Recensione di: African Anarchism – The History of a Movement

Jordan Jardine. Originale pubblicato l’otto giugno 2023 con il titolo Review: African Anarchism – The History of a Movement. Traduzione di Enrico Sanna.

Da anarchico, sono naturalmente attratto dai movimenti anarchici non solo degli Stati Uniti ma di tutto il mondo. Mi attira molto, tra gli altri, Lao Tzu, per dire, che con il suo Tao Te Ching ha avuto grande influenza su importanti anarchici come Pëtr Kropotkin e Rudolph Rocker. È stato per tramite suo che ho appreso dei movimenti anarchici in Cina e in altre parti dell’Asia. Ma ammiro anche la cultura africana, e questo ultimamente mi ha spinto a studiarne i movimenti anarchici. Tra i testi che ne documentano la presenza, o l’assenza, ce n’è uno importante, African Anarchism: The History of a Movement, scritto dall’attivista anarchico nigeriano Sam Mbah in collaborazione con I.E. Igariwey.

Sommario:

Capitolo 1

Pur essendo certi aspetti della cultura e delle tradizioni africane in linea con i valori anarchici, spiegano gli autori nelle prime pagine, movimenti anarchici seri e diffusi non sono mai esistiti perché le popolazioni africane in genere non sanno neanche che esistono tradizioni anarchiche. L’anarchia, dicono gli autori, non è un’ideologia di “caos e disordine”, come la si descrive spesso. L’anarchia il rifiuto della violenza, la lotta contro l’imposizione del volere di una persona o di un gruppo su tutti gli altri. Il libro cita teorici famosi come Pëtr Kropotkin, Michail Bakunin e Pierre-Joseph Proudhon, e parla delle varie scuole di pensiero anarchico come l’anarco-sindacalismo e il mutualismo.

Capitolo 2

Il capitolo è un buon riassunto della storia del movimento anarchico moderno a cominciare dalla metà dell’Ottocento.

Capitolo 3

Questo è il capitolo più lungo. Mbah e Igariwey spiegano come in certi elementi della società africana siano sempre esistiti elementi coerenti con i valori anarchici, ma senza che gli africani stessi ne avessero coscienza. La storia africana è ricca di comunità che erano di fatto entità indipendenti e autogovernate, entità “comunalistiche” in cui ognuno aveva il diritto di esprimere la propria opinione sulle proprie cose e su quelle della comunità in generale. In molte tribù la religione aveva un ruolo importante ma molto periferico. Per questo la comunità era una unione tra pari, non governata da figure religiose o politiche. Per svolgere funzioni di base o dirimere contrasti ci si affidava agli adulti della comunità, soprattutto di sesso maschile.

Questa forma organizzativa della società è durata secoli; fino al Quattrocento, quando la divisione in classi e la divisione del lavoro hanno cominciato ad insinuarsi in tutto il continente. Pur mantenendo alcuni elementi dell’organizzazione comune incentrata sul villaggio, l’Africa finì per essere invasa da forme feudali e protocapitaliste. Da notare che, come sottolineano gli autori, neanche le organizzazioni tradizionali erano prive di difetti. Pur essendo sicuramente più egalitari rispetto alle forme organizzative venute in seguito, le società dei villaggi e delle tribù praticavano in una certa misura la discriminazione della donna e la schiavitù.

Gli autori citano varie “società astatuali” esistenti secoli fa. In particolare tre gruppi etnici ad organizzazione orizzontale non gerarchica: gli Igbo e i popoli del Delta del Niger, entrambi nell’attuale Nigeria, e i Tallensi del Ghana. “Gli Igbo non hanno un re” è un detto, citato dagli autori del libro, che testimonia la fede nel decentramento. Le società degli Igbo erano organizzate e gestite tramite l’assemblea generale in cui siedevano gli anziani del villaggio. Esisteva anche un’assemblea di sole donne detta Umu-ada. Queste assemblee generali, spiegano Mbah e Igariwey, esistono ancora oggi. Gli Igbo praticavano soprattutto attività di tipo agro-pastorale comune, in grado di fornire cibo abbondante e regolare in misura sufficiente a sfamare tutti grazie anche alla vicinanza di ricchissime foreste.

Le popolazioni del Delta del Niger erano dedite prevalentemente ad attività agro-pastorali e commercio. Alcuni gruppi avevano forme organizzative più chiuse rispetto agli Igbo. Anche gli Igbo avevano le loro organizzazioni segrete, ma c’erano popolazioni del Delta che, tra il diciassettesimo e il diciottesimo secolo, erano costrette alla discrezione per evitare disordini che potessero turbare la tratta degli schiavi. Altri gruppi, per contro, praticavano la tratta apertamente. La tratta finì per distruggere le popolazioni del Delta e le loro organizzazioni autoctone, che furono sostituite da un sistema costituito da un contadino, o un trafficante di schiavi, i suoi schiavi e i discendenti di entrambi, schiavi, contadini e trafficanti; un sistema che sfociò in organizzazioni del tipo delle città-stato. La nascita di attività di tipo capitalistico mise fine all’organizzazione comunalistica nel Delta del Niger.

