In un recente discorso davanti alla Mortgage Bankers Association, il senatore Ben Sasse, repubblicano del Nebraska di prima nomina, scherzando ha accusato la sua collega Elizabeth Warren di voler eliminare completamente il rischio dall’economia. Forse voleva dire che Warren vorrebbe mettere la gente comune al riparo da certi rischi, come il pagamento di un’ipoteca reso insostenibile da un’inattesa riduzione del reddito, o come la riduzione di valore di un’abitazione, mentre il pagamento è ancora in corso, a causa della crisi immobiliare.
Ma Sasse merita il nobel per la faccia tosta per aver accusato la Warren di voler eliminare il rischio proprio davanti ai rappresentanti dell’industria da cui ha avuto origine l’espressione “troppo grande per fallire”. Il governo federale ha speso centinaia di miliardi, con il programma chiamato Tarp (salvataggio delle banche con soldi pubblici, es), così da salvare le banche dalle loro stupidate in fatto di attività a rischio. Il programma Tarp, sotto la guida di Paulson e Geithner, mirava, con l’acquisto di titoli tossici, a prevenire la deflazione dei beni delle classi che vivono di rendita. Questa è praticamente la stessa cosa che fece Alexander Hamilton durante la prima amministrazione Washington, quando pagò i bond di guerra, i Continental, al valore di facciata nonostante il loro valore di mercato fosse una piccola frazione, e nonostante il fatto che gran parte di queste obbligazioni fossero nelle mani di investitori che li avevano acquistati a prezzo bassissimo dai loro possessori originali. Ma se è perfettamente lecito che lo stato salvi le banche con i soldi dei contribuenti, a quanto pare non è affatto lecito imporre condizioni, come la svalutazione del capitale dell’ipoteca al valore presente di mercato, o la limitazione dei bonus degli amministratori delegati. Oh no. Sarebbe stata un’interferenza con il libero mercato.
Sarebbe molto strano se Sasse dicesse che eliminare il rischio è un male, quando la socializzazione dei rischi e dei costi aziendali e la conseguente privatizzazione dei profitti è l’attività principale di uno stato capitalista. Lo storico della nuova sinistra Gabriel Kolko ha coniato il termine “capitalismo politico” per indicare lo stato assistenziale-normativo del ventesimo secolo. Il capitalismo politico è “l’utilizzo del sistema politico per raggiungere condizioni di stabilità, prevedibilità e sicurezza nell’economia (ovvero, la sua razionalizzazione).” Questo significa usare l’azione politica per ridurre la concorrenza sul prezzo a livelli maneggiabili, dare la possibilità alle grosse aziende di pianificare sulla base di aspettative prevedibili di lungo termine, e creare un ambiente economico politico razionale in cui le aziende possano ottenere un “ragionevole profitto” nel lungo termine.
Tutto il panorama industriale prende questa forma perché lo stato (vuoi sotto l’egida dell’economia di guerra permanente, vuoi tramite programmi “progressisti” come la creazione dell’aviazione civile e il sistema autostradale interstatale) ha assunto su di sé una grossa fetta dei costi e dei rischi delle nuove industrie. Questo ha portato all’imposizione di cartelli normativi anti-concorrenza tramite, ad esempio, le restrizioni alla concorrenza sui prezzi e lo scambio e la condivisione dei brevetti con l’aiuto dello stato.
In breve lo stato, come disse Marx oltre un secolo fa, è il comitato esecutivo della classe capitalista di governo. Compito del governo è la socializzazione dei costi e dei rischi, così che gli interessi corporativi possano raccogliere profitti in un monopolio garantito. Nessuno lo sa meglio di Sasse e dei porci capibanda bancari che pagano cento dollari a portata per fare la fila alla mangiatoia e ascoltare quelli come lui. Ma io credo che sia “rimozione del rischio”, secondo Sasse, solo quando è fatto nell’interesse del popolino.