Questo articolo è stato scritto da Sheldon Richman e pubblicato su The Future of Freedom Foundation il 5 settembre 2014.
In un suo sorprendente articolo, Daniel McCarthy, il lodevole direttore di The American Conservative (TAC), scrive: “L’impero britannico prima, e quello americano poi,crearono e mantennero un ordine mondiale in cui il liberalismo [classico] poté fiorire.” In altre parole, come scrive in Why Liberalism Means Empire, “Liberalismo e impero si rafforzano reciprocamente in vari modi.” Dunque, se vogliamo costruire una società liberale e democratica che duri nel tempo, dobbiamo riconoscere la necessità di un impero globale imposto dagli Stati Uniti.
Dico che l’articolo è sorprendente perché da anni TAC rappresenta il luogo in cui è possibile trovare critiche fondate alla politica estera interventista del tipo di George W. Bush e Barack Obama. Questo, però, è un richiamo al globalismo americano, anche se non del tipo che Bush e Obama accetterebbero.
Mentre libertari e liberali classici storicamente vedono gli imperi come nemici della libero mercato e della libertà in patria, per non parlare della libertà e della tranquillità di chi è soggetto ad un governo coloniale, McCarthy ne approfitta per rivedere questa posizione. Senza uno spazio protetto fornito da un impero liberale, prima britannico e ora americano, le democrazie liberali non avrebbero potuto emergere e fiorire, insiste. Il fatto, però, è che la dipendenza del liberalismo dall’esistenza di un impero è sempre stata incompresa. Molti pensatori pro-libertà considerano il coinvolgimento britannico in Europa nel 1914-18, e quello americano nel 1941-45, due errori terribili. Sbagliato, dice McCarthy. Gli interventi erano necessari per mantenere libertà e prosperità in patria:
Oggi i liberali antimperialisti, che siano libertari o progressisti, commettono lo stesso errore dei pacifisti britannici e dei non-interventisti americani tra le due guerre: credono che la complessità ideologica del mondo, così come determinata dallo stato che meglio riesce a proiettare la propria potenza, non abbia necessariamente a che fare con i loro valori e le loro abitudini a casa. Credono possibile un liberalismo senza impero.
Ma scarseggiano le prove storiche.
McCarthy non è un wilsoniano, né un neoconservatore amante delle crociate volte alla conversione al liberalismo democratico; capisce che il liberalismo è il prodotto di una lenta evoluzione sociale. Non ha tempo da perdere con chi nutre “l’ambizione napoleonica di liberare il pianeta con la rivoluzione.”
E poi scrive: “l’imperialismo liberale non è diretto alla conquista per la conquista ma al mantenimento di un ambiente con conduca al liberalismo.”
E avverte:
Così come alcuni idealisti negano che il potere sia alla base dell’ordine pacifico su cui poggia una democrazia liberale, altri, più pericolosi, negano che il potere sia un bene limitato, che non può semplicemente esistere perché lo si desidera. Questo punto di vista è caratteristico dei neoconservatori…
Il suo, al contrario, è un impero molto più modesto, un impero che cerca solo di mantenere l’ordine globale proteggendoi traffici commerciali, tra le altre cose, e impedendo l’ascesa di una tirannia che miri ad estendere il proprio potere. Questo impero vuole “difendere le condizioni in cui, per felice caso fortuito, il liberalismo può sopravvivere e crescere, se cresce, attraverso un lento processo di assimilazione.”
McCarthy pensa che si possano combinare antimperialismo e antiliberalismo, e cita Pat Buchanan e George Kennan come esempi: “vorrebbero che l’America somigliasse più a Sparta che ad Atene.” Ma l’americano moderno rifiuta questo punto di vista: “Dopo duecento anni, il liberalismo è penetrato troppo in profondità nelle fibre del carattere nazionale americano perché un nuovo percorso verso l’autosufficienza nazionale possa riscuotere approvazione popolare.”
Dunque il liberalismo è qui e ci resterà, e McCarthy crede che liberalismo e antimperialismo siano logicamente incoerenti per natura. Lui non celebra questa “amara verità del liberalismo dalle caratteristiche imperiali.” È che è così e basta.
