Di Frank Miroslav. Originale pubblicato il 24 settembre 2018 con il titolo The Future of Digital Proudhonism. Traduzione di Enrico Sanna.
Un recente articolo di Gavin Mueller per boundary 2 online journal, “Digital Proudhonism” è una critica marxista di quello che Mueller definisce “proudhonismo digitale”, un termine generico che indica chi crede che la tecnologia abbatta le barriere di classe. Proudhonismo digitale non è un’ideologia formale ma piuttosto una sottocorrente politicamente trasversale. Per Mueller, proudhonismo digitale è l’ideologia non ufficiale di chi pensa che basti togliere la proprietà intellettuale per distruggere la concentrazione della ricchezza e l’ingiustizia delle strutture di potere nella società. A suo giudizio, si tratta di una posizione pro-capitalistica, o almeno una posizione utilizzabile dai capitalisti. Cita a tale proposito le tendenze e le simpatie capitaliste di molti dei suoi proponenti.
Primo problema: il proudhonismo digitale descritto da lui ha origini varie, politiche ed economiche. Per facilitare l’analisi, prenderò in considerazione solo i teorici di sinistra citati da lui (immagino che quelli di destra o di centro non siano interessati alla fine del capitalismo). Pur con un campo così ristretto, però, le persone da lui citate non hanno poi posizioni così semplicistiche come lui sostiene.
Riassumo:
• Cory Doctorow è un libertario di sinistra, generico e non impegnato, che coltiva apertamente l’idea di un’economia pianificata.
• Paul Mason è un sedicente “democratico sociale radicale” che considera d’importanza vitale l’intervento dello stato nei settori finanziario ed energetico al fine di una transizione verso una società postcapitalista, ed è inoltre a favore di riforme come il reddito di base universale.
• Kevin Carson, infine, è un anarchico senza aggettivi che mira a spostare il più possibile l’attività economica fuori dal nesso di cassa, riconoscendo al contempo la funzione coordinativa del mercato.
Anche tralasciando le complessità di questi teorici, Mueller ha torto quando dice che la proprietà intellettuale è essenziale al capitalismo moderno. Soprattutto dimostra di non sapere come funziona il capitalismo quando dice che privo di proprietà intellettuale sarebbe semplicemente “il capitalismo descritto da Marx”. Questo dimostra una grave incomprensione della moderna economia. Oggi i profitti non vengono dall’estrazione di plusvalore dai lavoratori, ma da rendite estratte da attività economiche varie. Solo una parte di queste rendite proviene dal possesso fisico di una proprietà, mentre il grosso viene da prodotti e servizi finanziarizzati e dalla proprietà intellettuale.
Mi incuriosisce quello che Mueller definisce il modello post-proprietà intellettuale di certe aziende. Se la propriet intellettuale fosse inapplicabile scomparirebbero immediatamente l’industria dell’intrattenimento e del software, e verrebbero colpite duramente anche l’industria dell’hardware e il biotech (e questi sarebbero solo gli effetti a breve). Certo in mani capitaliste resterebbero l’agroindustria, le manifatture, il commercio e la produzione dell’energia, ma ci sarebbe comunque il più grande trasferimento di ricchezza della storia e verrebbe realizzato semplicemente non applicando le leggi. A differenza della proprietà fisica, che può essere protetta anche senza lo stato, la proprietà intellettuale una volta liberata sfugge dal possesso individuale.
Mueller dice poi che i mercati col tempo tendono alla concentrazione, ma non spiega perché se non rifacendosi all’analisi marxiana vecchia di oltre 150 anni. Ma come ho detto, il capitalismo moderno estrae rendita grazie alla scarsità artificiale garantita dallo stato, il che trasforma il marxismo in uno strumento analitico fortemente datato riguardo il moderno capitalismo. Mueller prima liquida le proposte di Kevin Carson come “fantasie da piccoli produttori”, e poi ignora la sua analisi rigorosa del capitalismo moderno e delle varie alternative. Quando dice che il proudhonismo digitale potrebbe produrre beni fisici, non fa che mettere assieme le teorie di Chris Anderson (un liberal), che immagina un mondo in cui basta inviare un file CAD ad una fabbrica per avere un determinato prodotto finito, con le idee ben più radicali di Kevin Carson.
Carson si oppone a questo approccio sia per ragioni etiche che economiche! L’analisi di Mueller ignorano completamente la parte in cui spiega in dettaglio perché dovremmo tornare ad una produzione paritaria locale di beni fisici. Non è un ritorno nostalgico all’economia di sussistenza, un colpo alla produzione per vivere nel mondo di fantasia di qualche fanatico, ma il risultato di profonde analisi su come i mercati siano stati deliberatamente distorti verso la produzione e il commercio di massa a vantaggio dello stato e del capitale. Kevin Carson dimostra fin nei dettagli come il modello produttivo basato sulla fabbrica abbia potuto reggersi nel ventesimo secolo solo grazie ad un intervento massiccio dello stato nell’economia e alla supremazia acquisita dagli Stati Uniti nel dopoguerra, cosa che ha portato all’esportazione del modello in tutto il mondo.[1] È sbagliato mettere assieme un’analisi economica radicale con le teorie di Chris Anderson, che scrive per un pubblico popolare.
Questo non significa che la critica marxista è tutta datata. Credo che abbia ancora qualche validità in materia di industrie ad alta intensità di capitale, come quella dei microchip, o di tecnologie futuristiche come i nanorobot o i reattori nucleari modulari al torio, che immagino abbiano alti costi iniziali. Qui potrebbe verificarsi la concentrazione tanto temuta dai marxisti. Sono questioni che andrebbero affrontate e vorrei che se ne parlasse di più in ambito anarchico. Ma l’appiattimento di Mueller sul dogma marxista non rappresenta un progresso. Il fatto che la concentrazione sia possibile non significa che è inevitabile. Gli anarchici di mercato dedicano molta attenzione ai diversi meccanismi che erodono questa tendenza all’accumulazione, così come ai vari modi in cui lo stato soffoca le forze contrarie a tutto vantaggio del capitale.
Ma Mueller non ha completamente torto. Una sua buona proposta è: “I lavoratori creativi potrebbero allinearsi con altri nella catena produttiva, ma come classe e non individualmente, e dare vita ad organizzazioni simili ai sindacati, che sono stati il veicolo della politica di classe.”
Da un lato trascura il potenziale fluido, decentrato, del lavoro digitale, ma dall’altro lato credo che dia ampio spazio ad una critica dell’“artigianato digitale” che utilizza strumenti elettronici con un impatto fortemente negativo nei paesi in cui vengono prodotti o smaltiti. L’hacker anarchico, che produce materiale crittografato o costruisce un drone per filmare la polizia, riflette mai su quei lavoratori che producono l’hardware che rende possibile la tecnologia su cui lavora? Lavoratori che il più delle volte lavorano in condizioni schifose con sostanze tossiche per l’uomo e per l’ambiente. Queste questioni hanno la loro importanza.
Ma anche qui l’analisi della proprietà intellettuale fatta dal proudhonismo digitale si fa sentire! La produzione del moderno hardware elettronico non tiene conto dello smaltimento, non è facile da aggiornare e neanche da riciclare. In assenza di tecnologie modulari ampliabili, siamo costretti a lavorare con quello che ci passano. Questo perché le leggi sulla proprietà intellettuale rendono illegale la modifica degli strumenti tecnologici e impediscono la nascita di nuove industrie che fabbrichino prodotti più sostenibili. Non si può semplicemente ignorare l’impatto di queste dinamiche sul modo in cui le società strutturano le proprie economie.
Altro punto in cui Mueller dimostra superficialità è l’affermazione farlocca secondo cui “questa è una rivoluzione silenziosa, senza scioperi e senza scontri con i capitalisti.” Carson, che è un anarchico, ha scritto moltissimo sull’attuale lotta contro lo stato e il capitale. Ha anche prodotto un’incredibile summa del pensiero di molti teorici su un futuro di conflitti in rete.[2] Certo non dice tutto, e il futurismo è un’arte e non una scienza. Ma spiega bene perché forze decentrate e connesse tra loro potrebbero sfidare forze molto meglio equipaggiate e strutturate gerarchicamente. Certo sarebbe meglio evitare il conflitto diretto, ma è ridicolo dire che non ne riconosce l’eventualità.
Io credo che le soluzioni di Mueller non siano un miglioramento. Dire che occorre un “controllo democratico” del lavoro digitale è una bella banalità, ma come si traduce in pratica? I problemi gestionali che vediamo in piattaforme come YouTube e Twitter non sono il risultato di una carenza di democrazia, ma delle dimensioni. L’idea di social “democratici” nazionalizzati mi ispira ancora meno fiducia dei monopoli privati. E poi cosa significa controllo democratico dei mezzi di produzione culturale? Serve un controllo democratico su strumenti produttivi come GIMP o Audacity, che gli utenti possono modificare a piacere? Anche i film di Hollywood pieni di effetti speciali (tanto per citare un esempio di industria in cui la socializzazione potrebbe apparire appropriata) si affidano perlopiù al lavoro manuale per creare gli effetti, mentre gli strumenti veri e propri sono relativamente economici.[3] Cosa significa socializzare gli strumenti di lavoro quando gran parte dei costi riguarda il talento personale e non gli strumenti? Dal punto di vista del proudhonismo digitale, la risposta è: libero accesso agli strumenti, rendere il software open-source, lasciare che i singoli si organizzino come meglio credono. Quei processi che richiedono un’enorme potenza di calcolo potrebbero essere fatti da supercomputer affittati o da computer che lavorano in concerto. La soluzione proposta da Mueller, “sindacati e partiti politici”, non solo è vaga, ma ignora ciò che persone fantasiose hanno già ottenuto con l’azione diretta utilizzando software open-source o piratato, ovvero appropriandosi dei mezzi di produzione. Forse certi partiti e istituzioni potrebbero servire ad aprire porte che i singoli non possono aprire, ma è meglio attenersi idealmente al possibile. Imporre una soluzione ottocentesca nel ventunesimo secolo crea ogni genere di complicazioni.
Mueller, però, arriva ad accusare il proudhonismo digitale di essere un burattino e lo paragona al vero fascismo, colpevole per associazione. In un passo assurdo dice:
Proudhon e il suo credo si adattano naturalmente alle ideologie dominanti che circondano Bitcoin e altre criptovalute, secondo cui i problemi economici derivano da complotti, guidati dai governi nazionali e organizzazioni come la Federal Reserve, mirati a manipolare il corso forzoso. Alla luce di recenti analisi, secondo cui Bitcoin, più che un mezzo di scambio, è più una formazione socio-tecnica a cui aderisce una serie di fedi economiche sbagliate di destra, e considerata la recente rivelazione secondo cui gruppi fascisti usano Bitcoin e altre criptovalute per finanziare le proprie attività, è chiaro che il proudhonismo digitale si trova perfettamente a suo agio con le ideologie più rivoluzionarie. Storicamente, avveniva lo stesso con l’opera del vero Proudhon. Spiega Zeev Sternhell come l’organizzazione politica francese del primo novecento, Cercle Proudhon, fosse attirata dall’antimarxismo di Proudhon, dalla sua sfiducia nella democrazia e dal suo antisemitismo. Secondo Sternhell, l’organizzazione fu la base culturale del protofascismo francese.
Queste teorie sgaruppate me le aspetterei da InfoWars o Breibart, non da un accademico marxista che scrive in una fottuta rivista scientifica. Prima cosa, è assurdo dire che proudhonisti digitali di sinistra come Mason, Carson e Doctorow sono perfettamente “a loro agio” con le idee più reazionarie. Mason e Carson hanno scritto molto sulle strategie per combattere la rinascita reazionaria in occidente. Quanto a Doctorow, che da tempo lotta contro la “guerra all’informatica multiuso”, è un vecchio sostenitore della liberazione delle tecnologie di uso generale. Se questo significa stare a proprio agio con il fascismo, mi chiedo cosa intende Mueller per posizione aggressiva.
E poi Proudhon non era un fanatico del sistema aureo, e in fatto di valute era molto più vicino a David Graeber che a qualunque libertario (la moneta nasce dal debito e non da beni scarsi con valore intrinseco). I più fedeli alla tradizione proudhoniana, molti dei quali scrivono su C4SS, non accettano acriticamente Bitcoin. Da quando è esplosa la rivoluzione tecnologica, C4SS pubblica commenti di vario orientamento su Bitcoin e le criptovalute in generale. Una posizione ufficiale non c’è, semplicemente si riconosce la necessità di avere la possibilità di scegliere.
Questi i problemi di Bitcoin secondo Carson:
Ma molto più importante della sua sicurezza e dell’invisibilità allo stato è… il ruolo funzionale di Bitcoin come riserva di valore e nel simulare valore intrinseco. Se nessuna delle due parti in una transazione possiede Bitcoin… non esiste la fonte di liquidità per lo scambio di servizi. … È quindi poco adatto allo scopo primario di una moneta alternativa: fornire liquidità per gli scambi in un’economia locale che necessità di trasformare i loro servizi in potere d’acquisto quando a causa della stagnazione “non c’è denaro”.[4]
Oppure si veda William Gillis a proposito dell’attuale approccio alle criptovalute:
L’obiettivo implicito della Grande Moneta Unica è una altrettanto assurda Grande Unione. Nessuna valuta piatta globale soddisferebbe i requisiti di fiducia, reputazione e altro richiesti dalla realtà umana sottostante; l’instabilità sarebbe sempre in agguato. La questione resta anche introducendo monete in concorrenza parallela tra loro secondo il sogno di uno standard universale.
Credo che un sistema di scambio che valorizzi la reputazione non possa che tendere verso un modello federativo rizomatico in cui ogni comunità, collettivo o associazione usa la sua “valuta” dinamicamente riconfigurabile, con protocolli che negoziano fluidamente la rete in maniera da adattarsi alle transazioni individuali garantendo un’informazione più diretta riguardo la fiducia e la reputazione.
È difficile trovare un’analisi delle criptovalute di questo genere tra i libertari volgari che orbitano attorno all’alterdestra. La loro opinione è che qualunque risorsa scarsa, come l’oro o le criptovalute, diventa naturalmente moneta.
Teoricamente e empiricamente, tutto ciò è falso! Come spiega Graeber in dettaglio, il credito precede la moneta, si basa sulla fiducia ed è quindi fortemente soggettivo. Quanto ai metalli rari, Chris Shaw spiega come le cosiddette valute universali, come l’oro, non siano il risultato di una convergenza generale verso una soluzione unica, ma siano state imposte tramite lo stato che controllava il metallo e gli attribuiva valore con le tasse. Imporre una moneta con la tassazione significa distruggere quello che dovrebbe essere un ecosistema naturale basato sulla fiducia per mettere al suo posto una costruzione rigida, statica, che non solo serve il potere ma fallisce miseramente.
Alla moderna critica marxista del capitalismo manca questa analisi dell’intersezione tra fiducia e controllo e del suo impatto sul funzionamento della moneta. Dicendo che i mercati tendono a priori verso la concentrazione a causa della concorrenza, i marxisti semplificano le dinamiche al punto da ignorare non solo problematiche monetarie, ma anche le altre forze entropiche in grado di opporsi a tale concentrazione come la questione della fiducia, il flusso delle informazioni, le barriere all’ingresso, problemi coordinativi, assenza di sistemi extramercato in grado di soddisfare i bisogni e altro. Ironicamente, la riduzione marxista del mercato alle dinamiche descritte in Das Kapital limita l’analisi radicale così come l’economia neoclassica, dando per scontata la forte razionalità degli attori, ignora le conseguenze ambientali. Trascurando le dinamiche che in ambito economico potrebbero contrastare la tendenza alla concentrazione attraverso grandi e sempre più costose istituzioni, il marxismo è epistemicamente cieco davanti a tutta una serie di dinamiche essenziali all’elaborazione teorica di economie non capitalistiche.
Ma proprio di queste dinamiche bisogna parlare! Spero che l’anno prossimo vedano la luce Fully Automated Luxury Communism di Aaron Bastani e The People’s Republic of Wal-Mart di Leigh Phillips e Michal Rozworki. Entrambi illustrano la possibilità di economie socialiste non di mercato e spiegano come potrebbero funzionare. Phillips e Rozworki in particolare esaminano la questione del calcolo economico usando il software gestionale di Wal-Mart e Amazon (la cui dimensione economica supera quella dell’Unione Sovietica al suo massimo). Ci sono buone ragioni per credere che queste teorie sui meccanismi della distribuzione non resteranno nell’ambito accademico e in editoriali giacobini, ma potrebbero influire sulla politica dei partiti di sinistra occidentali. È il caso del guardasigilli ombra John McDonnell, che assieme al partito laburista inglese ha organizzato una serie di conferenze sulle nuove idee economiche per il ventunesimo secolo. Oltre a conferenzieri di ambito socialdemocratico come Joseph Stiglitz, Yanis Varoufakis e Mariana Mazzucato, c’erano anche radicali come Paul Mason e Nick Srnicek, sostenitori del superamento del capitalismo. Ci sono poi forti ragioni per credere che queste idee si faranno strada tra gli intellettuali di sinistra al centro di altri partiti o movimenti. Così come l’emergente destra reazionaria ha creato un “antiglobalismo globalista” con persone e idee che viaggiano globalmente, qualcosa di simile lo vediamo a sinistra, sia dall’alto tramite intellettuali e politici che dal basso con dibattiti e discussioni (e ovviamente meme) sui social media.
Data la forte probabilità che queste teorie arrivino a formare la base di una politica di sinistra, il Center for a Stateless Society e la sua analisi radicale dell’azione collettiva dovrebbero rientrare nel discorso. Penso anch’io che il capitalismo sia come l’Urss (vedi Realismo Capitalista di Mark Fisher e Bullshit Jobs di David Graeber), ma non mi va che il dibattito ponga come alternative Jeff Bezos, Jeff Bezos eletto democraticamente e una politica economica fatta nelle urne. I problemi dell’azione collettiva sono intrinsechi a qualunque società complessa, ma ritirarsi in una gestione tecnocratica (o affidata agli algoritmi) o un assemblearismo continuo non è certo ciò che cerco.
Ma ben vengano anche queste analisi. Posso dissentire sulla direzione voluta da qualcuno, ma si può ricavare qualcosa di valido analizzando il software gestionale di aziende come Amazon o Wal-Mart e discutendone il possibile utilizzo per la soluzione di problemi relativi all’azione collettiva. Sono decenni che purtroppo a sinistra non si parla più di futurismo tecnologico e ottimistico, e io vorrei che si riprendesse il discorso.
Spero anche che questo serva a trascinare i marxisti nel ventunesimo secolo. Potrebbe servire a comprendere le possibilità offerte dalla tecnologia ma anche le fratture ideologiche che vediamo comparire. Mettere assieme mercato e capitalismo ha prodotto secoli di confusioni che ancora inducono in errore molti marxisti. I cosiddetti proudhonisti digitali stanno cominciando ad ovviare a questi errori, o li hanno risolti. Resta da vedere se anche gli accademici marxisti riescono a fare lo stesso.
Note:
1. Kevin Carson, Homebrew Industrial Revolution; spiega come le cosiddette “economie di scala” furono promosse da un massiccio intervento statale.
2. Vedi il capitolo 3 di The Desktop Regulatory State, Networks vs. Hierarchies: The End Game, e Tirate Fuori i Droni!
3. Il costo principale degli effetti speciali nei film di Hollywood è dato dal lavoro umano e dall’elaborazione computerizzata. Un esempio: il film della Pixar del 2013, Monster University, ha usato per il rendering un centro dati di 2.000 computer, compreso uno dei 25 più potenti al mondo. Ogni fotogramma ha richiesto 29 ore (!). Da: Special Effects Aren’t Cheap: The Cost of CGI, Misk, Dan Martens.
4. Kevin Carson, The Desktop Regulatory State, pagina 194.