Materialismo e Libertarismo Grosso

Di Eric Fleischmann. Originale: Materialism and Thick LIbertarianism, del 2 agosto 2022. Tradotto da Enrico Sanna.

Due anni fa illustrai ad un gruppo di discussione di filosofia una relazione dal titolo “Prerequisiti della libertà nell’ottica anarco-individualista”, in cui parlando del nesso tra libertarismo grosso e anarco-individualismo nordamericano ottocentesco spiegavo come, per giungere ad un sincero individualismo necessariamente anticapitalistico occorra prima possedere valori progressisti liberatori. Per i profani, la “grossezza” del libertarismo grosso indica, come spiega Nathan Goodman, “un ampliamento dell’interesse libertario oltre la pura e semplice violenza e il potere dello stato, alla ricerca di quelle condizioni culturali e sociali che meglio portano alla libertà.” Questo ampliamento assume varie forme, come spiegato ampiamente da Charles Johnson. Esiste ad esempio una “grossezza strategica”, ovvero un interesse libertario per questioni come la disuguaglianza economica, perché “[N]eanche una società completamente libera, se una piccola classe di magnati possiede la stragrande maggioranza della ricchezza mentre la quasi totalità della popolazione è pressoché indigente, può restare libera a lungo.” C’è poi una “grossezza di base”, per cui la lotta contro il potere piramidale e il dominio palesemente non violenti nasce dalle stesse basi su cui poggia il principio libertario della non aggressione. Si potrebbero citare anche altri casi, ma basti dire che in genere per libertarismo grosso s’intende una qualche forma di libertarismo che considera ideali come quelli femministi, antirazzisti, di liberazione degli omosessuali, egalitari e ambientalistici parte irrinunciabile di qualunque programma libertario, auspicabili al fine di una diffusione dei valori libertari. Sul libertarismo grosso parlo più in dettaglio nella recensione del libro Ayn Rand, Homosexuality, and Human Liberation, di Chris Matthew Sciabarra, dove dico: “oggi siamo tutti libertari grossi”, l’unica differenza è tra chi intende questa grossezza in senso liberatorio o in senso reazionario. In un mio articolo in cui metto a confronto anarchismo e anarco-capitalismo spiego come questa grossezza sia uno dei tratti distintivi che pongono il libertarismo astatuale di sinistra entro i canoni anarchici e l’anarco-capitalismo fuori. Questa mia approvazione del libertarismo grosso deve però essere suffragata con un’analisi materiale (in forma dialettica), la mia forma analitica preferita nel dare un significato al mondo. Colgo l’opportunità di questo articolo per farlo.

Tra le conclusioni a cui giungevo nel succitato studio filosofico c’era il fatto che questa grossezza liberatoria, o, come dico io, questi valori ideologico-culturali, si estendono all’ambito economico e comportano ideali antigerarchici, cooperazione e potere dei lavoratori sotto forma di cooperative, a cui si aggiunge una teoria del valore etico-culturale, “una gestione fondiaria basata sulla comunità, valute comunitarie, tecnologie open source, credito mutuo e via dicendo.” Il modello non presenta problemi in un’ottica puramente anarco-individualista, anche se a mio parere la logica è un po’ antiquata. Insomma, è la base economica a dar vita ai valori ideologico-culturali e alla cultura in generale. Questo secondo il materialismo storico di Karl Marx e Friedrich Engels, una teoria che il Merriam-Webster definisce “la teoria marxista della storia e della società secondo la quale idee e istituzioni sociali si sviluppano soltanto come sovrastruttura di una base economica materiale.” In quest’ottica, le società prendono forma attorno ai mezzi di produzione (terra, lavoro, strumenti e macchine) e le relazioni di produzione (distribuzione della proprietà, divisioni in classi, forma merce), fino a costituire, come spiega Marx nella sua Introduzione a Per la Critica dell’Economia Politica, “la struttura economica della società, le fondamenta reali su cui si erge la sovrastruttura legale e politica e a cui corrispondono forme definite di coscienza sociale”. Sulla base di questa analisi fondamentale Marx ne L’ideologia tedesca spiega: “[c]iò che gli individui sono dipende […] dalle condizioni materiali della loro produzione.” È però importante notare che il processo non è a senso unico. Il pensatore marxista Antonio Gramsci scrive di “una indispensabile reciprocità tra struttura [la base] e sovrastruttura, reciprocità che non è altro che processo dialettico reale” che non dev’essere trascurato se si vuol fare un’analisi storico-sociale completa. Questo modello generale viene spesso utilizzato per dare un ordine alle diversità storiche delle diverse società: schiavistica, feudale, capitalista, socialista, comunista; ma può essere utilizzato, in misura minore, anche per spiegare non solo come realizzare immediatamente i fini del libertarismo grosso, ma anche come far nascere i corrispondenti valori grossi nella società.

Prendiamo come esempio la produzione di valori quali l’antirazzismo e l’uguaglianza razziale. Il razzismo, è vero, è un fenomeno molto complesso, ma possiamo considerarlo un semplice dispositivo del capitalismo che si esplicita a diversi livelli. Come spiega Marco La Grotta, il razzismo (soprattutto contro i negri) serviva ad “imporre un divide et impera a vantaggio del capitale.” Storicamente, assume le forme della “tratta transatlantica degli schiavi che accompagnò la nascita del capitalismo statunitense e britannico. In origine non si faceva distinzione netta tra schiavi neri e schiavi per debiti bianchi.” Fu solo al fine di soffocare possibili ribellioni multirazziali, che “il potere statunitense sviluppò teorie razzistiche che ‘dimostravano’ l’inferiorità dei negri, il che creò una spaccatura tra gli assoggettati, impedì all’origine le rivolte e giustificò la schiavitù.” La pratica continua ancor oggi tramite la “codifica [del razzismo] sotto forma di leggi, finanziando la ‘scienza’ razzista e ampliandone gli scopi… [al fine di] permettere al capitalista di abbassare i salari creando al contempo una serie pressoché infinita di divisioni tra i lavoratori.” È Robert Knox a spiegare che…

[i]l capitalismo, in quanto sistema in perenne espansione organizzato attorno allo sfruttamento differenziato geograficamente e geopoliticamente dei lavoratori, necessita del razzismo. Le relazioni sociali capitaliste si sono diffuse a livello internazionale con l’esproprio, su base razziale, delle società non capitaliste, così che le tecniche di razzializzazione ebbero un’importanza cruciale nell’imposizione della disciplina sul posto di lavoro, compresa la schiavitù, sulla classe lavoratrice. Questa razzializzazione resta (a volte in forme sottili) ancora oggi nel capitalismo attuale, un elemento cruciale della gestione e della divisione dei popoli a livello nazionale e internazionale.

Queste analisi dimostrano come il razzismo possa essere visto anche come strumento dei capitalisti inteso a rafforzare e ampliare il controllo del lavoro e dei mezzi di produzione.

Una risposta al problema possiamo trovarla nell’operato di Cooperation Jackson, che cerca di “realizzare una rete di cooperative con base nella città di Jackson, nel Mississippi” sulla base delle “teorie elementari dello scambio… per cui con l’organizzazione e l’emancipazione dei lavoratori sottoccupati e disoccupati che, soprattutto nelle comunità nere e latinoamericane, sono incentivati a mettere su cooperative possedute e gestite dai lavoratori, si favorisce la democratizzazione dell’economia e della società in generale.” Il progetto viene incontro alle necessità materiali immediate di chi si riconosce nell’antirazzismo grazie ad attività su base comunitaria offrendo un salario minimo, relazioni di lavoro non-gerarchizzate e così via; e allo stesso tempo, su un altro livello, promuove lo sviluppo di valori antirazzisti. Il significato principale del discorso è che se il compito del razzismo è di aiutare il capitalismo a dominare la classe lavoratrice e ampliare il processo di estrazione/produzione, questo particolare effetto catalizzante del razzismo può essere contrastato con la creazione di comunità economiche, come quella promossa da Cooperation Jackson, estranee alla logica del capitalismo. Si tratta di offrire spazi al dialogo, alla trasparenza e al riscatto senza interferenze da parte del Capitale[1]. Storpiando una citazione presa dall’articolo di La Grotta, si può dire che questo programma non offre tanto la possibilità di “far scomparire la fede razzistica e il capitalismo”, o, in questo caso, di farlo uscire dagli spazi autonomi, bensì di…

creare quantomeno il milieu in cui il razzismo può essere eliminato; e non solo il razzismo ma anche il sessismo, l’omofobia e tutto il resto. Il razzismo ha radici materiali. E la soluzione dev’essere altrettanto materiale.

