Proprietà Libertaria e Privatizzazione: un Modello Alternativo

Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 17 gennaio 2014 con il titolo Libertarian Property and Privatization: An Alternative Paradigm. Traduzione di Enrico Sanna.

Carlton Hobbs ha recentemente criticato la tendenza dei libertari tradizionali, libero-mercatisti e anarco-capitalisti, a considerare l’azienda capitalista il massimo esempio in materia di attività e proprietà economica, dando per scontato che qualunque futura società basata su un libero mercato sarà organizzata secondo lo schema del capitalismo aziendale. Hobbs propone in alternativa la “proprietà astatuale comune”, con le popolazioni locali che godono di diritti usufruttuari, messa in pratica “senza previ accordi formali e comprendente potenzialmente un gruppo imprecisato di possessori”. Hobbs cita vari esempi storici di possesso di questo genere, come, nei villaggi, il diritto di passaggio o di sfruttare i campi, l’acqua e il legnatico.1 La questione può anche essere applicata su scala molto più ampia.

Per abolizione della proprietà e dei servizi statali, libertari e anarco-capitalisti generalmente intendono un processo di “privatizzazione” fortemente basato sul modello di proprietà aziendale capitalista. La proprietà dello stato sarebbe quindi da mettere all’asta e i servizi dovrebbero essere gestiti da una fantomatica Megaglobale spa. L’immagine finale di questa futura economia di mercato, per quanto riguarda il lato aziendale, non è altro che l’attuale economia aziendale meno lo stato normativo e lo stato sociale: una versione idealizzata dell’ottocentesco “capitalismo dei baroni ladroni”. Una prima tendenza ignora alternative ugualmente valide in un’ottica anarchica di mercato, come la gestione cooperativa, ad opera degli utenti a livello cittadino o di quartiere, di servizi statali come le scuole e la pubblica sicurezza. Una seconda tendenza ignora invece la questione del capitalismo clientelare: fino a che punto le grandi aziende, che ottengono il grosso dei profitti grazie allo stato, devono essere considerate legittima proprietà privata e non il risultato di un furto?

Criticando questa preferenza estetica per l’azienda come modello organizzativo economico dominante, Karl Hess critica chi pensa che a rappresentare il libertarismo sia solo “chi vorrebbe una società in cui i capitalisti sono liberi di accumulare proprietà enormi…” In The Libertarian Forum del 1969, Hess sosteneva invece che

il libertarismo è un movimento di popolo e di liberazione. Vuole una società aperta, non costrittiva, in cui le persone, individui vivi e liberi, facciano o disfino società e partecipino a decisioni che riguardano le loro vite come meglio pare loro. Insomma un vero libero mercato di ogni cosa, dalle idee alle bizzarrie. Un mondo in cui le persone sono libere di organizzare collettivamente o individualmente le risorse della loro comunità. Questo significa essere liberi di avere e sostenere un sistema giudiziario comunitario laddove serve, e nessuno dove non serve, o un servizio di arbitrato privato dove questo sembra l’opzione migliore. Idem per la pubblica sicurezza. E così le scuole, gli ospedali, le fabbriche, l’agricoltura, i laboratori, i parchi e le pensioni. Libertà significa diritto di modellare le proprie istituzioni, non diritto delle istituzioni di modellare la persona in virtù di un potere acquisito o di una gerontocrazia.2

Hess disapprova la tendenza culturale di tanti, troppi libertari che difendono i diritti acquisiti della proprietà privata senza considerare come questa proprietà è stata acquisita, e che pensano che chi oggi sta in cima alla piramide dell’economia capitalista clientelare non faccia altro che raccogliere i frutti di “meriti passati”.

Visto che [nel movimento libertario] tanti… provengono dalla destra, rimane quest’aria, o forse questa puzza, di atteggiamento difensivo, come se il loro reale interesse ruotasse, tra le altre cose, attorno alla difesa della proprietà privata. Il libertarismo per contro intende, sì, portare avanti il principio della proprietà, ma senza difendere a spada tratta tutto ciò che attualmente è definito proprietà privata.