Il libro passa quindi a parlare dei Tallensi, un popolo del nord del Ghana la cui forma organizzativa esiste ancora oggi. Qui la società è prevalentemente agro-pastorale e basata sui clan. Pur essendo tecnicamente presenti nella società Tallensi, le imprese di tipo capitalistico non hanno alcuna autorità su entità più povere e non godono di privilegi o trattameti politici di favore. Secondo gli autori del libro, i Tallensi sono stati abili nel mantenere una società a base socialemente e politicamente egalitaria, lontano dalle interferenze dello stato o di altre istituzioni centralizzate.

Il libro parla anche dell’impatto del colonialismo sulle società africane tradizionalmente astatuali, e di come le pressioni esterne imposte dalle grosse potenze mondiali abbiano finito per costringerle a adottare l’economia capitalista e una più rigida gerarchia sociale. Pochi sono gli africani che hanno tratto beneficio dal capitalismo coloniale. Gli africani hanno seminato ma gran parte del raccolto è andato ai poteri coloniali. Ancora oggi, l’economia africana è così dipendente dagli investimenti esteri che il valore aggiunto è pochissimo, e quel poco è perlopiù estratto e razziato dagli stati occidentali con le loro aziende.

Il libro infine passa ai vari movimenti cosiddetti “socialisti” che hanno portato al potere leader come Patrice Lumumba, Muammar Gheddafi, Gamal Abder Nasser e Kwame Nkrumah. Come gli autori stessi riconoscono, si tratta di personaggi che praticavano una forma di “socialismo” statalistico di tipo sovietico, a volte definito “socialismo africano”, che col tempo è stato criticato da molti assieme alle persone che lo rappresentavano. L’opinione degli autori del libro è che si trattasse di persone che non riuscirono a realizzare niente che somigliasse al socialismo: semplici figure tragiche il cui unico interesse era il potere e la violenza. A conclusione di questo corposo capitolo, Mbah e Igariwey citano esempi recenti, sia teorici che pratici, di anarchismo. Come nel caso della Nigeria degli anni Sessanta, quando, dopo la conquista dell’indipendenza, fazioni di sinistra del governo nigeriano aiutarono a far nascere una serie di comunità ispirate ai kibbutz israeliani. Un progetto fallito anche a causa del caos della guerra civile del 1967.

Tra le varie teorie a sostegno di un’astuatualità in Africa sono citate la Terza teoria universale di Muammar Gheddafi, la filosofia Ujamaa (incentrata sulla famiglia, o sul villaggio) e il forte anticolonialismo a favore dei proletari e della classe contadina con la sua opposizione a qualunque forma di aiuto proveniente dallo stato.

Tra gli esempi pratici di organizzazioni anarchiche gli autori citano il Movimento Rivoluzionario Anarchico, la Angry Brigade del Sudafrica e la Awareness League, un gruppo nigeriano nato dopo lo scioglimento definitivo di The Axe. Ma movimenti emergenti si trovano anche in Egitto, Ghana e Zimbabwe. Uno dei primi esempi di organizzazione anarchica in Africa, secondo gli autori del libro, è la sudafricana Industrial Workers of Africa, tra il 1915 e il 1922, formata da soli lavoratori di colore.

Capitolo 4

Il quarto capitolo parla dello sviluppo del socialismo in Africa. Ai primi dell’Ottocento, spiegano gli autori, i capitalisti coloniali riuscirono a “cooptare” i capi e le persone di elevato lignaggio “convincendole a fare da amministratori per conto dei colonizzatori” (pag. 55). L’industria mineraria e manifatturiera, presto introdotte nel continente, crearono una nuova classe di lavoratori urbanizzati. Accanto a loro persistevano le comunità contadine. Non tutti gli africani che vivevano nelle città furono abbastanza fortunati da trovare un lavoro. Gli esclusi furono costretti a mendicare o a prostituirsi per vivere.