Così lui opta per un “realismo conservatore” che riconosce “che l’America ancora per molto tempo non potrà diventare qualcosa di diverso da un paese largamente liberale e democratico, e pensa che una democrazia liberale richieda un sistema di sicurezza internazionale delicatamente equilibrato retto da un impero o da una potenza egemonica”. Ovvero, almeno per il futuro immaginabile, gli Stati Uniti.
Il punto chiave delle tesi di McCarthy è che “il potere sta alla base dell’ordine pacifico su cui poggia la democrazia liberale.” Scrive: “La democrazia liberale è innaturale. È un prodotto del potere e della sicurezza, non fa parte degli istinti sociali dell’uomo. È peculiare piuttosto che universale, accidentale piuttosto che teologicamente preordinato.”
Questo mette McCarthy in contrasto con il cuore della tradizione liberale, che individuava il seme della libertà individuale e della cooperazione volontaria nella natura sociale e razionale del genere umano. Adam Smith parla di “libertà naturale”. Thomas Paine scrive in Rights of Man che “gran parte” dell’ordine sociale non è il prodotto del potere, ovvero lo stato, ma della “interdipendenza e dell’interesse reciproco”. Secondo le teorie liberali, è la tirannia ad essere innaturale.
Spero di aver descritto onestamente la posizione di McCarthy. Ora, cosa possiamo dire al proposito?
Sulle prime ho pensato che McCarthy possiede una nozione piuttosto liberale del liberalismo; così liberale da includere l’illiberale stato corporativo, quello che Albert Jay Nock chiamava lo “stato mercante”; ovvero un potente regime politico-legale volto soprattutto allo sviluppo di un sistema economico al servizio dei padroni, tanto per usare le parole di Adam Smith. Il libertario Thomas Hodgskin, non Marx, fu il primo ad accusare i “capitalisti” di servirsi dello stato per conquistare una posizione di sfruttamento e privilegio.
Se per liberalismo intendiamo invece quello che avevano in mente, nonostante le differenze marginali, Adam Smith, J. B. Say, Frédéric Bastiat, Hodgskin, Herbert Spencer o Benjamin Tucker, è difficile immaginare un impero britannico, o americano, culla e protettore del liberalismo. Se McCarthy sostenesse che il capitalismo (di stato, politico o clientelare) ha bisogno di un impero, niente da ridire. Ma dove sono le prove storiche del fatto che un liberalismo radicale di libero mercato necessiti dell’ala protettrice di un impero globale? In realtà, le società considerate liberali si sono allontanate dal liberalismo radicale mantenendo allo stesso tempo quella protezione.
Il ragionamento di McCarthy poggia in larga misura sull’affermazione secondo cui il “complesso ideologico mondiale, determinato dallo stato che meglio riesce ad allargare il proprio potere”, ha buone probabilità di influenzare i “valori e gli usi” nazionali. Questo significa che una società non può mantenersi liberale a lungoin un mondo illiberale. Così come gli Stati Uniti adottarono misure illiberali dopo la Rivoluzione Bolscevica e dopo l’espansione sovietica nell’Europa dell’est dopo la seconda guerra mondiale, scrive, così un’America liberale e non interventista si allontanerebbe sempre più dal liberalismo se un potere tirannico estendesse il proprio potere al resto del mondo.
Forse sì e forse no. Dipende da fattori che non sono stati analizzati, soprattutto dalla fiducia ideologica della popolazione nella libertà (vedi l’eccellente confutazione di Robert Murphy alle teorie pseudo-keynesiane di McCarthy riguardo l’America, la seconda guerra mondiale e il totalitarismo).
McCarthy insiste a dire che “il potere è alla base dell’ordine pacifico su cui poggia la democrazia liberale” e che “con il tempo, i sentimenti liberali crebbero così forti all’interno dell’impero britannico che i suoi esponenti cominciarono a perdere di vista il contesto, in termini di sicurezza, che rese possibile il liberalismo. Idealisti e pacifisti, figli privilegiati dell’impero, credevano che la pace fosse un prodotto non del potere ma delle buone intenzioni.”
Ma McCarthy sbaglia a pensare che sia il potere, ovvero la forza, a governare il mondo. C’è qualcosa di più forte: le idee. Come dice Jeffrey Rogers Hummel in The Will to Be Free: The Role of Ideology in National Defense, “in ultima istanza sono le idee che determinano contro chi e che cosa [il popolo] deve impugnare le proprie armi e se deve impugnarle.”