Una grossa fetta di questa proprietà è frutto di un furto. Un’altra grossa fetta è legalmente dubbia. E tutta quanta è intrecciata strettamente con un sistema immorale e costrittivo edificato sulla schiavitù, che giustificava e sfruttava; un sistema basato e cresciuto grazie ad un imperialismo brutale e una politica estera coloniale che ancora oggi continua a mantenere le popolazioni in un rapporto servo-padrone nei confronti delle concentrazioni di potere politico-economico.

È in questo contesto che Hess invocava un’analisi libera di questioni come “come trattare la proprietà rubata, ‘pubblica’ o ‘privata’, in termini libertari, radicali e rivoluzionari” (compreso, ad esempio): “il possesso e/o l’utilizzo della terra in condizioni di declino del potere statale”; “ruolo e diritti di lavoratori, copossessori e comunità nelle unità produttive… Ad esempio, cosa accadrebbe alla General Motors in una società liberata?” Ricordiamo l’ingiustizia di una liberazione degli schiavi e dei servi senza aver risolto prima la questione dei diritti di proprietà della terra dei loro vecchi padroni (i famosi “quaranta acri e un mulo”).

Continuando con lo spirito dei commenti di Hess, vorrei prendere in esame idee libertarie alternative riguardo la “privatizzazione” delle proprietà e dei servizi dello stato, cercando di applicare, per analogia, gli stessi principi alla questione: come trattare gli attuali beneficiari “privati” del capitalismo clientelare in una futura società di libero mercato? Credo però, così facendo, di dover prima chiarire che non sono un anarco-capitalista, come tanti frequentatori abituali di ASC, ma un anarco-individualista influenzato principalmente da Tucker.

“Privatizzare” la Proprietà dello Stato con Strumenti Alternativi

Il vertice dei Giovani Americani per la Libertà, con il loro manifesto del 1969, The “Tranquil” Statement (tra gli autori Karl Hess), esprimevano solidarietà verso gli studenti radicali che avevano occupato i campus universitari. Rispondendo alla destra che gridava al crimine contro la “proprietà privata”, il manifesto notava che

la proprietà privata non riguarda le università americane. Anche quelle che passano per istituzioni private o che ricevono forti contributi dal potere federale, oppure, come capita spesso, che ricevono fondi federali per la ricerca. La Columbia University è un caso esemplare. Quasi due terzi degli introiti vengono dallo stato e non dai privati. Come si può allora, moralmente e razionalmente, considerarla privata[?]… Pertanto, se è proprietà (ovvero, proprietà rubata) pubblica (dello stato), è giusto che i radicali libertari requisiscano questa proprietà per riportarla sotto il controllo privato o comune. Lo stesso, ovviamente, vale per tutte quelle istituzioni dell’apprendimento che ricevono fondi statali o che in qualche modo aiutano lo stato ad usurpare i diritti fondamentali dell’uomo.3

Le aziende private che “in qualche modo” ricevono contributi statali hanno ovviamente ragione a vedere una minaccia in questi principi. Murray Rothbard, assumendo la stessa posizione in un editoriale di The Libertarian, derideva la “grottesca” pretesa di Ayn Rand secondo cui la Columbia era “proprietà privata”, e dunque gli studenti stavano violando un “sacro diritto”:

A parte i numerosi legami specifici con lo stato evidenziati dai ribelli della Columbia…, quasi due terzi delle entrate vengono da fonti statali e non private. Come si può continuare a definirla istituzione privata?…

Difendere la “proprietà privata” di università “chiaramente statali” era palesemente assurdo. In questi casi,

la proprietà dello stato è sempre e ovunque una preda favorita dei libertari, i quali dovrebbero gioire tutte le volte che una qualche proprietà statale, e pertanto rubata, viene riportata al privato con i mezzi dovuti… I libertari dovrebbero appoggiare qualsiasi tentativo di rendere ai privati la proprietà statale, che è rubata; che lo si faccia al grido di “Le strade appartengono alla gente” o “i parchi appartengono a tutti” o ancora dicendo che le scuole appartengono a chi le usa, ovvero gli studenti e il personale. È opinione dei libertari che la proprietà indebita debba tornare a chi in primo luogo ne fa uso, come quei coloni che per primi disboscano e usano una terra vergine. Similmente, i libertari dovrebbero appoggiare qualunque tentativo dei “coloni” universitari, studenti e personale, di strappare dalle mani dello stato e di una burocrazia pseudo-statale il potere dell’università.4

Rothbard sosteneva che “il modo più pratico di destatizzare consiste nell’attribuire il diritto morale della proprietà alla persona o gruppo che strappa la proprietà dalle mani dello stato.” Questo significa, in molti casi, trattare la proprietà dello stato come proprietà vacante o senza proprietario, e riconoscere il diritto di colonizzazione a chi ne fa utilizzo. Nel caso delle università “pubbliche”,

i legittimi proprietari sono i suoi “colonizzatori”, coloro che “uniscono il proprio lavoro” con le strutture in questione… Ovvero, gli studenti e/o il personale.5

Il principio della colonizzazione della proprietà statale da parte di lavoratori o clienti dello stato è suscettibile di vasta applicazione. Larry Gambone, in alternativa alla privatizzazione di tipo aziendale, propone la “mutualizzazione” dei servizi pubblici. Questo significa decentrare la gestione, tra le altre cose, delle scuole, della polizia, gli ospedali e così via, all’unità più piccola possibile (il quartiere o la comunità), per poi porre il tutto sotto il controllo degli utenti. Gli abitanti di una città, ad esempio, potrebbero abolire il distretto scolastico e mettere le scuole sotto la supervisione di persone scelte in rappresentanza dei genitori. Terminerebbe l’obbligo fiscale e le scuole verrebbero finanziate con contributi degli utenti. In sostanza, mutualizzare significa grossomodo riorganizzare tutte le attività dello stato sotto forma di cooperative di consumatori.6

La Privatizzazione nelle Società Post-comuniste

Murray Rothbard e Hans Hermann Hoppe hanno provato ad applicare lo stesso principio della colonizzazione alla proprietà dello stato nelle società post-comuniste.

Certo Rothbard era troppo ottimista e ingenuo riguardo il potenziale libertario dell’unione tra socialismo di mercato e autogestione dei lavoratori in Yugoslavia, ma il suo giudizio sulle società post-comuniste, in termini di principio, era giustissimo: “la terra ai contadini e le fabbriche ai lavoratori, così si toglie la proprietà dalle mani dello stato per riporla nelle mani dei colonizzatori privati.7

La caduta dell’Unione Sovietica e della sua classe dittatoriale nel 1989-91 trasformò in attualità pratica una questione teorica. La prassi generale prevedeva la distribuzione di eque quote scambiabili delle aziende statali a tutti i cittadini, permettendo così lo sviluppo della proprietà attraverso la compravendita di tali quote. Rothbard propose invece una soluzione “sindacalista”:

Sarebbe stato molto meglio mettere il venerabile principio dell’appropriazione primitiva alla base del sistema della proprietà desocializzata. Ovvero, resuscitando il vecchio slogan marxista, “tutta la terra ai contadini, tutte le fabbriche ai lavoratori!” Si sarebbe così realizzato il principio cardine lockeano secondo cui la proprietà deve essere acquisita “unendo il lavoro con la terra” o con altre risorse che non appartengono a nessuno. La desocializzazione è un processo che priva lo stato del suo diritto esistente di “possedere” o gestire per cederlo a individui privati. In un certo senso, abolendo la proprietà statale i beni diventano immediatamente e implicitamente proprietà di nessuno, convertibile in proprietà privata previa occupazione.8

Hoppe avanzò una proposta simile, anche se più incerta e sottoposta a condizioni, a proposito della Germania Est.9

La parola “sindacalista” citata più su serviva a fare colore: sia Rothbard che Hoppe dicono chiaramente che tale proprietà “sindacalista” deve essere devoluta sotto forma di quote scambiabili ai singoli lavoratori e contadini, non collettivamente ai membri di una unità produttiva. L’ideale, secondo Hoppe, sarebbe che la proprietà azionaria e il lavoro si separino il più rapidamente possibile. Come spiega Carlton Hobbs, però, in termini di principio non c’è una ragione perché queste unità produttive non rimangano proprietà unica e indivisibile dei lavoratori, con il diritto di usufrutto di salari e pensioni che ne deriva. Un sistema che non necessariamente impedirebbe la nascita di un mercato dei fattori di produzione. I lavoratori potrebbero acquistare collettivamente nuovi beni strumentali sul mercato, mentre proprietà e unità produttiva resterebbero collettive finché l’impresa mantiene una continuità organizzativa e spaziale.

Vent’anni dopo per Rothbard e Hoppe la proprietà statale doveva essere resa ai legittimi proprietari originari, se ancora esistevano documenti che ne provavano la proprietà, una clausola inesistente nelle dichiarazioni di Rothbard del 1969 (dopotutto all’epoca cercava di coalizzarsi con la New Left). Quanto a Hoppe, si riferiva alla privatizzazione dell’industria di stato post-comunista nel suo Democracy: The God that Failed.10 Sia Rothbard che Hoppe pensavano che la restituzione sarebbe stata più facile nel caso della proprietà terriera e limitatamente all’Europa orientale (dove l’esproprio era avvenuto solo quarant’anni prima) piuttosto che in Unione Sovietica. Per Rothbard, d’altro canto, la restituzione sarebbe stata praticamente impossibile nel caso dei beni strumentali e produttivi, visto che il grosso dell’economia era stato sviluppato sotto la proprietà statale. L’industria sarebbe dovuta andare sotto il controllo dei lavoratori.

Problemi Pratici della Privatizzazione di Tipo Aziendale Capitalista della Proprietà Statale

La privatizzazione della proprietà di stato, così com’è fatta oggi, è una sorta di aiuto al capitalismo clientelare. Il capitale transnazionale prima caldeggia la costruzione nel Terzo Mondo di infrastrutture indispensabili a rendere proficuo in quei paesi il capitale occidentale: un modo di sovvenzionare gli investimenti all’estero a spese dei contribuenti locali. In seguito, il debito risultante viene sfruttato per disciplinare il governo locale e indurlo a fare politiche favorevoli al capitale occidentale. Infine, sotto la pressione di un regime di “adeguamenti strutturali” imposto dal Fmi e la Banca Mondiale, il paese è costretto a svendere per due soldi i propri beni (pagati col sudore delle classi lavoratrici locali) al capitale occidentale. Sean Corrigan illustra bene il processo in un articolo pubblicato su LewRockwell.com:

Non sa che tutto l’intrallazzo del Fmi e del Tesoro degli Stati Uniti, che ha per fine il dominio totale, si basa sulla promozione all’estero di un indebitamento a tassi da usura guidato dallo stato, per poi (o prima o, sempre più spesso oggigiorno, dopo aver raggiunto il punto di default) lanciare il salvataggio delle banche occidentali che sono state le sobillatrici di questa Operazione di Conquista finanziaria con denaro creato dal nulla, a spese dei semplici cittadini?

Non sa che dopo il collasso a questi ricostruzionisti dell’ultimo giorno si permette di fare piazza pulita di quote di controllo di risorse e beni strumentali a prezzi stracciati, il tutto grazie alla svalutazione se non al collasso monetario?

E non capisce che costringe lo stato vittima a far correre il proprio popolo per produrre beni da esportare al fine di pagare gli interessi al rinnovo del debito, oltre ad accumulare riserve in dollari come baluardo contro futuri attacchi speculativi (solitamente finanziati dalle stesse banche occidentali che prestano ai loro colleghi delle Forze Speciali presso i grandi hedge fund), consolidando così quella che è un’economia di Rubin al contrario?11

Generalmente, privatizzare comporta un fenomeno chiamato “tunnelling”, per cui le élite che hanno appoggi politici partono avvantaggiate nell’acquisto di ex proprietà di stato. Ma oltre al capitale, altro gruppo avvantaggiato nell’acquisto delle vecchie aziende sovietiche era la nomenclatura del partito, che in decenni di mazzette e corruzione aveva accumulato fortune (più o meno come il vecchio sceriffo che usa i detenuti della colonia penale della contea per la sua piantagione, ma su scala molto più grande).

L’esproprio della Proprietà “Privata” della Classe Clientelare

Quanto detto finora vale non solo per la proprietà attualmente sotto il possesso formale dello stato, ma anche per quella nominalmente “privata” ma acquisita tramite lo stato, o per quelle imprese cresciute con i profitti realizzati soprattutto grazie all’intervento dello stato. Nelle precedenti citazioni di Rothbard e Hess, sulle occupazioni da parte degli studenti in agitazione, i diritti di proprietà di università sedicenti “private” ma finanziate ampiamente dallo stato erano visti con disprezzo. Come la proprietà di stato vera e propria, anche questa dovrebbe essere considerata proprietà “di nessuno”, “colonizzabile” da parte degli occupanti, studenti e/o personale.

Rothbard applicava lo stesso principio alle aziende private che devono gran parte degli introiti allo stato. Università nominalmente private come la Columbia, finanziate perlopiù dai contribuenti e dunque private “in senso molto ironico”, meritano la confisca e la colonizzazione tanto quanto le università pubbliche.

Va bene la Columbia University, ma… e la General Dynamics? E tutto quel coacervo di aziende che sono parte integrante del complesso industrial-militare, che non solo devono più della metà o forse tutti gli incassi allo stato, ma sono anche corresponsabili di eccidi? Su quali credenziali si basa la loro proprietà privata? Meno di zero, sicuramente. Come avidi lobbisti alla ricerca di contratti e sovvenzioni, cofondatori dello stato caserma, la loro proprietà merita di essere confiscata e resa ai veri privati al più presto possibile.12

Fare degli incassi lordi il criterio principale, come faceva Rothbard, è forse troppo semplicistico. Più rilevante come criterio è il margine di profitto derivato dallo stato negli anni passati, dato che l’attuale dimensione e capitale netto di un’azienda sono il risultato di accumulazioni passate. Negli Stati Uniti, ad esempio, il complesso automobilistico autostradale e l’aviazione civile sono praticamente creature dello stato. I grandi aviogetti di linea sono stati resi possibili dalle grosse somme spese per i caccia bombardieri. C. Wright Mills in The Power Elite nota come il valore degli impianti e degli equipaggiamenti sia cresciuto di due terzi circa durante la seconda guerra mondiale, perlopiù grazie a soldi dei contribuenti. L’industria elettronica è cresciuta principalmente grazie a fondi per la ricerca del Pentagono nel corso degli anni Sessanta; e se i primi supercomputer non fossero stati acquistati dal governo statunitense, probabilmente l’industria non avrebbe raggiunto il punto in cui era possibile ridurre i costi tanto da rendere i mainframe accessibili ai privati. Senza dimenticare il ruolo del Pentagono nella creazione e infrastrutturazione di internet…

E che dire dei benefici non monetari garantiti dallo stato, come la possibilità di imporre prezzi monopolistici grazie ai brevetti? Molta della cartellizzazione industriale tra l’Ottocento e il Novecento fu il prodotto di uno scambio di diritti di brevetto (ad esempio, tra la General Electric e la Westinghouse). L’industria chimica statunitense raggiunse un’importanza mondiale solo quando lo stato si impadronì di brevetti tedeschi durante la Seconda Guerra Mondiale per cederli poi alle principali industrie chimiche. C’è poi l’effetto complessivo sul tasso di accumulazione dell’intervento statale sul mercato del lavoro, che comprende limiti al diritto di organizzazione come la Railroad Labor Relations Act o la Taft-Hartley, limiti alla libertà bancaria al fine di tenere artificialmente alti i tassi d’interesse, limiti all’accesso al credito per i lavoratori, e utilizzo del debito come strumento disciplinare. Ci sono poi i benefici collettivi dell’accumulazione primitiva degli inizi della modernità (quando i contadini furono derubati dei loro tradizionali diritti di proprietà della terra e trasformati dallo stato in affittuari), il ruolo delle forze mercantiliste nel creare un “mercato mondiale”, il controllo pressoché totalitario sulla popolazione durante la rivoluzione industriale inglese, i grossi aiuti concessi per i miglioramenti interni e tanto altro.

Mettendo assieme tutto quanto, non occorre una grande immaginazione per capire che tutte le grandi industrie sono una creazione dello stato corporativo.

Il Latifondismo e lo Stato

Jerome Tucille ai legittimi principi libertari contrapponeva la “appropriazione anarchica della terra”:

Gli anarchici di libero mercato basano la loro teoria della proprietà privata sul principio dell’occupazione primitiva: una persona ha diritto ad un suo pezzo di terra purché vi unisca il proprio lavoro e lo modifichi in qualche modo. Gli anarchici “appropriatori di terre” non accettano queste limitazioni. Salgono sulla montagna più alta e reclamano a sé tutto ciò che vedono. Tutto diventa loro sacrosanta proprietà e nessun altro può metterci piede.13

Certo il principio lockeano dell’appropriazione basata sul lavoro solleva tutta una serie di questioni complesse. Quanto “lavoro” è necessario per dichiarare la proprietà di una terra? Bisogna occuparla e coltivarla direttamente, o basta tracciarne il confine (a piedi? col Suv?) e marcarla con qualche opera? E, in quest’ultimo caso, c’è un limite di tempo? E vale anche il diritto del papa di tracciare una linea su una mappa del Sud America e dividerne la proprietà tra la Spagna e il Portogallo? D’altro canto però, se occorre lavorare o in qualche modo modificare la terra, sembrerebbe che la quantità di terra che una singola persona può fare sua sia in relazione alla quantità che riesce personalmente a coltivare. In questo caso, ci avviciniamo a qualcosa che ricorda il principio di appropriazione mutualistico basato su “occupazione e uso”, che altro non è se non un modo alternativo, non lockeano, di definire le norme su cui si basa la proprietà privata (e che il sottoscritto condivide).

Tibor Machan sottolinea inavvertitamente la forte somiglianza tra il furto di stato tramite tassazione e il furto implicito in gran parte di ciò che viene definito “rendita”:

In passato le classi più alte, dal re ai suoi clientes, praticavano di regola l’estorsione. Mascheravano la cosa dichiarando di essere proprietari di ogni cosa. I monarchi, così come i loro teorici, inventarono questa storia secondo cui i re erano i legittimi proprietari “del regno” e avevano il “diritto divino” di governare sugli altri, e la diedero a bere al popolo. Ecco allora che quando il popolo lavorava la terra, o faceva una qualunque cosa, doveva pagare una “rendita” al re e ai suoi clientes.

Ora, io vivo nel mio appartamento e pago una rendita sotto forma di affitto. La devo al suo proprietario, dopotutto. Ma, e se l’appartamento è frutto di una razzia, di un furto ai danni di qualcuno che ne era il proprietario originario? È così che i monarchi hanno ottenuto il loro diritto di regnare: con la razzia. Erano invece gli abitanti del regno che lavoravano la terra o producevano altro ad essere a tutti gli effetti i veri proprietari del regno, mentre i monarchi erano i finti, sedicenti proprietari, nient’altro. Ma riuscivano ad abbindolare la maggioranza inerme, facendo credere loro che il proprietario era il monarca, esigendo pertanto una “rendita”.14

Ci sono significative differenze di fondo tra la teoria mutualista del possesso della terra e quella lockeana, o anche georgista, ma non è questione da affrontare qua. Il punto importante per ora è che queste teorie rivali riguardo l’illegittimità di tanta proprietà dell’attuale proprietà fondiaria nominalmente “privata” hanno molte parti in comune. Le grosse estensioni oggi nelle mani dei moderni latifondisti sono proprietà illegittima non solo secondo gli standard libertari, ma anche secondo la regola appropriatoria di Locke. Nell’Europa della prima modernità, i latifondisti agirono tramite lo stato al fine di trasformare la loro “proprietà” feudale in moderna proprietà assoluta, e così facendo privarono i contadini, che da tempi remoti la occupavano e lavoravano, del loro tradizionale diritto alla terra. Seguirono affitti esorbitanti, sfratti di massa e recinzioni delle terre. Nel Nuovo Mondo lo stato impedì l’accesso alle terre libere o semilibere dichiarandole “demaniali”. Seguirono restrizioni all’accesso a singoli coloni e forti concessioni terriere a speculatori e società ferroviarie, minerarie e del legname, nonché ad altre categorie privilegiate. Il risultato fu che i produttori medi che cercavano nella terra un mezzo di sostentamento si videro limitato l’accesso indipendente, con una limitazione anche delle possibilità di guadagnarsi da vivere, costretti a vendere sul mercato la loro forza lavoro.

In tutto il mondo, ovunque esistano pochi grossi latifondisti e contadini che pagano una rendita per poter lavorare la terra quasi sempre, se andiamo a vedere le origini, c’è un furto ad opera dello stato. Il fenomeno lo ritroviamo già nella Roma repubblicana, come spiegano sia Livio che Henry George, con i patrizi che si servivano del potere di influenzare lo stato per appropriarsi delle terre comuni e ridurre i plebei allo stato di affittuari o servi per debiti. Citando Albert Nock, “lo sfruttamento economico non è possibile se non si espropria la terra”.15

Conclusione

La destra libertaria sbaglia ad attenersi strettamente alla forma aziendale come ideale organizzativo. La logica di un’economia aziendale, secondo lo schema attuale, non deriva affatto dai principi della non costrizione e dello scambio sul libero mercato. Una società di mercato che dà più spazio, poniamo, alle idee di Colin Ward e Ivan Illich, piuttosto che Uncle Milty e John Galt, sarebbe molto più umana e tollerabile.

Molti non libertari vedono spesso nel libertarismo una sorta di destra più la tolleranza verso le droghe. Si tratta in molti casi di un’ingiustizia. Nel movimento libertario c’è un’ampia vena piccolo borghese e populista che, passando da Nock e Mencken, risale a Warren, Tucker e altri individualisti. Molti rothbardiani seguono principi che, applicati, porterebbero alla distruzione gran parte delle grandi aziende esistenti.

In molti, troppi casi purtroppo la percezione popolare è più che corretta. Gran parte del movimento libertario è una glorificazione apologetica di chi oggi sta in alto: delle grandi aziende contro i piccoli, i consumatori e i lavoratori; dell’agroindustria contro l’agricoltura tradizionale; delle compagnie petrolifere, minerarie e del legname che vogliono accedere alle terre pubbliche a condizioni politiche; dei coloni di stati (ex) reietti come Israele e Zimbabwe e contro le popolazioni locali diseredate. Citando Cool Hand Luke, “Tutto il nostro bene per il povero capo.”

Finché il libertarismo continuerà ad essere visto così, come una sofisticata giustificazione e manifestazione di simpatia per chi ha, contro chi non ha, le nostre probabilità di vincere sono meno di zero. Se invece ci atteniamo ai principi di non aggressione e non costrizione, anche quando questi rappresentano un pericolo per i grandi, poniamo le basi di una coalizione sinceramente libertaria che comprende destra e sinistra, con essa possiamo abbattere la fortezza dello stato. Spero così di aver fornito alcuni esempi concreti su come applicare questi principi in risposta ai problemi attuali.


1 “Common Property in Free Market Anarchism: A Missing Link” http://www.anti-state.com/article.php?article_id=362

2 “Letter From Washington: Where Are The Specifics?” The Libertarian Forum June 15, 1969 p. 2.

3 In Henry J. Silverman, ed., American Radical Thought: The Libertarian Tradition (Lexington, Mass.: D.C. Heath and Co., 1970), p. 268.

4 “The Student Revolution,” The Libertarian (soon renamed The Libertarian Forum) May 1, 1969, p. 2.

5 “Confiscation and the Homestead Principle,” The Libertarian Forum June 15, 1969 p. 3.

6 http://www.geocities.com/vcmtalk/mutualize

7 “Confiscation” p. 3.

8 “How and How Not to Desocialize,” The Review of Austrian Economics 6:1 (1992) 65-77.

9 “De-Socialization in a United Germany” The Review of Austrian Economics 5:2 (1991) 77-104.

10 Democracy, the God that Failed (New Brunswick and London: Transaction Publishers, 2002) pp. 124-31.

11 “You Can’t Say That!” August 6, 2002. http://www.lewrockwell.com/corrigan/corrigan13.html.

12 “Confiscation” p.3.

13 “Bits and Pieces,” The Libertarian Forum November 1, 1970, p. 3.

14 Tibor R. Machan, “What’s Wrong with Taxation?” http://www.mises.org/fullstory.asp?control=1103.

15 Chapter 2, Our Enemy, the State http://www.barefootsworld.net/nockoets2.html.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory