Di Kelly Wright. Titolo originale: When Facebook Bans Peaceful Anarchists But Not The Violent State, pubblicato il 22 agosto 2020. Traduzione di Enrico Sanna.
“Lo stato chiama legge la sua violenza e crimine quella del singolo.” ~ Max Stirner
Il 19 agosto scorso Facebook, cedendo a forti pressioni sociali e politiche, ha annunciato le nuove regole riguardanti “organizzazioni e persone violente”, con particolare attenzione per “gruppi anarchici offline che sostengono la protesta violenta, organizzazioni paramilitari con base negli Usa (tra cui apparentemente gli antifascisti) e QAnon.” Queste drastiche regole fanno seguito ad una campagna durata mesi orchestrata da politici allarmisti statunitensi che accusano “sobillatori esterni” e “anarchici professionisti” di aver istigato le recenti rivolte contro la violenza della polizia.
Il giorno dell’annuncio, gli autori di questo articolo oltre a due colleghi del Center for a Stateless Society hanno subito la sospensione a tempo indefinito degli account. Noi quattro gestivamo una pagina Facebook, chiamata “Leftists for Self Defense and Firearm Freedom”, che sosteneva il diritto al possesso delle armi secondo un’ottica di sinistra. Facebook ha rimosso la pagina e sospeso i nostri account il giorno stesso dell’annuncio della nuova politica. Nessuno di noi ha ricevuto da Facebook comunicazioni riguardanti le ragioni, così che le cause si possono solo supporre.
“Leftists for Self Defense and Firearm Freedom” nacque il 5 novembre 2013 per evidenziare questioni riguardanti il controllo delle armi solitamente trascurate nel discorso politico generale. Le leggi sul possesso delle armi sono applicate dal sistema penale statunitense con i preconcetti e le iniquità strutturali del caso. Così che per effetto di queste leggi gli afroamericani hanno molte più probabilità di finire in galera. Anche quelle proposte solitamente definite “sensate”, come i controlli sui precedenti e le liste nere che limitano l’accesso alle armi, colpiscono soprattutto gli emarginati. Scrive Dean Spade, sostenitore dell’abolizione del carcere: “Quando si parla di violenza armata ignorando la violenza di stato, si finisce spesso per fare proposte che marginalizzano e criminalizzano ulteriormente le persone di colore, i poveri, i disabili, gli immigrati e i giovani.”
Questioni ignorate nel dibattito pubblico sul controllo delle armi. Da un lato vediamo commentatori di centrosinistra che si dicono preoccupati per gli emarginati ma vogliono il controllo delle armi. Dall’altro lato, commentatori di destra che sostengono sì il diritto di possedere armi, ma anche certe forme di violenza di stato che minano tale diritto e il diritto all’autodifesa, come nel caso della guerra alla droga. In quest’ultimo caso, ogni incursione senza mandato diventa un’invasione dello spazio privato che rischia di trasformare una persona armata che difende la propria casa in una vittima o in un imputato di assassinio. Ne è un esempio il caso di Matthew David Stewart, un veterano che soffriva di disturbi post traumatici che rispose con le armi ad un’incursione all’alba dell’antidroga. La polizia era alla ricerca della marijuana che Stewart coltivava per uso medico. Polizia e accusa infangarono Matthew e cercarono di condannarlo per assassinio aggravato. Morì in carcere prima della sentenza, apparentemente suicida. Morì semplicemente per due piantine di marijuana e per aver difeso la sua casa. In un mondo in cui accadono queste cose, il diritto alle armi e all’autodifesa è incerto.
I primi tempi cercavamo di evidenziare quei casi in cui l’autodifesa poteva essere garantita senza armi da fuoco. Chiedevamo il rilascio di CeCe McDonald, una donna transessuale di colore finita in carcere per essersi difesa da un crimine d’odio. Appoggiavamo anche l’operato del Michigan Women’s Justice and Clemency Project, che chiedeva la scarcerazione delle donne arrestate per essersi difese da un compagno violento. Tutti questi esempi dimostrano come rafforzare lo stato carcerario sia spesso in forte contrasto con l’obiettivo femminista di liberare le donne dalla violenza diffusa.
Abbiamo cominciato a pubblicare con rinnovata urgenza sulla scia dell’assassinio da parte della polizia di Philando Castile, l’uomo del Minnesota ucciso davanti alla fidanzata e la figlia per un’arma che portava legalmente. Castile aveva frequentato il corso obbligatorio. Ma, data la sua pelle scura, la legge vedeva le cose in modo diverso, e l’agente Jeronimo Yanez gli ha sparato diverse volte pochi secondi dopo l’incontro. In un caso esemplare di violenza di stato, quell’istituzione suprematista che è la polizia statunitense ha pensato di far fuori sommariamente una persona che esercitava il suo diritto all’autodifesa armata. Il silenzio assordante della destra pro-armi fu un fatto offensivo, e tale rimane, soprattutto dopo l’irruzione senza mandato che ha portato alla morte di Breonna Taylor e la denuncia (poi lasciata cadere) del suo ragazzo per aver sparato in risposta agli agenti in borghese mascherati che avevano fatto irruzione in casa e ucciso la sua ragazza.
Come amministratori della pagina, ci limitavamo a condividere qualche meme e articoli che parlavano del John Brown Gun Club o dei Redneck Revolt. Ricordavamo le persecuzioni razziste contro le Pantere Nere ad opera di chi voleva il controllo delle armi sotto Reagan. Spiegavamo anche come persone importanti del pensiero di sinistra sostenessero il diritto alle armi in quanto necessario alla liberazione della classe lavoratrice. Lo stesso Marx diceva: “Armi e munizioni non dovrebbero mai essere consegnate per nessuna ragione; ogni tentativo di disarmare i lavoratori deve essere impedito, se necessario con la forza.”
Tanto è bastato per cancellare la pagina e disattivare i nostri account a tempo indefinito, senza preavviso e senza aver ricevuto comunicazione della violazione dei termini di servizio. E non siamo stati gli unici. Vittime della polizia dei contenuti sono stati anche gruppi antifascisti come ItsGoingDown e CrimethInc.
https://twitter.com/IGD_News/status/1296210507259576324
Facebook ha però avuto l’accortezza egoista di codificare esenzioni alla norma per quanto riguarda la violenza di stato, con scappatoie che si traducono in comode eccezioni per le istituzioni e i loro rappresentanti: “…persone e gruppi non-statali rientranti nella definizione di persone o organizzazioni pericolose saranno eliminati dalla nostra piattaforma.”
Questi sarebbero i segni che indicano un pericolo inaccettabile secondo Facebook:
• Parlare delle origini razziste del controllo delle armi
• Sostenere che minoranze emarginate come donne transessuali o persone di colore debbano armarsi per difendersi dal fascismo che avanza
• Supportare la lotta per la liberazione delle donne ingiustamente incarcerate dallo stato carcerario
• Sostenere il diritto di armarsi dei neri
Mentre questi altri non sono un pericolo, sempre secondo Facebook:
• Arruolare militari sfruttando lo stato di povertà delle persone per poi inviarle a diffondere violenza e brutalità nel mondo
• Polizia di frontiera che si vanta di aver distrutto aiuti umanitari, come l’acqua, per i migranti che attraversano il deserto
• Dipartimenti di polizia che istigano alla violenza contro i manifestanti che esercitano il loro diritto di esprimersi liberamente
https://twitter.com/anarchakelly/status/1296418835709464577
Queste nuove regole rappresentano un oltraggioso inasprimento dello sforzo concertato rivolto a togliere dalla piattaforma, a distruggere le attività decentrate che lottano contro l’autoritarismo. Mettere assieme gruppi di sinistra che sostengono il diritto alle armi con complottisti di estrema destra come QAnon o bande neonaziste violente come i Proud Boys è un atto chiaramente dubbio. Le nuove politiche di Facebook rivelano il fallimento morale di questo “bipartisanismo”. Trattare alla stessa stregua i suprematisti bianchi e i loro oppositori è, nel migliore dei casi, una distorsione del discorso pubblico e, nel peggiore, un modo efficace per mantenere immutato l’attuale suprematismo bianco.
Mentre i sostenitori di sinistra del diritto alle armi venivano banditi da Facebook nel nome della lotta alla disinformazione di QAnon e delle squadracce di destra, il presidente degli Stati Uniti nella sala stampa della Casa Bianca celebrava le virtù di QAnon. Ma la cosa peggiore è forse che il presidente può continuare ad usare liberamente Facebook per sostenere le peggiori violenze di stato come il rimpatrio forzato, il carcere, le bombe.
Questo cambiamento delle regole sui contenuti fa presagire un futuro in cui i giganti dei social saranno costretti a fare da moderatori delle loro mostruose piattaforme. Un futuro reso più probabile dal Congresso che da qualche tempo cerca di minare l’articolo 230 della legge del 1996 sulla moralità nelle comunicazioni che esenta editori come Facebook da responsabilità riguardo il contenuto prodotto dai suoi utenti. Forse le aziende saranno spinte, per ragioni di cautela, ad omettere voci importanti dal discorso pubblico. È improbabile che le organizzazioni antifasciste bandite da Facebook ricevano la stessa attenzione che riceve un commentatore “cancellato” dai palinsesti televisivi o dalle colonne dei giornali per le sue opinioni. La richiesta di maggiori controlli sulla parola porta inevitabilmente al bavaglio per chi ha meno risorse, è vulnerabile o è scomodo.
Ad un primo sguardo, parrebbe che Facebook stia prendendo di mira soltanto i gruppi affiliati con QAnon. In realtà, sta facendo molto di più. Anche anarchici, antidittatoriali, antifascisti e antirazzisti rischiano il bando improvviso senza preavviso e senza spiegazioni. Facebook giustifica il bando dicendo di voler fermare la “violenza”, lasciando però che i sostenitori della violenza di stato usino la piattaforma liberamente.
Mark Zuckerberg cita Max Stirner: “Lo stato chiama legge la sua violenza e crimine quella del singolo”. Ma mentre Stirner condanna lo stato e sta con il singolo, Zuckerberg ne ribalta il senso condannando il singolo e schierandosi con lo stato. Qualunque sia la politica sui contenuti che Facebook sta escogitando, non dobbiamo permettere che questi mostri dei social ci distolgano dal proposito di denunciare la violenza di stato per quello che è.
Possono nascondere la violenza di stato solo finché noi glielo permettiamo.
Sono loro ad essere sulla difensiva.