Attorno alla metà di luglio il segretario del Tesoro americano Jack Lew, citando il bisogno di un “nuovo senso di patriottismo economico”, ha proposto che il Congresso vieti alle compagnie con sede negli Stati Uniti di trasferirsi all’estero verso ambienti fiscali più favorevoli.
L’uso teatrale della parola “patriottismo” è l’aspetto notevole della proposta di legge, i cui effetti retroattivi violano sfacciatamente il divieto costituzionale di leggi ex post facto.
Sotto il velo dell’interesse comune fornito dalla legittimazione ideologica del “patriottismo” che lega il governo, la grande industria e la popolazione, esiste, ed è sempre esistita, un’alleanza simbiotica tra stato e aziende, con il primo nel ruolo di parassita. Lo stato offre alle aziende favori come la protezione dalle responsabilità, normative che tengono lontani eventuali concorrenze, e leggi sul lavoro che impediscono ai lavoratori di insistere su salari più alti. In cambio le aziende – come dice Nathan Thurm, la personificazione satirica del lobbista impersonata da Martin Short, quando è costretto a difendere gli aiuti che i suoi clienti ricevono dal governo – “rendono un bel po’ di quel denaro al mittente.”
La funzione cruciale di un’azienda consiste nel raccogliere proventi per lo stato passando silenziosamente il carico fiscale ai consumatori tramite quelle che sono “tasse” di fatto nascoste nei prezzi, che perciò sono più alti di quanto non sarebbero in un regime di libero mercato. È così che le tasse imposte alle grandi aziende, e che inizialmente favoriscono Washington, alla fin dei conti sono pagate con soldi che vengono dalle tasche mie e vostre.
La simbiosi stato-aziende è così stretta che è difficile anche solo capire quali membri dell’élite fanno parte di quale delle due entità e quando. Charles Wilson (“Ciò che è bene per il paese è bene per la General Motors e viceversa”) passò da dirigere la General Motors ad attaccare il sistema autostradale come Segretario della Difesa. Il presunto scandalistico Jack Lew è esso stesso un esempio perfetto di quel fenomeno chiamato dei vasi comunicanti, essendo la sua carriera una carambola tra vari dipartimenti governativi e Citigroup, comprese (ehm) le sussidiarie delle Isole Bermuda, le Isole Caimano e Hong Kong.
È vero, l’alleanza stato-aziende è stata esasperata dall’insieme di politiche economiche neoliberal. Ma la “globalizzazione” che ne è seguita richiede un’eliminazione dei confini statali molto selettiva; soltanto quando conviene agli interessi corporativi. Il superstato americano e i suoi “partner commerciali” internazionali sono più che intenzionati ad ignorare i confini quando le grandi aziende traggono benefici dal trasporto di merci dai centri di produzione con manodopera a basso costo ai centri di smercio ad alto profitto. Ma quello stesso stato e quegli stessi partner consideranosacri i confini quando si tratta di intercettare i proventi delle tasse che pagano tutti i benefici da cui dipende l’esistenza delle loro aziende simbiotiche.
Per questo il tentativo corporativo di evitare le tasse merita poca simpatia, perché significa scaricare sul pubblico il conto dei benefici che le grandi aziende continuano a ricevere dallo stato. La risposta appropriata non sta nel raddoppiare gli sforzi di una nazione in sfacelo per tassarli, ma nel rifiuto da parte del pubblico di lasciarsi imbambolare facendo da sostegno “patriottico” allo stato corporativo.
Come dimostra l’esempio di Wilson, l’influenza corporativa fa sì che anche servizi apparentemente neutri come le strade siano dirottati, prima, nella direzione del profitto aziendale, e solo dopo verso il bene pubblico. Questo significa che per finanziare i servizi pubblici non serve “patriottismo economico” ma una coerente libertà di mercato e di scambio.
Nota: Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Thomas L. Knapp.