Questa struttura di classe africana andò in crisi nel Novecento, quando gli antagonismi di classe cominciarono ad imporsi sulla vita dei lavoratori africani. I quali fingevano di non vedere il fatto che fossero sfruttati e che gran parte del loro operato non fosse suddiviso tra i loro concittadini ma andasse ai governanti coloniali. Conseguenza di queste “condizioni coloniali” fu la crescita dei movimenti sindacali in Nigeria e Sudafrica, ma anche in Algeria, Kenia e Ghana. Gli autori illustrano i momenti chiave della storia dei sindacati in Nigeria, dalla loro nascita attorno al 1897 fino agli anni Ottanta, passando per la Grande Depressione. Se in un secolo i sindacati nigeriani hanno prodotto qualcosa di buono, lo stesso non si può dire dei loro dirigenti i quali, a dire degli autori del libro, quasi sempre avevano conflitti di interesse visto il legame stretto con le élite nigeriane.

In Sudafrica, per contro, i sindacati sono stati più forti e hanno avuto più successo. Nel 1921 il South African Miners’ Union istituì il Miners Council of Action che portrò al tentativo, da parte degli anarco-sindacalisti (che facevano parte del IWW), di dar vita alla Repubblica dei Lavoratori Rossi. I lavoratori che diedero vita agli scioperi e ad altre azioni che puntavano ad istituire la repubblica dei lavoratori venivano soprattutto dai settori energetico, minerario e ingegneristico.

Furono purtroppo i conflitti razziali del ventesimo secolo, mentre l’apartheid entrava a far parte del quotidiano, a frenare il movimento sindacale sudafricano. Fino agli anni Settanta e Ottanta, i lavoratori neri continuarono a lottare per i propri diritti, e fecero anche alcune conquiste, ma ricevettero scarso sostegno dall’African National Congress, criticato dagli autori per la mancanza di “chiari obiettivi politici rivoluzionari” (pag. 65). Gli autori sono critici anche nei confronti del partito comunista sudafricano, per non aver proseguito sulla strada della politica rivoluzionaria e per essersi schiacciato sulle posizioni dell’attuale capitalismo sudafricano.

Segue una breve critica del movimento dei lavoratori, presunto “rivoluzionario”, della Guinea, la cui esistenza va dalla fine dell’Ottocento al 1958, quando il paese ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia e il movimento “rivoluzionario”, preso il potere, ha soffocato ogni forma di dissidenza.

Capitolo 5

Qui si parla dell’importanza dello sviluppo economico. È opinione diffusa, spiegano gli autori del libro, che se il socialismo non ha avuto successo in Africa è perché manca uno sviluppo economico. I governi sfruttavano la contingenza per i propri fini, si riferivano alle loro ideologie in termini di “socialismo africano”, ma altro non erano che un misto di corruzione e dittatura che niente aveva a che fare col socialismo. Sekou Toure in Guinea, Samuel Nkrumah in Ghana, Julius Nyerere in Tanzania, Thomas Sankara nel Burkina Faso e Menghistu in Etiopia sono alcuni dei capi di stato che hanno giustificato le proprie dittature parlando di socialismo.

A detta degli autori, alla base dei problemi economici e di sviluppo dell’Africa c’è la difficoltà di riprendersi dal passato coloniale. Fu Franz Fanon, famoso accademico e scrittore, a predire che molti africani delle zone più povere con il miglioramento delle loro condizioni e con l’allargamento del divario tra ricchi e poveri si sarebbero rivoltati contro i loro compatrioti.

Contrariamente a ciò che molti potrebbero pensare, secondo Mbah e Igariwey, le dittature militari, particolarmente quelle africane, sono spesso molto più instabili di quelle nate da un colpo di stato con l’appoggio della popolazione. Tra gli esempi di corruzione e instabilità politica ciclica si citano il Ghana e la Nigeria. Una instabilità che qui è accentuata dall’intervento di istituzioni neoliberali come la Banca mondiale e il Fondo monetario, e dai Programmi di aggiustamento strutturale. Nel tentativo disperato di evitare il fallimento, i paesi africani finiscono spesso per accettare i programmi di austerità proposti da queste istituzioni tagliando i servizi pubblici, il che diffonde ulteriore scontento che, ovviamente, causa ancora più instabilità. Secondo gli autori del libro, si tratta di situazioni caotiche che potrebbero rafforzare movimenti anarchici, ma prima che questo accada ci sono molte barriere da abbattere. La speranza comunque rimane.

Capitolo 6

L’anarchismo in Africa è un fenomeno minuscolo. Come negli Stati Uniti e in molti altri luoghi, anche in Africa i pochi che lo conoscono vedono nel movimento una sorta di ideologia marginale di estrema sinistra da non prendere tanto sul serio. Secondo gli autori del libro, ciò sarebbe il risultato di diversi fattori, tra cui il sistema scolastico africano, ancora fortemente influenzato dalle vecchie politiche coloniali. Questo vale però solo per chi ha accesso alla scuola moderna. Ovvero, una relativa minoranza. Pochi sono quelli che ricevono un’istruzione completa, e quei pochi sull’argomento anarchismo e socialismo, quand’anche l’argomento viene trattato, ricevono informazioni distorte.