Wesley Morgan critica questa strategia basata su un doppio potere cooperativo, definendola “sindacalismo di mercato”, perché partecipa della logica del capitalismo come unità dell’economia di mercato. Ciò che Morgan fraintende, secondo me, è che la realtà attuale e gli imperativi del “mercato” ruotano principalmente attorno a dei monopoli sanciti e difesi dallo  stato e sono esposti al potere di interferenza diretta dello stato corporativo. Poiché questa interferenza dello stato capitalista sull’azione del mercato è originariamente fondata sulla violenza e/o la sua minaccia da parte dello stato, le strategie che cercano di scoraggiare o evitare questa violenza (come le strategie di autodifesa radicali comunitarie e le pratiche agoristiche) possono rendere possibile l’uso dei mercati fuori dall’attuale sfera economica.

È possibile poi rafforzare la coscienza ambientalistica dell’individuo e della comunità non solo democratizzando ma anche riportando a dimensione locale le basi materiali della società: altro esempio del nesso tra materialismo (dialettico) e libertarismo grosso. Riportare a dimensione locale, secondo P2P Foundation Wiki, significa “portare la produzione di beni fisicamente più vicino ai suoi fruitori al fine di ridurre costi ambientali e altre esternalità della globalizzazione.” Molte sono le teorie che spiegano come avviene questa riduzione dei costi ambientali, ma la principale è che certe attività economiche (che sia l’agroindustria o l’estrazione e il commercio internazionale di combustibili fossili) avvengono spesso su scala non sostenibile e devono essere ridimensionate (nel senso della decrescita). Come dice Helena Norberg-Hodge, tornare al locale “favorisce la resilienza davanti alla crisi climatica: dipendere per i propri bisogni basilari da una moltitudine di sistemi produttivi locali connessi tra loro, invece che da fonti distanti, aumenta la capacità delle comunità di resistere agli sconvolgimenti futuri.” Insita nel ridimensionamento locale è idealmente la proliferazione di cooperative di produzione che sostengano l’economia della comunità, che secondo le Nazioni Unite dovrebbero servire ad assicurare “un sistema di produzione e consumo sostenibile”. Pur avendo in mente un sistema cooperativo più globale che locale, le Nazioni Unite offrono un buon esempio con la IMAI Farming Cooperative del Sudafrica: “una cooperativa femminile che in collaborazione con lo stato e istituzioni no-profit produce conserve alimentari. Grazie alla cooperativa si accresce il reddito dei soci aggiungendo valore al prodotto e riducendo lo spreco di alimentari.” Ma c’è anche la Associazione per la Cernita, la Raccolta e il Riciclaggio di La Paz, in Bolivia, che “nel 2006 ha messo su una cooperativa al fine di superare le difficoltà legate alla raccolta dei rifiuti. I quaranta soci guadagnano cifre dignitose riciclando un totale di circa 194 tonnellate al giorno di rifiuti solidi, tra cui plastica, cartone, metallo, indumenti usati, vetro e occasionalmente rifiuti elettronici”, i quali ultimi sono rivenduti “sul mercato informale”. Anche altri esempi offerti dall’Onu, connessi a filiere più lunghe e con molteplici punti di produzione e vendita, sembrano controllati dalle comunità. E pur trattandosi di semplici abbozzi di una cooperativizzazione locale dei mezzi di produzione, lasciano intravedere quale potrebbe essere il futuro e traducono il concetto in pratica.[2]

Ancora una volta vediamo come si affrontano questioni ecologiche a livello immediato e al contempo, come ho già detto, si stimola la nascita di una coscienza ambientalista tra le persone. Democratizzare (tramite le cooperative) e portare a dimensione locale può esser fatto anche seguendo la logica di Aaron Koek’s, il quale invita a “un confronto diretto con l’attuale situazione piramidale… strappando terre e risorse dalle mani dei capitalisti. Questo significa interagire direttamente con le persone e le loro comunità quando si tratta del loro ambiente biologico immediato, lasciando che prendano decisioni razionali sulla base delle conoscenze che derivano dal loro vivere sul posto.” Questo inedito controllo della proprietà da parte delle masse, opposto a quello esercitato da un gruppetto di capitalisti, porta al “potere di condizionare direttamente il rapporto con la biosfera”, disalienando l’uomo dal suo ambiente prossimo, dandogli la possibilità di “proteggere la biosfera in quanto estensione di se stesso.” Ecologisti conservatori in Gran Bretagna si ricollegano all’idea di “oikofilia”, termine inventato da Roger Scruton che Sarah Newton definisce “un insieme di cause al cui centro c’è l’amore per la propria casa.” Il contesto conservatore rischia qui di generare etnocentrismo, xenofobia, nazionalismo e altri “valori” indigesti, ma io non credo che l’idea in sé contenga qualcosa che impedisce l’amore per il multiculturalismo locale e la ricerca di qualcosa che potremmo definire localismo cosmopolita (che secondo Wolfgang Sachs è rappresentato da una rete mondiale che connette tra loro comunità che si sostengono reciprocamente). In termini generali il termine oikofilia, come l’intende Newton, indica ciò che spinge a proteggere la propria casa, compreso (spesso soprattutto) l’ambiente. Toccare con mano le distruzioni ambientali, le inondazioni e tutto ciò che è opera dei cambiamenti ambientali dovrebbe idealmente “spingere le persone a unire le proprie forze e proteggere il proprio ambiente.” La spinta a fare si realizza e dà i suoi frutti quando poi aggiungiamo la capacità di cambiare le cose a livello locale, in casa propria, nella comunità, tramite la pianificazione energetica verde e iniziative imprenditoriali locali. Io credo che sarebbe ancora meglio se i programmi uscissero dall’economia precostituita dei conservatori inglesi per interessare quei sistemi di mercato localizzato e democratico che sono l’obiettivo di questo scritto.

Si possono citare tanti esempi di come alterando le basi materiali si possono causare cambiamenti nei valori culturali (a sua volta rafforzando quelle alterazioni). Basta vedere come il costrutto sociale materiale dei ruoli di genere (così come teorizzati dal femminismo marxista e materialista) o il concetto di omofobia e ciseteronormatività sono meccanismi introdotti dal capitale al fine di imporre una riproduzione standardizzata della forza lavoro e una limitata mercificazione della differenza. Certo una cooperativa non ha il potere di trasformare tutti quanti in antirazzisti o in ambientalisti ma, in quanto parte di un più ampio movimento di potere politico-economico e localista indipendente dal capitalismo statuale, un movimento cooperativo di massa potrebbe dare inizio a una serie di cambiamenti riguardanti le basi materiali e pertanto anche la sovrastruttura (in particolare, i valori culturali). Tutti i libertari di sinistra già sostengono ampiamente il sistema cooperativo (sia come entità di mercato accettabile che ideale), il credito mutuo e la proprietà comune delle risorse naturali incentrate sulla possibilità dei lavoratori di produrre collettivamente e gestire imprese fuori dalla gabbia capitalista. Uno dei principali teorici del libertarismo di sinistra, Kevin Carson, in “Economic Calculation in the Corporate Commonwealth” e “The Distorting Effects of Transportation Subsidies” spiega che è grazie all’intervento dello stato che le economie si delocalizzano e crescono a dimensioni artificialmente enormi; è evidente, dunque, che senza l’intervento statale si può arrivare ad un sistema fatto di reti di economie locali (alla maniera del succitato localismo cosmopolita). Mi pare inoltre molto importante sottolineare come questi programmi economici possano generare direttamente quei valori del libertarismo grosso auspicati dai libertari di sinistra, contribuendo così a unire concettualmente grossezza e scienza economica anticapitalista tra i libertari di sinistra.

Note

1. Uso il termine capitale in senso marxiano: una relazione sociale basata sull’accumulazione attraverso l’estrazione dal lavoro salariato e la proprietà privata.

2. I dati provenienti dall’Onu devono ovviamente esser presi cum grano salis dato che… provengono dall’Onu.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory