Di Kevin Carson. Originale: John Tamny Hits the Trifecta of False Talking Points, del 24 gennaio 2024. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
John Tamny è vice presidente di FreedomWorks e direttore del Center for Economic Freedom, sempre di FreedomWorks. Scrivendo su Real Clear Markets, Tamny è riuscito a centrare tre argomenti falsi con un solo articolo. Come forse sapete, FreedomWorks è una creatura di Dick Armey, uno sbalorditivo imbroglione che (assieme a quei due disastri totali che sono Jack Abramoff e Tom DeLay) voleva trasformare le isole Marianne in un paradiso fiscale dello sfruttamento di lavoratori immigrati da assumere con contratto vincolante. Armey si dimise da FreedomWorks nel 2012, convinto che l’allora presidente Matt Kibbe fosse più imbroglione di quel che era; ma a FreedomWorks la sua idea di trasformare gli Stati Uniti in un’altra Saipan è ancora viva.
Gli errori di Tamny ruotano attorno a un dogma della destra libertaria secondo cui l’accumulazione di capitale crea posti di lavoro. In realtà, dove il lavoro viene eliminato più rapidamente abbonda solo la ricchezza. Basta un piccola riflessione. Il capitale viene investito in quelle attività, individuali o societarie, che puntano a svilupparsi nel senso di produrre sempre più merci e servizi con sempre meno attività umana.
Contrariamente a quello che pensa Tamny, investire significa affidare un capitale a quelle attività che promettono un profitto. E spessissimo nell’attuale economia capitalista monopolistica il profitto è rappresentato da rendite economiche (ovvero da un reddito immeritato superiore al profitto che avrebbe incentivato la produzione di una determinata merce o servizio in un mercato competitivo, reddito che deriva da una posizione o da un privilegio piuttosto che dalla produzione di qualcosa). Il profitto deriva in gran parte non da un modo migliore di produrre qualcosa, o dalla produzione in sé, ma dall’esazione di un tributo per un “servizio” particolare: non aver impedito agli altri di produrre.
Il capitalismo per sua natura impedisce sempre l’innovazione quando gli torna utile; già ai tempi della macchina a vapore, le sue innovazioni furono bloccate dal fatto che Watt deteneva il brevetto. Oggi che l’economia capitalista è dominata dal capitale finanziario e dai mercati oligopolistici, questa tendenza si rafforza. Le tre principali case automobilistiche di Detroit, ad esempio, si sono opposte in concerto ai dispositivi antinquinamento finché tutte e tre non avevano la possibilità di montarli. Paul Goodman riassume così questo sistema oligopolistico: “Tre o quattro imprese che controllano il mercato dell’auto, competono tra loro a prezzi concordati e impediscono i miglioramenti.”
Tamny continua sulla stessa traccia…
Ricordate: i posti di lavoro non compaiono per magia, ma sono una logica conseguenza degli investimenti…
Sviluppiamo il discorso. Se l’intelligenza artificiale distruggerà ogni genere di impiego (300 milioni di posti, secondo una stima citata dal New York Times), le aziende più interessate all’affare faranno incetta di investimenti. Questa non è una rivelazione ma un dato ovvio. I principali beneficiari del capitale sono le aziende che producono molto di più con molto meno…
Applicando il principio a Austin, non occorre molto per capire che la capitale del Texas è più interessata alla prossima rivoluzione dell’intelligenza artificiale rispetto a Huntsville. Questo significa che Austin riceverà molti più capitali, e il fatto implicitamente genera più posti di lavoro.
…E termina dicendo: “…[D]ove c’è produttività c’è anche un’infinità di opportunità, dove la produttività scarseggia scarseggiano anche le opportunità.”
Dov’è che Tamny sbaglia? In tre punti:
1) Gli investimenti non creano lavoro. Gran parte degli investimenti finisce necessariamente in attività non produttive perché un insieme costituito dalla cronica tendenza del capitalismo alla capacità inutilizzata, capitale in eccesso e salari stagnanti significa che non c’è abbastanza domanda aggregata da mantenere a regime anche solo gli impianti esistenti. Per questo nella generazione passata una fetta sempre più grande degli investimenti si è riversata sui mercati finanziari, assicurativi e immobiliari, alimentando bolle e rendite e privando le attività produttive di capitali privati. 500 miliardi di dollari di capitali sono finiti in titoli di stato a rendimento nominale, in quella che è una sorta di operazione di soccorso per quei capitali in eccesso che non trovano sbocchi produttivi altrove.
L’aumento della produttività prodotto dalle innovazioni tecniche non fa che inasprire il problema del capitale in eccesso. Douglas Rushkoff, in “How the Tech Boom Terminated California’s Economy,” sostiene che l’alta produttività frutto della tecnologia avanzata acutizza il problema del capitale inutilizzato perché riduce la spesa necessaria a svolgere una determinata funzione.
2) Chi trae beneficio dalla crescita della produttività dipende da chi possiede tale aumento della produttività. In un’economia in cui la produzione è diretta dai lavoratori e la tecnologia è open-source, l’aumento della produttività si traduce in orari di lavoro ridotti per i lavoratori e prezzi più bassi per i consumatori. In un’economia a proprietà assenteista e gestione gerarchica, dove il potere contrattuale del lavoratore è tagliato artificialmente e le tecnologie sono proprietà esclusiva dell’azienda, accade l’opposto: l’aumento della produttività si traduce in meno lavoratori che lavorano più freneticamente, mentre il risparmio nei costi è dirottato verso maggiori dividendi e maggiori compensi per gli amministratori.
3) Il punto non è il “lavoro”. Adam Smith dice che la produzione ha come fine unico il consumo. Le innovazioni tecniche dovrebbero avere come fine non di “creare nuovi posti”, ma di ridurre il carico di lavoro necessario ad ottenere un livello di vita decente per tutti. L’obiettivo non dev’essere una spirale infinita fatta di crescita e nuovi posti di lavoro, ma una riduzione dell’orario di lavoro a reddito costante o crescente; beni e servizi costerebbero sempre meno e il nesso tra lavoro e consumo si assottiglierebbe fino a spezzarsi.
Questo è ancora più vero quando l’innovazione è perlopiù frutto dell’intelletto collettivo, mentre grandi aziende e miliardari sono in grado di appropriarsi dei frutti dell’accresciuta produttività solo grazie alla proprietà intellettuale e ad un sistema finanziario che dànno loro il monopolio, creato dallo stato, sugli investimenti e il credito.
Può parlare quanto vuole di produttività, nuovi posti di lavoro e benefici, ma Tamny resta quello che suggerisce la sua carica a FreedomWorks: un difensore del tecnofeudalesimo.