Il capitolo parla anche degli ordinamenti giuridici di molti paesi africani. In molti paesi esistono leggi scritte che condannano anche l’incitazione al rovesciamento dello stato e al cambiamento: si tratta di atti equiparati al tradimento e puniti con la pena di morte, così che anche quegli africani che altrimenti simpatizzerebbero per idee radicali sono ridotti al silenzio per paura di ritorsioni o della morte per mano dello stato. Molti sono i paesi africani, in particolare quelli dittatoriali, che hanno un atteggiamento violento contro i sindacati, che o subiscono una forte limitazione del potere d’influenza o, nel peggiore dei casi, vengono messi a tacere.

Altra questione che l’anarchismo si trova ad affrontare è lo scontro etnico. Pur condividendo le stesse condizioni di vita e gli stessi interessi di classe, i lavoratori africani sono divisi da differenze etniche e culturali che impediscono fortemente la solidarietà. Un dato di fatto sfruttato e esasperato sia delle aziende che dalle dittature militari di diversi paesi, che così riescono a schiacciare più efficacemente i sindacati e a imporre politiche drastiche.

A giustificare la mancata diffusione dell’anarchismo in Africa sono anche quei credi religiosi che impongono l’obbedienza verso le autorità e diffondono la fede in un paradiso dopo la morte. Secondo gli autori, la cultura di molti paesi africani, tendenzialmente molto conservatrice se non reazionaria, impone l’accettazione delle condizioni reali e l’obbedienza cieca verso le autorità. Al fine di aiutare i movimenti africani, gli autori invocano quella che loro stessi definiscono una “solidarietà internazionale” mondiale.

Capitolo 7

Nell’ultimo capitolo gli autori tornano a sottolineare la loro fede nell’anarchismo come soluzione di tanti problemi che piagano il continente africano, come la violenza, la disuguaglianza e la corruzione. Pur simpatizzando per i tanti movimenti nazionalistici e patriottici sparsi per il continente, Mbah e Igariwey vedono in questi movimenti un’esasperazione delle tensioni tra comunità e un ostacolo sulla lunga strada della liberazione e della ricchezza africane. Dopo il fallimento del capitalismo e del “socialismo”, in Africa e altrove, al continente resta l’anarchismo come modello organizzativo alternativo.

Le mie impressioni:

Il libro riesce a dire molto in uno spazio relativamente ristretto. Solo 108 pagine ma dense di informazioni solide e ben scritte. Pensavo di fare una recensione elencando i pro e i contro, ma gli aspetti negativi sono pochi. Tra le poche critiche, il fatto che il libro sia a tratti un po’ troppo accademico e asciutto. Gli autori avrebbe potuto renderlo più accessibile con un piccolo sforzo aggiuntivo, il che avrebbe attirato più lettori. La forma è più quella di una tesi di laurea che di un libro destinato al pubblico. A parte ciò, gli aspetti negativi sono pochi. È pur sempre un libro godibile e molto istruttivo. Pur fornendo pochi dati sui movimenti anarchici in Africa, African Anarchism: The History of a Movement è un ottimo punto di partenza per chi vuole studiare l’argomento.

Pur essendo stato scritto nel 1997, molte delle questioni affrontate da Mbah e Igariwey sono ancora oggi problemi scottanti, African Anarchism porta bene il suo quarto di secolo abbondante. È un libriccino che può fornire anche al più informato degli anarchici tutta una serie di informazioni riguardanti l’Africa e la sua relazione con l’anarchismo e il movimento dei lavoratori. Io ho appreso tante cose e spero che anche altri lettori possano fare altrettanto.

Oggi, il principale gruppo anarchico è il sudafricano Fronte Anarchico Comunista Zabalaza, nato nel 2003. In Egitto, dalle ceneri della Primavera Araba sono nati nel 2011 due gruppi: la Bandiera Nera e il Movimento Socialista Libertario Egiziano. Anche in Tunisia, in seguito alla Primavera Araba, è cresciuto l’interesse e la popolarità dell’anarchismo. Nello Zimbabwe, infine, dopo il colpo di stato che ha detronizzato Robert Mugabe nel 2017, sono stati fatti degli sforzi per cercare di istituire un movimento anarchico più organizzato e meglio definito.

Le nostre traduzioni sono finanziate interamente da donazioni. Se vi piace quello che scriviamo, siete invitati a contribuire. Trovate le istruzioni su come fare nella pagina Sostieni C4SS: https://c4ss.org/sostieni-c4ss.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory