Di Sheldon Richman. Originale pubblicato il 3 febbraio 2011 su The American Conservative. Ripubblicato su Center for a Stateless Society il 6 gennaio 2013 con il titolo Libertarian Left: Free Market Anti-Capitalism, The Unknown Ideal. Traduzione di Enrico Sanna.
La campagna presidenziale di Ron Paul del 2008 ha popolarizzato il termine “libertario”. Visto che lui è repubblicano e i repubblicani, come i libertari, parlano di libero mercato e impresa privata, molti pensano che i libertari siano un prodotto bizzarro della destra americana. In realtà, molte delle posizioni libertarie mal si adattano ai conservatori tradizionali; cose come la depenalizzazione totale delle droghe, matrimonio omosessuale, critica della sicurezza nazionale allontanano gran parte della destra.
Ma il cuore del libertarismo ben si adatta alla destra politica. Le odi ai diritti di proprietà e alla libera impresa (la convinzione dei libertari tradizionali che il sistema capitalista americano, nonostante gli interventi statali, in fondo rappresenti quei valori) sembrano avallare la conclusione.
Ma poi si leggono cose come: “Il capitalismo, in quanto società basata sulle classi, sorta sulle ceneri della società classista medievale, si basa su un enorme furto corrispondente al furto di terre del precedente feudalesimo. Questo furto finora è stato sostenuto dall’intervento dello stato, che protegge il suo sistema di privilegi, e senza il quale la sua sopravvivenza sarebbe impossibile.” E poi questa: “Alimentare la solidarietà tra lavoratori. Nel senso di organizzazioni formali, compresi i sindacati; ma non secondo il modello prevalente di ‘sindacato aziendale’… bensì sindacati veri, del vecchio tipo, che fanno gli interessi della classe lavoratrice e non solo degli iscritti, che cercano l’autonomia del lavoratore, non il patrocinio dello stato.”
Questi passaggi (il primo dello studioso indipendente Kevin Carson, il secondo del docente dell’Università di Auburn Roderick Long) non sembrano scritti da un libertario ma da esponenti dell’estrema sinistra, se non da marxisti. Vero a metà: a scrivere sono due libertari di sinistra fautori del libero mercato (il termine più adatto sarebbe “mercato liberato,” coniato da William Gillis).
Questi autori, e con loro una schiera crescente di colleghi, si considerano sia libertari che di sinistra. Sono libertari tradizionali perché credono nella legittimità morale della proprietà privata e del libero scambio e si oppongono a qualsiasi interferenza dello stato in questioni personali ed economiche: una dicotomia pericolosa e infondata. Ma sono anche di sinistra perché condividono gli ideali della sinistra tradizionale, in fatto di sfruttamento e disuguaglianza ad esempio, ampiamente ignorate, se non respinte, dagli altri libertari. Un libertario di sinistra preferisce la solidarietà ai boss, sta dalla parte di chi occupa la proprietà statale o abbandonata, vuole l’abolizione dei privilegi corporativi prima che siano imposte norme restrittive su come quei privilegi possono essere messi in pratica. Vede in Walmart un simbolo dei favoritismi corporativi, tenuto in piedi da sovvenzioni ai trasporti stradali ed espropri per pubblica utilità, vede con sospetto lo status di persona legale delle società a responsabilità limitata, e dubita che le fabbriche dello sfruttamento del Terzo Mondo rappresentino la “miglior scelta” in assenza di manipolazioni dello stato.
Un libertario di sinistra tende ad evitare la politica elettorale perché ha poca fiducia nelle strategie che passano dallo stato. Preferisce sviluppare istituzioni alternative o aggirare lo stato. La Alliance of the Libertarian Left incoraggia la nascita di organizzazioni di mutuo soccorso e dell’attivismo locale, il suo sito promuove gruppi associati e pubblica articoli che elaborano sulla sua filosofia. Poi c’è Center for a Stateless Society (C4SS) che invita i libertari di sinistra a diffondere le proprie analisi degli avvenimenti correnti scrivendo editoriali.
