Il “No” scaturito dalle urne al referendum che chiedeva agli scozzesi “volete che la Scozia sia un paese indipendente?” è una vittoria di Pirro per il Regno Unito.
Con il suo 44,7%, il “Sì” rimette in discussione un consenso che durava da trecento anni. La devoluzione di una fetta sostanziale del potere politico alla Scozia è già una concessione. Questo quasi pareggio è più problematico per un sistema politico, come quello inglese, che si sforza di mantenere la sua legittimità, che per un sistema nuovo che cerca di affermarsi. Le preoccupazioni della vigilia rimangono intatte.
Con l’onere della prova a loro carico, chi giustificava l’esistenza degli stati sulla base di un presunto contratto sociale esce dall’ombra dei discorsi vacui e delle quasi dimenticate nozioni di educazione civica. Il culmine lo ha raggiunto il ministro degli esteri spagnolo José Manuel García Margallo, che ha contrastato le teorie indipendentiste dei catalani dicendo: “Ogni singolo spagnolo è proprietario di ogni singolo centimetro quadrato di questo paese.” Per sostenere la legittimità dell’unione anglo-scozzese è stato più volte ricordato l’accordo firmato con il parlamento scozzese tre secoli fa, facendo notare così come raramente i moderni territori politici siano unicamente il frutto di una conquista militare.
Molto dell’impeto dietro il “sì” veniva dal desiderio di liberare la Scozia dalle armi atomiche. Questo non risolveva il problema pratico di come operare una difesa militare convenzionale, ma ovviava in gran parte la solita domanda: “e la difesa?” Gli unionisti, poi, sono arrivati ad agitare l’immagine di una Scozia tramutata in una nuova Svizzera, come se questa fosse una brutta cosa.
Una parte molto più grande dei commenti è stata dedicata al problema dell’incertezza economica in caso di indipendenza. Critici come Paul Krugman hanno sostenuto validamente che, siccome l’economia scozzese attualmente dipende dal sistema finanziario globale con tutta la sua instabilità, l’indipendenza politica avrebbe ridotto le sue possibilità di assorbire i danni provocati da crisi economiche più ampie, verso le quali sarebbe rimasta vulnerabile.
La questione ha diviso l’élite economica, con la British Petroleum (BP) prevedibilmente dalla parte del “no” mentre i settori più globali erano a favore del “sì”. Il grosso delle terre scozzesi, intanto, resta nelle mani di una élite: il 50% è di proprietà di 432 famiglie appena. Le singole proprietà immobiliari stanno già passando dalle mani delle vecchie famiglie aristocratiche a quelle di un gruppetto di speculatori globali.
Con il calo dei proventi di petrolio e gas, l’economia scozzese è stata colpita particolarmente dalla deindustrializzazione. Ma man mano che la tecnologia post-industriale diventa la norma, una base economica diversa diventa sempre più percorribile. I servizi chiave possono essere liberati dalle costrizioni geografiche; il referendum ha ricevuto gran parte dell’impeto dal fatto che la Scozia avrebbe avuto una scelta limitatissima tra il Regno Unito e l’Unione Europea. Ma una concorrenza piena tra valute, per dirne una, non dovrebbe limitarsi all’alternativa tra l’euro e la sterlina. E un decentramento portato al livello dei singoli clan tradizionali non sarebbe più un ricordo romantico, ma una realtà di tutti i giorni.
Il sole sta tramontando sull’impero.