L’inizio è la Fine: Abolizionismo Anarchico come Dialogo Creativo

Di Eric Fleischmann. Originale pubblicato il 26 aprile 2021 con il titolo The End Is the Beginning: Anarchist Abolitionism as Communicative Creation. Traduzione di Enrico Sanna.

Thomas Malthus, nel suo tristemente famoso Saggio sul principio della popolazione dedica alcuni capitoli alla critica di quello che probabilmente fu il primo pensatore anarchico moderno, William Godwin. Ad un certo punto, Malthus scrive:

Il grande errore in cui Godwin persiste in tutta la sua opera  sta nell’attribuire alle istituzioni umane quasi tutti i vizi e le ingiustizie che vediamo nella società civile. Norme politiche e amministrazione della proprietà sono per lui fonte cospicua di tutti i mali, il terreno in cui cresce il crimine che degrada l’uomo. Se così fosse, non sarebbe impossibile sradicare il male dal mondo, e la ragione sembra lo strumento adeguato e appropriato per mettere in pratica un proposito così nobile.

Ci sarebbe molto da dire sulla critica sostanzialmente debole del pensiero di Godwin, ma tutto sommato con le sue accuse riesce a mettere in luce una piccola verità. Ovvero che, a parte Godwin, se l’anarchismo in generale tende ad attribuire alle istituzioni i mali dell’umanità, è perché le istituzioni, fondamentalmente violente, “corrompono” la società.

Pensiamo alle terribili conclusioni che si possono trarre dall’analisi del nazismo tedesco. Hannah Arendt, ad esempio, in Eichmann a Gerusalemme prende lo spunto dal processo a Adolf Eichmann – un Obersturmbannführer della Germania nazista, uno dei principali realizzatori della “soluzione finale” – per dimostrare che quelli che facevano parte dei meccanismi amministrativi che generarono l’Olocausto “non erano né pervertiti né sadici, bensì erano, e ancora sono, terribilmente, spaventosamente normali”. È questa la “banalità del male” (espressione che fa da sottotitolo al libro), per cui persone rispettose della legge, sedicenti normali, buone, che tutto sommato non provavano un significativo odio personale né, a posteriori, sensi di colpa, ma che in obbedienza cieca alle istituzioni compiono atti orribili. Pensiamo ad esempio alla frase “Stavo solo seguendo gli ordini” – comprovata dall’esprssione tedesca Befel ist Befehl, un ordine è un ordine – resa tristemente famosa dai criminali nazisti, ma usata ancora oggi da poliziotti, agenti dell’immigrazione e militari dell’impero americano per giustificare omicidi e repressioni.

Philip Zimbardo, l’uomo che condusse lo scandaloso esperimento del carcere di Stanford, chiama questo fenomeno socio-psicologico “Effetto Lucifero” (titolo del suo libro sull’argomento pubblicato nel 2008). Secondo Zimbardo, istituzioni violente come carceri e caserme “diventano spesso crogiuoli in cui autorità, potere e dominio si fondono assieme e, quando sono coperti da segreto, mettono in sospeso la nostra umanità, privandoci delle qualità a noi più care: altruismo, cortesia, cooperazione e amore”. La conclusione è che sono soprattutto i contesti in cui prevale la violenza gerarchica a spingere a commettere azioni violente, se non apertamente crudeli, anche se una persona non aveva una predisposizione particolare prima di finire in questo ambiente. In un’intervista al New York Times, rispondendo a domande riguardo le fotografie scattate ad Abu Ghraib, disse: “Se metti una mela sana in un ambiente marcio, ottieni una mela  marcia”. Lo vediamo benissimo nel succitato esperimento fatto nel carcere di Stanford – un’importante base sperimentale da cui ricavò la teoria dell’Effetto Lucifero – che dimostrò come un potere istituzionalizzato trasforma persone “normali” in torturatori e fonti di sofferenze.

Un’indagine approfondita sul dibattito riguardo le origini del male (ambientali o genetiche?), nonché la definizione stessa del male, avrebbe qui un’importanza molto marginale, ma potrebbe servire a mettere in chiaro il fatto che le opinioni espresse finora non mirano a dare spazio a teorie assolutistiche che vanno contro la libertà di scegliere autonomamente se fare violenza o meno. Questo non significa, d’altra parte, che eliminando le istituzioni violente il mondo diventa un’utopia non violenta – cosa di cui Malthus sembra accusare Godwin – perché l’uomo è ontologicamente “buono” ma è corrotto dall’influenza istituzionale. Questa è la critica che William Gillis rivolge alla sinistra in generale, che “commette sempre l’errore di dare per scontato che i mostri siano unicamente un prodotto delle strutture sociali”. Invece, la questione è che gli anarchici sottolineano l’influenza di istituzioni o strutture violente e inique – frontiere, esercito, carceri, polizia e altro – di cui sostengono l’abolizione non perché violente in sé, ma perché generano violenza e iniquità. Prendendo l’esempio citato da Gillis, “le forze di polizia sono marce perché l’istituzione attira il marciume”. Ovvero, come sintetizza Pëtr Kropotkin,

Quando diciamo di volere l’abolizione dello stato e dei suoi organismi, ci dicono sempre che sogniamo una società composta da persone migliori di quanto non siano in realtà. E invece no, mille volte no. Vogliamo solo che le istituzioni non trasformino le persone in qualcosa di peggio di quello che sono!

O ancora, tornando a Gillis,

L’assunto di base di un anarchico è che non possiamo difenderci dai criminali creando istituzioni di potere perché sarebbero gli stessi criminali ad appropriarsene. Nel lungo termine, l’unica soluzione possibile è l’eliminazione di tutte le posizioni di potere, cercare in un milione di modi di renderle impossibili, evitare che qualcuno possa assumere il potere sugli altri.

Questa lotta abolizionista è uno dei punti cardine dell’anarchismo.

George Woodcock, nella sua storia dell’anarchismo è favorevole ma anche piuttosto critico verso chi ritiene che si debbano abolire le istituzioni. Ma ammette:

Si tende a identificare l’anarchismo con il nichilismo, a vederci una sorta di filosofia negativa, una semplice filosofia della distruzione. In parte è colpa degli anarchici, dato che molti tendono ad evidenziare gli aspetti distruttivi delle loro dottrine. L’idea stessa dell’eliminazione dell’autorità implica far piazza pulita di gran parte delle istituzioni di una tipica società moderna, il punto forte degli scritti anarchici è sempre stato la critica forte di queste istituzioni. Per contro, le alternative rimangono quanto mai vaghe e poco convincenti.

Ma Woodcock difende l’anarchismo non sostenendo che non è mai stato un’ideologia puramente distruttiva, bensì spiegando che “può accettare la distruzione, ma solo se questa rientra in quell’eterno fenomeno naturale che dalla morte genera una nuova vita… e dunque confida nella possibilità dell’uomo libero di ricostruire, e ricostruire meglio, sulle ceneri del passato”. Un anarchico ha una visione del futuro “aperta” o “non del tutto conoscibile”. Citando David Graeber, “Mi interessa poco sapere quale sistema dovremmo adottare in una società libera, ciò che mi preme è creare gli strumenti che permettono alle persone di decidere autonomamente”. Ma questo insistere sulla critica e l’eliminazione, su un futuro spontaneo e non deterministico, come evidenzia un’appropriata interpretazione della citazione di Graeber, non significa prevalenza della prassi sulla teoria o del presente sul futuro. È invece la dimostrazione del fatto che il modo in cui gli anarchici vogliono abolire le istituzioni violente dell’attuale società è dialetticamente legato all’edificazione di un nuovo ordine sociale più libero.

Questa citazione di Mikhail Bakunin, ad esempio, illustra bene la sua filosofia dialettica negativa: “la passione per la distruzione è anche una passione creativa”. Prima ancora di lui (e meno brutalmente), Pierre-Joseph Proudhon diceva che “la libertà è la MADRE, non la figlia, dell’ordine”. Questa forma di pensiero, che dice che l’assenza di istituzioni governative o di altre strutture di potere porta all’ordine, la possiamo trovare anche in letture anarchiche del pensiero di Lao Tze – che molti storici del pensiero libertario come Woodcock considerano un progenitore dell’anarchismo – e della tradizione spirituale e filosofica del Taoismo. Come spiega l’autore di un articolo intitolato “Anarchism and Taoism”, conosciuto semplicemente col nome di Josh, uno degli aspetti centrali…

dell’insegnamento taoista è il concetto di wu-wei, spesso tradotto con inazione. Di fatto, esistono forti similarità filologiche tra “anarchismo” e “wu-wei”. Se il greco “an-archos” significa senza governante, wu-wei significa senza wei, laddove wei si riferisce a “un’attività artificiale, imposta, che interferisce con il naturale e spontaneo svolgersi dei fatti”. Fare qualcosa seguendo il wu-wei significa agire in modo naturale, andare verso un ordine naturale e spontaneo. Niente a che vedere con qualunque forma di autorità imposta.

È così che il pensiero anarchico, e protoanarchico, vede nell’abolizione delle istituzioni esistenti un processo atto a far emergere spontaneamente il nuovo ordine sociale. Secondo Marquis Bey, pertanto, “l’abolizionismo… è fondamentalmente arcaico non perché anarchici dichiarati dicono di volere l’abolizionismo ma perché quest’ultimo, con la sua totale liberazione dallo stato, dal capitalismo razziale e di genere, e dalla logica carceraria, spinge gli anarco-… a pensare come creare un nuovo mondo, una prassi creativa e immaginativa che poggia su un pervasivo non- in grado di costruire tanto quanto, se non più, di quello che distrugge”.

Come attesta Bey, questi sentimenti anarchici li ritroviamo anche nell’abolizionismo non anarchico. Come dice Angela Davis, nota femminista marxista e sostenitrice dell’abolizione del carcere, “L’abolizione non è primariamente una strategia negativa. Non ha come obiettivo principale lo smantellamento, l’eliminazione. Si propone di cambiare prospettiva, ricostruire.” C’è un’infografica del Forgive Everyone Collective che dice che “l’abolizione è creativa” perché…

non si limita a distruggere, ma serve principalmente a ricostruire. Tra gli obiettivi principali di noi abolizionisti c’è l’impegno a edificare comunità forti che siano sane e integre e i cui bisogni siano soddisfatti. [Gli abolizionisti] lottano per creare un mondo in cui carceri e volanti siano concetti obsoleti, sostituiti da vibranti e floride comunità.

Queste frasi forti e altre simili – o forse, meglio, il fatto che siano usate come slogan o argomenti – non negano il pensiero anarchico nei confronti dell’abolizione ma lo rendono implicito. Per un anarchico, il potere creativo e affermativo dell’abolizione non riguarda tanto esplicitamente la creazione di nuove istituzioni o il dirottamento di fondi verso programmi non carcerari e pratiche da avviare assieme all’abolizione, bensì è il fatto che l’abolizione delle istituzioni della violenza significa aprire uno spazio nell’attuale ordine sociale che può essere colmato da una molteplicità di ordini spontanei attraverso cose che vanno dallo scambio volontario agli obblighi sociali non costrittivi, nessuna delle quali cose richiede meccanismi applicativi monopolistici. Errico Malatesta lo dice chiaramente quando scrive che “se nessuno può obbligare altri ad agire contro la propria volontà allora, dando per scontato che non si può o non è considerato conveniente adottare più di una soluzione, bisogna arrivare con concessioni reciproche ad un accordo che meglio si adatti a tutti e offenda il meno possibile gli interessi, le preferenze e i desideri individuali.” Ma in un senso più complesso, la violenza come principio organizzativo limita e talvolta distrugge la possibilità di creare e mantenere interazioni, relazioni di dialogo e comprensione, e oltretutto limita le capacità cognitive (soprattutto l’autocoscienza razionale), che è un prerequisito di tali atti dialogici.

Graeber, in The Utopia of Rules scrive:

Mi colpisce il fatto che l’aspetto veramente importante della violenza è che è forse l’unica forma di azione umana che esclude anche solo la possibilità di generare effetti sociali senza un dialogo. Insomma, la violenza è forse l’unica azione che produce prevedibili effetti sull’agire di qualcun altro di cui non si sa nulla. In tutti gli altri casi, quando cerchi di influire sull’agire di qualcuno devi almeno avere un’idea del tuo e del suo pensiero, di ciò che questo qualcuno potrebbe volere, le sue tendenze e avversioni e così via. Con un colpo in testa, tutto questo diventa irrilevante.

Dunque, la violenza ha una singolare “capacità di realizzare il potere arbitrario, evitando qualsiasi dibattito, chiarimento o negoziato, cose tipiche delle relazioni sociali più egualitarie.” Anche Chris Matthew Sciabarra, in una sua interpretazione dialettica di Ayn Rand, sostiene più astrattamente che…

La violenza riesce ad annullare la mente di qualcuno minacciandone la persona e impedendogli di agire. Spezza ciò che lega pensiero e azione, mezzi e fini, azione e destinatario dell’azione, vita e valore. E quando i nostri atti non si basano più sul raziocinio, la nostra vita è in pericolo. Se, dietro la minaccia della violenza, scegliamo di agire per conto nostro, lo facciamo mettendo a rischio la nostra vita… La violenza crea una letale contraddizione cognitiva.

Pertanto “la violenza è irrazionale, sovverte la capacità di essere razionali… Frammenta i requisiti della vita ed è la base del dualismo sociale.” La principale conclusione da trarre da queste osservazioni è che la violenza/forza annulla sia le relazioni basate sul dialogo, come gli obblighi sociali non costrittivi e la discussione e lo scambio razionali, che anche l’autocoscienza e la capacità di decidere autonomamente che è un requisito base del dialogo. La forza dunque invalida la possibilità di comprensione e di rapporto dialettico reciproco. Pertanto, eliminare le istituzioni create o gestite con la violenza, o che con la violenza si esprimono, significa per le persone ampliare la capacità di dialogare e di interagire comunicando razionalmente i propri bisogni e i propri desideri attraverso legami non costrittivi. Questo non riassume tutti gli effetti interni e relazionali propri delle istituzioni violente (semmai è una vaga ipotesi), ma certo porta alla potenziale conclusione che in tali condizioni autocoscienti e dialogiche certe strategie e pratiche diventano più praticabili.

Ci sono, ad esempio, ampie e differenti filosofie e prassi anticarcerarie che ricadono sotto il nome di giustizia riparatoria e giustizia trasformativa. Crimethinc. le definisce “nel senso più ampio” come…

un gruppo di amici che difende una persona offesa chiedendole di cosa ha bisogno, aiutandola a negoziare i propri bisogni con chi le ha arrecato offesa o con la comunità a cui appartiene. In certi casi occorre un gruppo che faccia mediazione interpellando le parti, o estrapolandole dai gruppi a cui appartengono per far sì che queste dialoghino liberamente. Questi processi solitamente comportano, per il mediatore, certe condizioni o “necessità” che riportino sicurezza e fiducia e impediscano la ripetizione del danno, oltre a una strategia che soddisfi i bisogni. Tutti questi approcci hanno in comune l’intenzione di riparare il danno senza ricorrere allo stato.

Tutto ciò ovviamente si basa sul dialogo opposto alla forza come metodo per ovviare ai problemi dell’individuo e della comunità, una strategia perfettamente percorribile nell’assenza teorica della possibilità di ricorso ad un’autorità centrale.

Altra strategia, molto più percorribile quando cresce l’interazione e il dialogo spontaneo, una strategia suscettibile di ampliamento, è la messa in pratica dei principi individuati dalla Ostrom per la gestione delle risorse comuni, altrimenti detti “beni comuni”. Ovvero:

1. Confini chiaramente definiti

Occorre definire chiaramente i confini del bene comune e chi ha il diritto di appropriarsi delle risorse.

2. Coerenza tra regole di appropriazione e concessione e condizioni locali

Le regole che stabiliscono i tempi, i luoghi, le tecniche e/o la quantità di risorse devono rifarsi alle condizioni locali e alle regole di concessione che richiedono lavoro, materiali e/o denaro.

3. Scelta collettiva

Molte persone soggette a regole gestionali possono partecipare alla modifica delle stesse.

4. Controllo

I controllori, incaricati di controllare le condizioni del bene comune e gli atti dei beneficiari, devono rendere conto ai beneficiari o sono essi stessi i beneficiari.

5. Sanzioni graduali

Quei beneficiari che violano le norme operative sono soggetti a sanzioni graduali (secondo la gravità e il contesto) da parte degli altri beneficiari, dei loro rappresentanti o di entrambi.

6. Meccanismi di risoluzione dei conflitti

I beneficiari e i loro rappresentanti devono poter accedere a spazi praticabili in cui risolvere i conflitti che nascono tra i beneficiari o tra questi e i loro rappresentanti.

7. Riconoscimento minimo del diritto di organizzazione

Il diritto dei beneficiari di ideare le proprie istituzioni non può essere inficiato da autorità governative esterne.

Per quei beni comuni che rientrano in sistemi più ampi:

8. Imprese nidificate

Appropriazioni, concessioni, controlli, applicazione delle regole, risoluzione dei conflitti e attività gestionali sono organizzate da imprese nidificate in molteplici livelli.

Dalla “gestione delle scelte collettive” ai “meccanismi di risoluzione dei conflitti” ad un “minimo riconoscimento del diritto di organizzarsi”, questi principi illustrano il ruolo importante, se non la necessità, del dialogo e della comprensione possibili in assenza di violenza, con particolare riferimento alla violenza di stato. Kevin Carson, nel saggio “Governance, Agency and Autonomy”, meglio illustra il concetto con un approccio specificamente anarchico alla gestione del bene comune delineata dalla Ostrom. Scrive Carson che “Molti progetti per la gestione del bene comune fallivano a causa di interferenze esterne… da parte dello stato e delle élite terriere.” Prendiamo due esempi di comunità imposta dallo stato con la forza: le riforme agrarie di epoca imperiale di Pëtr Stolypin e la collettivizzazione sovietica di Iosif Stalin. Entrambe negavano “il diritto di autogestione”. Le riforme di Stolypin, in particolare, violavano il primo principio della Ostrom in quanto concedevano il diritto “alle singole famiglie di appropriarsi di una parte delle terre comuni (intese secondo la definizione inglese) senza chiedere il consenso” alla comunità. Questo significa che “il diritto delle persone soggette a regole di esprimere la propria opinione sulla stesura delle regole stesse è – fatte salve le teorie sulla democrazia partecipata – un requisito base di un bene comune che funzioni”. Per fare ciò occorre che la disposizione al dialogo sia ben radicata. Carson nota inoltre che “L’attenzione  si concentra quasi interamente su quei fattori che favoriscono la leggibilità orizzontale di una rete basata sulla fiducia reciproca” e “il dialogo sta al centro delle regole che secondo la Ostrom permettono una buona gestione del bene comune.”

Insomma: tutto ciò che si basa sull’interazione spontanea, e che è rafforzato da una comprensione reciproca e autocosciente favorita dal dialogo, esce rafforzato dall’eliminazione delle istituzioni violente. E l’allargamento di queste reti di dialogo e di dipendenza reciproca, conseguenza dell’abolizione, contribuisce a far nascere forti comunità interdipendenti che a loro volta portano all’eliminazione dello stato e del capitalismo nonché di tutte quelle forme di oppressione con cui stato e capitalismo si intrecciano e si allineano. Così che ad ogni atto di abolizione si rafforza la capacità di abolire.

Questo effetto desiderabile fu interrotto da un fatto illustrato da Graeber in Debt: The First 5,000 Years, ovvero l’arrivo dell’imposizione violenta nelle cittadine e nei quartieri poveri in Inghilterra tra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo. Graeber descrive dettagliatamente le condizioni di vita in quell’epoca, spiega come talvolta uomini d’affari, artigiani, o anche vedove, producessero da sé il denaro il cui uso si basava sulla fiducia di tutti. Persone che vivevano in una comunità e si servivano del “macellaio, fornaio o calzolaio locali” usavano il credito. E, aggiunge,

visto che tutti vendevano qualcosa… quasi tutti si ritrovavano ad essere ad un tempo creditori e debitori; così che gran parte del reddito di una famiglia era formato da promesse di pagamento di altre famiglie; tutti sapevano e tenevano conto di ciò che dovevano o che gli era dovuto. Ogni sei mesi circa, la comunità faceva una “resa dei conti” in cui si cancellavano i debiti reciproci, mentre le rimanenze erano saldate in moneta o in beni.

Questa relazione di indebitamento mutuo era resa possibile dal fatto che “gli abitanti dei villaggi inglesi di epoca elisabettiana o stuartiana non amavano rivolgersi ai tribunali, anche quando le leggi erano dalla loro parte, perché era meglio la conciliazione diretta, ma soprattutto perché le leggi erano incredibilmente crudeli.” Ma come dice Graeber, l’origine del capitalismo “non è la storia di una distruzione graduale delle comunità tradizionali ad opera del potere impersonale del mercato. È piuttosto la storia della trasformazione di un’economia del credito in un’economia dell’interesse; è la storia della distruzione graduale di una socialità basata sulla morale introducendovi un impersonale, e spesso vendicativo, potere statale.” Che finì per assumere le forme della “criminalizzazione del debito, per cui “l’improvvisa possibilità di ricorrere alla forza minacciava di trasformare ciò che era l’essenza della socialità in una guerra di tutti contro tutti.” Il bello dell’abolizionismo, pertanto, è che offre un processo simile ma al contrario: la possibilità di creare ordine tramite lo scambio volontario, l’obbligo sociale e l’intesa razionale, e tramite l’abolizione di un’istituzione basata sulla violenza. Per fare un esempio attuale, pensiamo a Peter Gelderloos che disse che la rivolta di Ferguson nel 2014 “fu un atto importante non solo strumentalmente, perché costrinse tutti a vedere il problema; ma anche perché suggerì una soluzione quando gli abitanti dei quartieri si unirono in solidarietà, forgiando nuove relazioni tra loro e costringendo la polizia ad andare via.”

È in virtù di questa passione per il potere comunicativo e creativo dell’abolizionismo che sono orgoglioso di presentare un’antologia di opere sull’abolizione della polizia, le carceri, i confini e tutto l’imperialismo, e aggiungo anche alcuni classici scritti da individualisti e anarchici sull’abolizione della schiavitù negli Stati Uniti. Spero che il volume possa fare da guida, che sia un’arma nella lotta per una società veramente libera. Per tutti quelli che continuano a dire, come sostanzialmente faceva Malthus, che il nostro sogno di una società abolizionista basata sulla reciprocità, il libero scambio e il contatto è una fiaba, vorrei citare G.K. Chesterton che (forse apposta) storpiò Neil Gaiman dicendo: “Le fiabe sono realissime non perché i draghi esistono davvero, ma perché spiegano che i draghi possono essere abbattuti.” A voi la lettura. Abbiamo qualche drago da abbattere!


• Thomas Malthus, An Essay on the Principle of Population, as it Affects the Future Improvement of Society with Remarks on the Speculations of Mr. Godwin, M. Condorcet, and Other Writers., electronic ed., Electronic Scholarly Publishing Project 1998 (London, UK: J. Johnson, 1798), 56, accessed December 22, 2020, http://www.esp.org/books/malthus/population/malthus. pdf.

• Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem: A Report on the Banality of Evil, revised and enlarged ed. (New York, NY: The Viking Press, 1964), 279, accessed December 22, 2020, https://platypus1917.org/wp-content/uploads/2014/01/arendt_eichmanninjerusalem. pdf.

• Philip Zimbardo, The Lucifer Effect: Understanding How Good People Turn Evil, illustrated ed. (Random House Trade Paperbacks, 2008), 444.

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• David Graeber, The Utopia of Rules: On Technology, Stupidity, and the Secret Joys of Bureaucracy (Brooklyn, NY: Melville House Publishing, 2015), 76-78.

• Chris Matthew Sciabarra, Ayn Rand: The Russian Radical, 2nd ed. (University Park, PA: Pennsylvania State University Press, 2013), 277.

• CrimethInc., “Accounting for Ourselves: Breaking the Impasse Around Assault and Abuse in Anarchist Scenes,” CrimethInc., last modified April 4, 2017, accessed December 25, 2020, https: //web. archive. org/web/20190802071258/https://crimethinc.com/2013/04/17/accounting-for-ourselves-breaking-the-impasse-around-assault-and-abuse-in-anarchist-scenes.

• Elinor Ostrom, Governing the Commons: The Evolution of Institutions for Collective Action, Political Economy of Institutions and Decisions (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 1990), 90.

• Kevin Carson, “Governance, Agency and Autonomy: Anarchist Themes in the Work of Elinor Ostrom,” 2014, in The Anatomy of Escape: A Defense of the Commons, ed. James Tuttle (Center for a Stateless Society & Kindle Direct Publishing, 2019), 133-34.

• David Graeber, Debt: The First 5,000 Years, revised ed. (Brooklyn, NY: Melville House, 2014), 327.

• Peter Gelderloos, “Learning From Ferguson,” CounterPunch, last modified December 19, 2014, accessed December 26, 2020, https://www. counterpunch.org/2014/12/19/learning-from-ferguson/.

• Neil Gaiman, Coraline, illustrated ed., illus. Dave McKean (HarperCollins, 2012), 6.

Anarchy and Democracy
Fighting Fascism
Markets Not Capitalism
The Anatomy of Escape
Organization Theory