Di Kevin Carson. Articolo originale pubblicato il 26 aprile 2016 con il titolo Capitalism Comes in Many Flavors? Traduzione di Enrico Sanna.
In un recente commento pubblicato sul Washington Post dal titolo La crisi d’identità del capitalismo americano (26 maggio 2016), Steven Pearlstein fa una tassonomia del capitalismo che, a suo dire, “esiste in tante varianti, come il gelato. Varianti combinabili, così come si combina il caffè col latte per fare il cappuccino.”
Pearlstein esagera le differenze tra le varianti. La prima, il capitalismo dei baroni ladri, è caratterizzata dall’enorme potere economico delle grandi aziende. Segue il capitalismo manageriale del New Deal e del secondo dopoguerra, in cui “la concorrenza è generalmente attenuata e il potere delle grandi aziende limitato dal governo federale (governo forte) e i sindacati.”
Il “capitalismo di stato” giapponese e delle socialdemocrazie europee, poi, è una variante estrema del capitalismo manageriale americano.
Dopo la stagnazione e il declino, al capitalismo manageriale sono succeduti nell’ultimo trentennio tre modelli competitivi: il “capitalsmo imprenditoriale” della Silicon Valley, il “capitalismo degli azionisti” di Gordon Gekko e il “capitalismo dei lavoratori” caratterizzato dalla condivisione degli utili, proprio di attività di proprietà dei dipendenti.
Secondo lo schema di Pearlstein, la differenza principale tra il capitalismo dei baroni ladri e quello manageriale sta nel fatto che nel secondo cresce il potere di arginamento dello stato e dei sindacati, opposto al relativo “laissez faire” ottocentesco; come viene chiamato, in modo poco convincente, il capitalismo dei baroni ladri. Perché il capitalismo dell’Età Dorata era praticamente una creatura dello stato caratterizzata da concessioni terriere e sostegni statali alle compagnie ferroviarie, prerequisito di un mercato nazionale unico, mentre le aziende di dimensioni nazionali erano cartellizzate tra i giganti dell’industria grazie ai brevetti e i dazi.
Alla maniera di J. K. Galbraith, le relazioni tra grandi aziende, stato e sindacati, più che da pesi e contrappesi, erano caratterizzate da collusioni o favori reciproci. All’origine del New Deal di Roosevelt c’era più la General Electric di Gerard Swope e le industrie che rappresentava che il sindacato CIO di John L. Lewis. Il capitalismo manageriale non era tanto il risultato di restrizioni imposte dall’esterno, quanto il riconoscimento, da parte della grande industria, del fatto che nel lungo termine la garanzia di profitti stabili passava per l’imposizione dei cartelli ad opera dello stato e il disciplinamento dei lavoratori ad opera di sindacati addomesticati.
Quanto al cosiddetto “capitalismo degli azionisti”, non è che capitalismo manageriale del tipo teorizzato da Adolf Berle e Gardiner Means, autori dell’autorevole libro del 1932 The Modern Corporation and Private Property. La proprietà, e soprattutto il controllo, da parte degli azionisti è, detto chiaramente, un mito. L’idea, esposta da persone come Michael Jensen una trentina d’anni fa, era che una politica fatta di generosi bonus e stock option avrebbe “allineato gli interessi degli amministratori” con quelli degli azionisti, i quali avrebbero potuto punire gli amministratori inefficienti con una scalata ostile.
Nella pratica, rispetto al capitalismo manageriale, il “capitalismo degli azionisti” non fa che premiare in modo ancora più osceno gli interessi di brevissimo termine degli amministratori. Il tanto vantato “mercato del controllo aziendale”, se mai è esistito, fu più che altro un fenomeno iniziale, conseguenza dell’introduzione delle scalate ostili. Gli amministratori (inevitabilmente, dato che controllano da dentro le norme dell’azienda) finirono per imbrogliare le regole al fine di proteggersi dalla minaccia di scalate ostili. Da allora, gran parte delle scalate è amichevole: atti collusivi tra amministratori di aziende acquirenti e acquisite, spesso a scapito del profitto di entrambe. Le lotte per procura tra amministratori interni falliscono quasi sempre. Gran parte dei nuovi investimenti sono finanziati internamente con utili non distribuiti piuttosto che con l’emissione di obbligazioni.
In breve, nell’ottica aziendalistica le grandi imprese sono solitamente economie pianificate gestite da un’oligarchia manageriale che si autoalimenta. Bonus e diritti d’opzione esagerati non fanno che rafforzare la miopia e l’egoismo dei manager a discapito della produttività di lungo termine.
Il capitalismo degli azionisti dipende dallo stato tanto quanto il vecchio modello manageriale. Il suo trionfo negli anni Novanta ha richiesto una crescita enorme del regime giuridico neoliberale ad opera dell’amministrazione Clinton. Il NAFTA, l’Uruguay Round dell’accordo GATT, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, il TRIPS (sugli aspetti commerciali della proprietà intellettuale), il trattato sul copyright WIPO (Organizzazione Mondiale della Proprietà Intellettuale), le leggi sulle telecomunicazioni e la Digital Millennium Copyright Act messe assieme formano l’ossatura del capitalismo transnazionale attualmente prevalente.
Il “capitalismo imprenditoriale”, con una riverniciata, è ciò che passa per alternativa “progressista” all’attuale capitalismo neoliberale. È il “capitalismo cognitivo” o “capitalismo verde” di Barack Obama, Warren Buffett, Bill Gates e Bono, promosso dalla “nuova teoria della crescita” di John Roemer. Un capitalismo che è tanto sfruttatore, tanto “capitalistico”, nel senso che per i profitti dipende dai monopoli garantiti dallo stato, quanto il neoliberalismo. In effetti è solo una variante beota, tinta di verde, del neoliberalismo.
Questo capitalismo, cognitivo, verde o progressista che sia, dipende in tutto dallo stato per l’accaparramento delle innovazioni tramite le leggi sulla “proprietà intellettuale”, che così diventano una fonte di rendita sulla scarsità artificiale. I suoi fautori sono grandi tifosi degli aiuti statali a ricerca e sviluppo. Forse non è un caso se tra i suoi principali portavoce troviamo falchi della proprietà intellettuale come Bill Gates (che accusa il movimento free open source di essere “comunista”) e Bono (che vede nella censura cinese di internet un esempio che gli Stati Uniti dovrebbero seguire per eliminare la “pirateria”).
Il paragone fatto da Pearlstein tra le varianti e i gelati è però più appropriato di quanto non pensi. I gusti dei gelati, pur virtualmente infiniti, hanno tutti qualcosa in comune. Alla base c’è sempre latte o crema ghiacciata e zuccherata con l’aggiunta di un particolare aroma.
Anche le varianti del capitalismo di cui parla hanno qualcosa in comune. Lungi dall’essere il frutto spontaneo del libero mercato, sono tutte il prodotto di una gigantesca collusione tra gli apparati centrali dello stato e le grandi aziende.
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