“Tutti gli stati di successo possiedono legittimazione,” scrive Hummel.
Nessuno stato, non importa quanto tiranno, può governare a lungo con la sola forza bruta. Deve esserci un numero sufficiente di persone che accettino il suo potere come necessario o desiderabile perché la sua legge sia ampiamente applicata e rispettata. Ma lo stesso consenso sociale che legittima lo stato allo stesso tempo lo ingabbia. Perciò l’ideologia diventa la mina vagante che spiega perché esiste un movimento di massa dotato di senso civico che rinuncia ai benefici per ottenere significativi cambiamenti alla politica governativa. … Ecco quindi che le idee di successo possono alterare le dimensioni, lo scopo e l’invadenza dello stato.
Se questo vale per lo stato che fa soffrire il proprio popolo, sostiene Hummel, vale anche per quegli stati stranieri che rappresentano una minaccia potenziale. In altre parole, non c’è differenza sostanziale tra proteggersi da uno stato straniero e proteggersi dal proprio stato. Quelle stesse forze ideologiche che impediscono al “proprio” stato di diventare più aggressivo, forze necessarie a smorzarne il potere, riescono anche a tenere lontane le aggressioni esterne. Scrive Hummel:
Molte delle conquiste [coloniali] sono state ottenute grazie all’intermediazione delle locali classi di governo, che mantengono la legittimità presso la popolazione soggetta… Più problematico è il dominio da parte di aspiranti conquistatori in possesso della superiorità militare, che però devono affrontare l’ostilità implacabile di una popolazione ideologicamente unita. Proprio per questa ragione, la presa degli inglesi sull’Irlanda fu sempre debole, e casi simili si possono trovare anche ai tempi nostri.
McCarthy considera la “forza militare di una superpotenza” come virtualmente irresistibile. Che dire allora del Vietnam opposto agli Stati Uniti? O dell’Afganistan opposto ai britannici, sovietici e poi agli americani? La superiorità militare fallisce soprattutto a causa delle motivazioni e dell’impegno ideologico delle popolazioni indigene.
Un’apparente debolezza di questo ragionamento è che l’impegno ideologico, l’eterna vigilanza, sono difficili da mantenere. È vero, e Hummel riconosce che non esistono garanzie. Ma la stesso si può dire delle tesi di McCarthy. Cosa ci fa credere che l’amministrazione di un “impero liberale” resterà tale? L’articolo di McCarthy stranamente non parla delle rendite di posizione (l’acquisto dei vantaggi politici da parte di chi ha buone connessioni), della piaga dei benefici concentrati nelle mani dei gruppi di interesse e dei costi diffusi tra le masse, e di quel fenomeno che Hayek riassumeva nell’espressione “perché i peggiori arrivano in alto”. Il complesso industriale militare, ad esempio, difficilmente può essere definito un beneficiario passivo della politica governativa.
Conosciamo lo stato abbastanza bene da capire che anche le migliori intenzioni hanno buone probabilità di creare benefici per gli interessi particolari (“l’imperialismo di libero mercato”), e che le persone più inclini all’inganno, quelle che più si trovano a loro agio al comando del macchinario della violenza, sono anche quelle che più sono attratte dal potere politico e più hanno la capacità di procurarselo. Cosa impedisce all’apparato imperiale di cadere nelle mani di quei politici che vedono nella guerra e nella conquista la via che porta non solo alla pace ma anche alla gloria, alla virilità e alla grandezza nazionale?
Dunque se, come scrive McCarthy, “il liberalismo… tende a dipendere interamente dalla protezione liberalizzatrice di qualche grande impero,” questo significa che il liberalismo poggia su un piedistallo traballante. Basta dare uno sguardo alla storia.
Abbiamo molte altre ragioni per dubitare della solidità del liberalismo in mani imperiali. Una di queste è quello che Hayek chiamava “il problema della conoscenza”. Come i pianificatori economici, anche i meglio intenzionati pianificatori centrali di livello internazionale sono ignari delle preferenze locali in una società estera, e questo impedisce loro di svolgere il loro compito (vedi Iraq, Afganistan, ecc.). In breve, sono destinati al fallimento, seppure schivando le conseguenze.
Secondo McCarthy “occorre agire con discernimento e distinguere tra conflitti indispensabili (come la guerra fredda e la seconda guerra mondiale), assolutamente superflui (come l’Iraq) e ambigui come la prima guerra mondiale.” Ma anche ammettendo con McCarthy di sapere cosa è essenziale, superfluo e ambiguo, niente ci fa credere che l’amministrazione agirà bene. Dopotutto, ogni amministratore opera dietro incentivi perversi: spende denaro altrui e ha poche responsabilità personali. E anche quando sembra agire bene, la legge delle conseguenze involontarie causa tragedie… agli altri. Gli errori più comuni possono avere conseguenze catastrofiche. “Gli esperti di politica estera hannonelle loro predizioni una fiducia che non avrebbero il diritto di avere,” scrive Bryan Caplan.
Gli imperi sono maledettamente costosi. Anche un impero “liberale” avrebbe bisogno di spendere in deficit (chi si offre per pagare le tasse?) e di una banca centrale che faciliti i prestiti governativi. Tutto ciò porta ai mali che conosciamo bene, compresi i periodi di boom artificiale seguiti da altrettanti crolli e disoccupazione di lungo termine.
Le crisi economiche, come la guerra, sono la salute dello stato. Man mano che le crisi si ripetono sempre più profonde, cresce l’ansietà, e la gente comincia a credere ai politici che promettono un alleviamento nell’immediato e la stabilità nel lungo termine. Così, anche se un impero nasce senza uno stato sociale, con il tempo ci arriva. Randolph Bourne e Robert Higgs hanno spiegato perché. Per inciso, la richiesta di un migliore stato sociale e di quadri normativi arrivarono sulla scia dei privilegi particolari concessi alle élite economiche, come anche Grover Cleveland capì nel 1888. Una lezione che si può ricavare dalla storia americana è che l’impero corporativo è l’incubatrice dello stato sociale.
McCarthy dipinge l’impero britannico come essenzialmente benigno, più o meno un’area di libero scambio, e arriva anche a portare Ludwig von Mises dalla sua (Murphy ha corretto la fonte). Ma Mises non si faceva illusioni circa la natura del colonialismo, che, ricordiamolo, era diretto al controllo delle risorse, alla razzia del territorio, allo sfruttamento della manodopera a buon mercato e alla creazione di mercati a cui vendere i prodotti finiti. Come dice Mises in Liberalismo (1927):
Nessun capitolo di storia è più insanguinato della storia del colonialismo. Sangue inutile e insensato. Terre fiorenti furono devastate; interi popoli distrutti e sterminati. Non esistono scuse o giustificazioni. … È l’esatto contrario di tutti i principi liberali e democratici, e non c’è dubbio che dobbiamo lottare tutti per la sua abolizione.
Come era possibile credere che il liberalismo potesse fiorire in patria quando si era così illiberali all’estero? Herbert Spencer sapeva che era impossibile. Mentre,tra ottocento e novecento, le forze americane sterminavano i filippini che si opponevano al colonialismo, in patria accelerava l’interventismo progressista. Non a caso. Ai progressisti piaceva quella unità d’intenti creata dalla guerra e dall’imperialismo, e c’era tra loro chi si auspicava che questa unità potesse essere raggiunta senza spargimenti di sangue, ovvero tramite “l’equivalente morale della guerra”.
E arriviamo alle questioni di sicurezza interna a cui è esposto un impero, questioni che, come ben sappiamo, forniscono il pretesto per la soppressione delle libertà civili: perquisizioni senza mandato, spionaggio, e altro. Gli imperi creano nemici (oggic’è bisogno di dirlo?) e i nemici chiedono vendetta. La paura diffusa e l’opportunismo politico mettono a rischio le libertà civili, questo è sicuro.
La realtà non offre alcuna garanzia di sicurezza. Una società radicalmente libera priva di mezzi di offesa potrebbe essere conquistata da una potenza maligna nonostante il proprio affidamento alla libertà, alla ricchezza e al vantaggio tecnologico. Sul lato opposto, però, come abbiamo visto, ci sono le buone intenzioni imperiali che portano con sé il germe della tirannia.