Terzo Mondo “un insieme di cattive opportunità di lavoro” per i lavoratori locali. Nel giro di un paio di giorni, l’articolo ha fatto il giro dei blog del “libero mercato” (sic), assieme a tanti altri commenti del tipo “per i lavoratori del Terzo Mondo è molto meglio lo sfruttamento delle migliori alternative locali…”, o qualcosa del genere (l’ultima espressione è presa da un altro articolo di Carden pubblicato sul blog del Mises Institute a maggio scorso). Altri esempi del genere si possono trovare cercando su Google “sweatshops”+“next-best alternative”.
Ma l’ape regina di tutti questi pensatori è Ludwig von Mises ne L’azione Umana:
Il proprietario della fabbrica non aveva il potere di obbligare una persona ad accettare un posto di lavoro in fabbrica. Poteva solo assumere persone disposte a lavorare al salario offerto da lui. Per quanto questo salario fosse basso, era comunque molto più di quello che questi poveri potevano guadagnare in qualunque altro posto disponibile. ~ Regnery, Terza Edizione Riveduta, pagg. 619-20 (traduzione di Enrico Sanna)
Dunque: è un caso se il lavoratore è bloccato tra queste alternative di merda; i datori di lavoro non c’entrano assolutamente niente. E poi è un caso se i padroni hanno i mezzi di produzione, ed è un altro caso se i lavoratori sono proletari senza nulla costretti a vendere le loro braccia ai termini stabiliti dai padroni. È ridicolo anche solo pensare che la classe padronale sia direttamente implicata nelle politiche statali che riducono le opzioni disponibili ai lavoratori.
Nel mondo abitato da noi libertoidi non volgari, ovviamente, le cose sono un po’ meno rosee. C’era una forte continuità tra l’aristocrazia terriera Whig, che portò avanti la chiusura delle terre pubbliche e l’abrogazione del tradizionale diritto alla terra, e i datori di lavoro dell’incipiente industrializzazione britannica. I primi industriali di Manchester, lungi dall’essere (come li descriveva Mises) una classe di parvenu che aveva accumulato capitali grazie alla parsimonia, erano invece i soci minoritari dell’oligarchia terriera; quest’ultima era una grossa fonte di capitali da investire. Oltre a ciò, i padroni delle fabbriche beneficiavano di un controllo sociale pressoché totalitario della libertà di movimento e di associazione dei lavoratori; il regime legale comprendeva le Combination Acts, la Riot Act e la Law of Settlements (praticamente, un sistema di passaporti interni).
E poi l’intera cornice legale (così la descrive Benjamin Tucker) limitava la possibilità dei lavoratori di attingere ai propri capitali in forme autoorganizzative come il credito cooperativo. Come risultato di questo “monopolio monetario” i lavoratori furono costretti a vendere la loro forza lavoro sul mercato a condizioni poste dalla classe padronale, pagando un tributo (in termini di salari inferiori al valore prodotto) per poter accedere ai mezzi di produzione.
Lysander Spooner, un eroe per molti anarco-capitalisti, in Natural Law, descrive il processo in termini molto poco capitalistici:
Col passare del tempo, le classi dei ladri, o degli schiavisti, dopo essersi appropriata di tutte le terre e dei mezzi per la creazione di ricchezza, cominciò a capire che il metodo più facile per gestire i propri schiavi, e metterli a profitto, non consisteva nel possedere un certo numero di schiavi, come avveniva prima e come avveniva ancora con il bestiame, ma nel dare loro quel tanto di libertà che bastava a renderli responsabili della loro sopravvivenza, costringendoli però a vendere la propria forza lavoro alle classi terriere, che poi erano i loro ex padroni, al prezzo stabilito da questi ultimi. Ovviamente questi schiavi liberati (come li chiama qualcuno), non avendo né terre né proprietà né altri mezzi per procurarsi di che vivere autonomamente, non avevano alternative, se non volevano fare la fame, e dovevano vendere la propria forza lavoro ai possidenti terrieri in cambio dello stretto necessario per vivere; e a volte anche meno.
Questi cosiddetti schiavi liberati erano ora leggermente meno schiavi di prima. I loro mezzi di sussistenza erano ancora più precari di quando avevano un padrone, il quale aveva interesse a preservare la loro esistenza. Erano sacrificabili, soggetti ai capricci e agli interessi dei possidenti, potevano essere sfrattati di casa, restare senza lavoro, non avere più la possibilità di guadagnare un minimo vitale con le proprie braccia. Per molti di loro non restava altro che elemosinare, rubare o morire di fame; divennero così un pericolo per la proprietà e la quiete dei loro ex padroni.
Di conseguenza questi ex padroni ritennero necessario, per la sicurezza propria e delle loro cose, organizzarsi meglio come governo, fare leggi che tenessero a bada queste persone pericolose; ovvero leggi che fissassero il prezzo a cui loro erano costretti a vendere la loro forza lavoro, e leggi che punissero in maniera esemplare, anche con la morte, gli autori di quei furti e di quelle violazioni della proprietà a cui molti erano costretti per evitare la fame.