Dalla costa marocchina, nove migranti guardano al di là del Mediterraneo, verso la Spagna. C’è la possibilità di guadagnarsi la libertà, di ritagliarsi una esistenza decente. Sono scappati dalla Siria, il Sudan, lo Yemen, la Libia e da altri paesi in Medio Oriente e Nordafrica. Povertà, guerra, terrore, oppressione e perdita di tutti gli averi è tutto quello che si aspettano dal loro paese natio.
Sono scappati di notte, hanno rischiato la cattura, le torture, la morte. Hanno sottostato alla brutalità di una vasta rete di trafficanti, si sono nascosti rannicchiati, hanno viaggiato a lungo, in silenzio, pagando somme incredibili. Hanno cercato riparo sotto le palme, hanno camminato sulle dune, dormito pochissimo. Stanchi, doloranti, affamati, eppure vivi, ora sono lì, sulla costa.
Ecco. L’ultimo passo di un viaggio lunghissimo. Ma il vecchio Mediterraneo è pericoloso.
Correnti imprevedibili, grandi onde, grandi squali bianchi e altri ostacoli si frappongono tra i rifugiati e l’Europa. Hanno sentito le storie. Sanno che migliaia sono affogati in queste otto miglia di viaggio. Ma proprio come quelle migliaia, anche loro rischieranno il loro ultimo respiro per cercare di attraversare il mare con le famiglie. La libertà vale l’ultimo respiro.
Salgono su zattere improvvisate e partono al largo. Nervosi, eppure fiduciosi, pagaiano al largo. All’inizio tutto bene, ma nella scarpata continentale le calme acque costiere diventano presto agitate. Troppo in là per tornare indietro. Troppo pericoloso andare avanti. Chiedono aiuto con la radio. Mentre il cuore batte, e la gente urla, e i piccoli piangono, il telefono squilla: li prende la guardia costiera spagnola. I militari sentono solo urla di panico, il frastuono delle onde. Intanto arriva un’altra richiesta di soccorso.
La zattera si sfascia sotto il vento forte e le onde alte, e i rifugiati sono dispersi in mare. La guardia costiera li localizza: salvi tutti e nove. Vengono portati in ospedale, soffrono di ipotermia, ma stavolta sono salvi.
Storie come questa compaiono raramente quando si discute della guerra. Le milleottocento persone morte quest’anno durante la traversata sono vittime della guerra. Sono sopravvissute all’orribile regime di Isis e alle armi chimiche di Bashar al-Assad. Sono sopravvissute agli infiniti attacchi dei droni, che continuano ad annientare scuole, vicinati, matrimoni, funerali. Sono sopravvissuti alla furia del militarismo degli stati nazione occidentali, alle guerre civili e all’instabilità politica. Anche se sono morti in mare, sono morti cercando scampo dal potere e dal dominio.
Sono morti cercando scampo dallo stato.
La guerra è la funzione principale dello stato. È impossibile trovare a livello di comunità le risorse necessarie a costruire la macchina da guerra e portare avanti campagne belliche globali. La guerra moderna esiste perché esiste l’apparato militare, e l’apparato militare non può esistere senza l’organizzazione dello stato.
Essendo la guerra la funzione principale dello stato, la sua attenzione si concentra sulle risorse e sul territorio, e non per far crescere i mercati ma per alimentare il potere. Guerra significa distruzione degli averi, della libertà e, insomma, della vita. Gli stati possono solo distruggere, mai creare. Gli stati sono i grandi agenti della repressione.
Mentre sentiamo di persone che rischiano la pelle alla ricerca di una vita migliore, lontano dai paesi dilaniati dalla guerra, ricordiamoci che quest’ultima è un fenomeno globale proprio dello stato. La responsabilità della guerra è dello stato.
Serve umiltà per servire gli altri. Per vivere in pace occorre opporsi all’apparato militare e al bisogno della guerra. Se vogliamo opporci, liberarci dalla guerra, non possiamo non eliminare anche lo stato. Un’organizzazione pacifica della società vuole che i mercati, le cooperative, le istituzioni e le federazioni stiano fuori dal controllo dello stato.
Non possiamo aspettarci la fine della guerra se prima non realizziamo una forte società senza stato, una società in cui ognuno sia libero di perseguire i propri interessi e sviluppare le proprie capacità per il vantaggio proprio e della società.