Questi libertari di sinistra laissez-faire non devono essere confusi con altri come Noam Chomsky o Hillel Steiner, che, ognuno a modo suo, contestano l’appropriazione individuale delle risorse naturali senza proprietà e la disuguaglianza economica che i mercati liberati possono produrre. I libertari di sinistra qui trattati sono definiti anche “libertari di sinistra orientati al mercato” o “anarchici di mercato”, anche se non tutti sono anarchici.
Esistono ragioni storiche che pongono a sinistra i libertari di libero mercato. Nella prima metà del 19º secolo, Frédéric Bastiat, economista liberale sostenitore del laissez-faire, sedeva nell’ala sinistra dell’Assemblea Nazionale francese, assieme ad altri estremisti che si opponevano all’ancien régime, tra cui vari socialisti. A destra sedevano i reazionari che difendevano la monarchia assoluta e la plutocrazia. Per molto tempo il termine “di sinistra” ha indicato una persona dagli ideali radicali, se non rivoluzionari, contraria all’autoritarismo politico, spinta dalla speranza e dall’ottimismo, mentre essere “di destra” ha significato approvare la situazione contingente fatta di privilegi o volere il ritorno ad un ordine autoritario. Le definizioni valevano anche negli Stati Uniti fino ai primi decenni del 20º secolo, e cominciarono a cambiare durante il New Deal, che portò a deprecabili alleanze di comodo sfociate nella Guerra Fredda e tutto il resto.
Detto in parole spicce, il moderno libertarismo di mercato ha due origini: le teorie sull’economia politica formulate da Murray N. Rothbard e la corrente filosofica nota come “Mutualismo” associata all’anarchico di mercato Pierre Joseph Proudhon (che, con Bastiat, sedeva sulla sinistra dell’assemblea, pur disputando incessantemente con lui di teorie economiche) e all’anarchico individualista Benjamin R. Tucker.
Rothbard (1926-1995) è il maggior teorico del libertarismo radicale ispirato a Locke e combinato con la scuola economica austriaca, secondo cui il libero mercato produce benessere diffuso, cooperazione sociale e coordinazione economica senza creare monopoli, depressioni o inflazione, mali originati dall’intervento dello stato. Rothbard, che si definiva “anarco-capitalista”, si considerava prima di tutto uno della “vecchia destra”, quell’insieme variegato di oppositori del New Deal e dell’imperialismo americano rappresentato dal senatore Robert Taft, il giornalista John T. Flynn e, in posizioni più estreme, Albert Jay Nock. Ma il pensiero di Rothbard affondava le radici anche nel libertarismo di sinistra.
Nel suo classico radicale “Left and Right: The Prospects for Liberty”, pubblicato nel 1965, Rothbard pone il “liberalismo”, oggi chiamato libertarismo, a sinistra, definendolo “il partito della speranza, dell’estremismo, della libertà, della rivoluzione industriale, del progresso, dell’umanità”. L’altra grande ideologia emersa dopo la rivoluzione francese “era il conservatorismo, il partito della reazione, il partito che aspirava a restaurare le gerarchie, lo statalismo, la teocrazia, la servitù e lo sfruttamento di classe del vecchio ordinamento.”
Quando la sinistra insorse negli anni Sessanta contro la guerra in Vietnam, il complesso industrial-militare e il centralismo burocratico, Rothbard fece subito causa comune. “La sinistra ha subito un enorme cambiamento, ed è compito di chiunque sia interessato all’ideologia capire questo cambiamento… [C]ambiamento significa una forte e splendida infusione di libertarismo nei ranghi della sinistra”, scriveva in “Liberty and the New Left”. Il suo estremismo di sinistra voleva la decentralizzazione e la democrazia partecipativa, le riforme agrarie a favore dei contadini nel Terzo Mondo, il “potere nero” e il diritto dei lavoratori di impossessarsi della proprietà delle aziende americane che lucravano grazie ad accordi con lo stato.
Con l’indebolimento della Nuova Sinistra, Rothbard sfumò le sue posizioni e migrò strategicamente verso la destra paleoconservatrice. Il testimone passò al suo compagno della sinistra libertaria, l’ex autore dei discorsi di Goldwater Karl Hess (1923-1994). Scrive Hess in Dear America: “All’estrema destra, legge e ordine significano la legge di chi comanda e l’ordine che serve i suoi interessi, che solitamente è l’ordine dei lavoratori inquadrati, degli studenti obbedienti, dei vecchi costretti all’obbedienza con la paura, indottrinati e addestrati ad obbedire”, mentre la sinistra “è quella parte della politica e dell’economia che si oppone alla concentrazione della ricchezza e del dominio, che sostiene e lotta per la diffusione del potere nel numero più grande di persone.”
Benjamin Tucker (1854-1939) fu direttore di Liberty, principale pubblicazione anarchica individualistica americana. Mutualista, Tucker approvava il libero mercato e lo scambio volontario senza privilegi e regole governative. Riferendosi alle filosofie economiche dei sostenitori del libero commercio Richard Cobden e John Bright, si definiva “un coerente manchesteriano”. Disprezzava chi difendeva lo stato attuale dell’America, chi, pur sostenendo la libera concorrenza tra lavoratori per il posto di lavoro, approvava l’eliminazione della concorrenza tra datori tramite i cosiddetti “quattro monopoli” dello stato: terre, dazi, brevetti e moneta.
“Qual’è la causa della diseguale distribuzione della ricchezza?” si chiede Tucker nel 1892. “Non è la concorrenza, ma il monopolio che priva il lavoro del suo prodotto. … Distruggete il monopolio bancario, istituite la libertà finanziaria, e l’influsso benevolo della concorrenza abbatterà l’interesse sul denaro. Il capitale verrebbe liberato, l’economia fiorirebbe, nascerebbero nuove imprese, ci sarebbe richiesta di lavoro, e col tempo i salari salirebbero al livello del valore prodotto.”
Mutualisti e rothbardiani sono in disaccordo sul possesso della terra e la teoria del valore, ma per il resto questa impollinazione incrociata avvicina filosoficamente le due parti. Ciò che li unisce, e ciò che li distingue dagli altri libertari di mercato, è il fatto di condividere le stesse preoccupazioni della sinistra tradizionale, comprese le conseguenze del potere corporativo plutocratico sui lavoratori e sulle classi più deboli. Ma i libertari di sinistra si differenziano dal resto della sinistra in quanto identificano le colpe nell’alleanza storica tra stato e imprese (chiamata stato corporativo, capitalismo di stato o puro e semplice capitalismo) e vedono la soluzione in una radicale politica di laissez-faire, con la separazione completa tra economia e stato.
Ecco quindi che dietro le filosofie politico-economiche c’è una diversa visione della storia che pone da una parte la sinistra tradizionale e dall’altra i libertari. Le versioni più diffuse di queste due posizioni filosofiche concordano nel ritenere che un mercato fondamentalmente libero sia esistito in Inghilterra ai tempi della rivoluzione industriale, pur arrivando a considerazioni diversissime riguardo gli esiti. Al contrario, i libertari di sinistra, facendo revisionismo storico, insistono nel ritenere questa epoca di relativo laissez-faire un mito. L’Inghilterra non visse una profonda liberazione economica, ma il soggiogamento del sistema sociale a tutto beneficio degli interessi delle classi dominanti (l’analisi di classe nasce con gli economisti di libero mercato francesi prima di Marx).
Le recinzioni dei terreni, o enclosures, privarono i contadini di quelle terre che loro e i loro simili avevano lavorato per generazioni, trasformandoli in lavoratori salariati alle dipendenze delle nuove attività, dove i loro diritti di organizzarsi e addirittura di muoversi subirono restrizioni ad opera delle leggi sui poveri, sul diritto di associazione ed altro. Nelle colonie americane e ai primordi della repubblica, il sistema fu similmente corrotto da concessioni terriere e speculazioni (a favore e da parte delle ferrovie, per esempio), restrizione del diritto di voto, dazi, brevetti e controllo del denaro e del credito.
In altre parole, quando il feudalesimo sfumò ed emerse il capitalismo non esisteva alcuna eguaglianza; tutt’altro. Come il sociologo di mercato Franz Oppenheimer, che sviluppò la teoria della conquista dello stato, scrive ne Lo Stato, non fu il talento, l’ambizione, la frugalità, e neanche il caso, a dividere la minoranza possidente dalla maggioranza proletaria nullatenente, ma, come dice Bastiat, la razzia legalizzata.
Qui Marx aveva ragione. Kevin Carson concorda con le sue “parole eloquenti”: “questi uomini appena liberati diventarono venditori di se stessi solo dopo essere stati derubati di tutti i mezzi di produzione e delle garanzie offerte loro dal vecchio sistema feudale. Questa storia, la storia del loro esproprio, è scritta negli annali dell’umanità con lettere di sangue e fuoco.”
Questo sistema di privilegi e sfruttamento ha generato effetti perversi di lunga durata che ancora oggi colpiscono gran parte della popolazione e vanno a beneficio delle élite di potere; è quello che Carson definisce “la sovvenzione storica”. Non voglio dire che lo stile di vita non è generalmente migliorato nelle economie miste orientate al mercato, ma solo far notare come in un mercato liberato le disparità di ricchezza sarebbero meno pronunciate e lo stile di vita del lavoratore medio ancora più alto. E meno indebitato.
L’“anticapitalismo di libero mercato” dei libertari di sinistra non rappresenta una contraddizione, né è uno sviluppo recente. Permea il tuckeriano Liberty. Il riconoscimento dello sfruttamento del lavoratore risale almeno a Thomas Hodgskin (1787-1869), radicale sostenitore del libero mercato che fu tra i primi ad usare il termine “capitalista” per indicare spregiativamente chi godeva dei favori che lo stato elargiva al capitale a spese del lavoro. Tra il 19º secolo e l’inizio del 20º, “socialismo” non significava esclusivamente proprietà collettiva o statale dei mezzi di produzione, ma era un termine generico usato per indicare chiunque credesse che il lavoratore, nel capitalismo storico, fosse defraudato del suo prodotto naturale.
Tucker si definiva socialista, ma poi denunciava Marx come rappresentante del “principio di autorità alla cui lotta dedichiamo la nostra vita.” Considerava Proudhon un teorico superiore a Marx, il vero propugnatore della libertà. “Marx vorrebbe nazionalizzare le forze di produzione e distribuzione; Proudhon le vorrebbe individualizzate e associate tra loro.”
Il termine capitalismo indica una realtà in cui il capitale è privilegiato rispetto al lavoro. Scrive il libertario di sinistra Gary Chartier, de La Sierra University: “Per [un libertario di sinistra] ha senso chiamare ‘capitalismo’ ciò a cui si oppone. Così facendo… evita di confondere i sostenitori della libertà con quelli per cui mercato significa mantenere in piedi le attuali ingiustizie, ed esprime solidarietà a favore non solo di chi difende i mercati liberati e i lavoratori, ma anche di quelle persone che in tutto il mondo usano la parola ‘capitalismo’ come sinonimo del sistema-mondo che tarpa le loro ali e mortifica la loro esistenza.”
Al contrario dei libertari non di sinistra, che sembrano disinteressati, se non ostili, alle questioni dei lavoratori, i libertari di sinistra simpatizzano con la lotta dei lavoratori per migliorare le proprie condizioni (Bastiat e Tucker erano a favore delle associazioni di lavoratori). Ma nutrono poche simpatie per i sindacati burocratici omologati dallo stato, che rappresentano poco più di ciò che è rimasto dopo la soppressione dei movimenti spontanei e autogestiti di mutuo supporto che, con la simpatia “non autorizzata” per gli scioperi e i boicottaggi, caratterizzavano l’epoca precedente il New Deal. Proprio per questo prima della Wagner Act, approvata con il New Deal, grossi rappresentanti del mondo aziendale come Gerard Swope della General Electric volevano la regolamentazione del lavoro.
I libertari di sinistra tendono inoltre a considerare sfavorevolmente il lavoro salariato e la gerarchia aziendale, spesso autoritaria, a cui è soggetto. Oggi il lavoratore è impedito da un insieme di regolamenti, tasse, leggi sulla proprietà intellettuale e sovvenzioni che servono a impedire l’ingresso a potenziali alternativi datori di lavoro e ai lavoratori autonomi. A ciò si aggiungono le periodiche crisi economiche innescate dal debito pubblico nonché dal modo in cui la banca centrale e le banche ordinarie gestiscono il denaro, che minacciano di lasciare i lavoratori senza lavoro e li pongono ancora più alla mercé dei capi.
La nascita di cartelli per evitare la concorrenza indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori, dando l’opportunità ai datori di privarli di una parte dello stipendio che altrimenti riceverebbero in un ambito economico veramente liberato, in cui i datori devono competere tra loro per ingaggiare i lavoratori, e non il contrario, e il lavoro autonomo, in cui non esistono licenziamenti, offrirebbe una via d’uscita dal lavoro salariato. Il lavoro autonomo avrebbe i suoi rischi, ovviamente, e non sarebbe adatto a tutti, ma potrebbe attirare più persone se lo stato non rendesse il costo della vita, di una decente sussistenza, artificialmente alto in tanti modi: dai regolamenti edilizi ai vincoli territoriali agli standard produttivi, i trasporti sovvenzionati, la sanità pubblica.
Per un libertario di sinistra, un mercato liberato porterebbe al calo del lavoro salariato e una crescita degli autonomi, delle cooperative, delle associazioni e delle ditte individuali. Oggi tutto ciò è più che mai possibile grazie all’accessibilità dell’informatica, internet e le macchine utensili a basso costo. Nel mercato liberato no esiste la socializzazione dei costi tramite i trasporti sovvenzionati, che favoriscono il commercio nazionale a discapito di quello regionale e locale. Uno spirito di indipendenza potrebbe spingere verso queste alternative anche perché lavoro dipendente significa in un certo senso essere soggetti al volere altrui e alla spada di Damocle del licenziamento. Spinto dalla concorrenza del lavoro autonomo, quel poco lavoro salariato che resterebbe sarebbe confinato in aziende meno gerarchizzate, con rapporti più umani, senza favoritismi politici, impossibilitate a socializzare le diseconomie di scala come fanno le imprese attuali.
Attingendo al lavoro degli storici della Nuova Sinistra, i libertari di sinistra si discostano dall’opinione di conservatori e libertari tradizionali secondo cui le norme economiche dell’Era Progressista e del New Deal furono imposte dai socialdemocratici ad una riluttante comunità affaristica amante della libertà. Al contrario, come spiegano Gabriel Kolko e altri, furono le élite aziendali (come la House of Morgan) a chiedere l’intervento dello stato quando, alla fine del 19º secolo, capirono che la concorrenza era troppo sregolata per garantire quote di mercato.
I libertari di sinistra non vedono nel periodo posteriore alla guerra civile americana l’epoca d’oro del laissez-faire, ma un’escrescenza della guerra fortemente corrotta e dominata dalle aziende, caratterizzata dai soliti contratti per le forniture militari e la speculazione sui titoli di stato. Come in tutte le guerre, lo stato guadagnò potere e gli affaristi guadagnarono, a spese dei contribuenti, fortune che garantirono loro un ingiusto vantaggio in quello che viene considerato il libero mercato dell’Età Aurea. “La guerra è la salvezza dello stato,” scriveva l’intellettuale di sinistra Randolph Bourne. Compresa la guerra civile.
Queste contrastanti visioni storiche sono ben illustrate dagli scritti della filocapitalista Ayn Rand (1905-1982) e di Roy A. Childs Jr. (1949-1992), editore e autore libertario marcatamente di sinistra. Nel 1960 la Rand scrisse un saggio dal titolo eloquente: “America’s Persecuted Minority: Big Business” (La Minoranza Perseguitata d’America: La Grande Impresa, ndt), a cui Childs rispose con: “Big Business and the Rise of American Statism” (La Grande Impresa e l’ascesa dello Statalismo Americano, ndt). Scrive Childs: “Erano e sono tuttora soprattutto i grossi affaristi la fonte miracolosa dello statalismo americano.”
La differenza tra libertari di sinistra e altri libertari di mercato può essere espressa così: i secondi vedono nell’economia americana un mercato essenzialmente libero sottilmente incrostato di interventismo progressista e New Deal, rimosso il quale tornerà la libertà. I primi ci vedono invece un’economia corporativa fino al midollo, pur con qualche limitata libera concorrenza. Lo stato sociale è considerato un supporto secondario, inteso ad evitare un pericoloso scontento sociale venendo in soccorso (e tenendo a bada) le vittime sistema.
Gran parte dei contrasti tra libertari di sinistra e non avvengono quando i secondi mostrano quello che Carson chiama “libertarismo volgare” e Roderick Long “eclettismo di destra”, ovvero la tendenza a giudicare le imprese americane che operano nell’attuale ambiente statalistico come se operassero in un mercato liberato. Pur ammettendo che le grandi imprese godono di privilegi monopolistici, i libertari non di sinistra le difendono quando sono attaccate dalla sinistra sostenendo che se non servissero i consumatori verrebbero punite dal mercato concorrenziale. “I libertari volgari in difesa del capitalismo usano il termine ‘libero mercato’ ambiguamente,” scrive Carson. “Ora difendono il capitalismo esistente e ora i principi del libero mercato.”
Elementi di questo eclettismo di destra sono evidenti nel modo in cui i libertari tradizionali si difendono dalle critiche della sinistra riguardo le disparità di reddito, la struttura corporativa dell’America, le alte quotazioni del petrolio o il sistema sanitario. Ma se un libero mercato non esiste, perché difendersi? Dire che il sistema europeo occidentale è meglio di quello americano li fa uscire di testa. Scrive Carson: “Se dici di essere libertario, non cercare di imbrogliare gli altri dicendo che l’America è meno statalista della Germania perché ci sono meno sfaccendati assistiti con abiti firmati. … Certo, dovendo scegliere a parità di statalismo, sceglierei quello che pesa meno sulle mie spalle.”
Fedeli alla tradizione, i libertari di sinistra stanno anche dalla parte di altre categorie oppresse: i poveri, le donne, le persone di colore, i gay, gli immigrati con o senza documenti. Un libertario di sinistra vede nei poveri non pigri opportunisti, ma vittime della miriade di barriere imposte dallo stato all’autosufficienza, al mutuo aiuto e ad un’istruzione dignitosa. Ovviamente sono contro lo stato che opprime le donne e le minoranze, ma anche contro forme di oppressione sociale come il razzismo e il sessismo. E, trattandosi di oppressione non violenta, anche l’opposizione è condotta in modo non violento e senza servirsi dello stato. Le discriminazioni razziali o di genere, ad esempio, vengono combattute con il boicottaggio, la pubblicità o le manifestazioni, non con la violenza o le leggi antidiscriminazione. Per un libertario, il modo migliore per combattere la segregazione nelle tavole calde un tempo attuata negli stati del sud sarebbe stato il pacifico sit-in, non le leggi approvate a Washington, che semplicemente ratificavano l’azione diretta senza il supporto delle élite bianche.
Perché ai libertari di sinistra, in quanto libertari, importa così tanto l’oppressione nonviolenta extrastatuale? Perché premessa del discorso libertario è la dignità e l’autonomia dell’individuo, principi morali negati dal sessismo e dal razzismo. La gerarchizzazione collettiva in tutte le sue forme urta il pensiero libertario e le possibilità di una società libera.
In poche parole, i libertari di sinistra sono per l’eguaglianza. Non quella materiale, che può essere ottenuta solo con l’oppressione e il soffocamento delle idee. Né l’eguaglianza sotto la legge, perché la legge può essere oppressiva. E neanche l’eguaglianza nella libertà, perché poca libertà uguale per tutti è intollerabile. Piuttosto è quella che Roderick Long, ispirandosi a John Locke, chiama eguaglianza nell’autorità: “Un’eguaglianza ispirata al pensiero di Locke significa non solo eguaglianza davanti ai legislatori, i giudici e le forze di polizia, ma anche, cosa più importante, eguaglianza tra i legislatori, i giudici e le forze di polizia e tutti gli altri.”
Come tutti i libertari, infine, i libertari di sinistra sono contro la guerra e l’imperialismo americano. La loro è un’analisi essenzialmente economica dell’imperialismo: le imprese privilegiate vogliono accedere alle risorse e ai mercati esteri in cui scaricare le produzioni in eccesso, nonché imporre la proprietà intellettuale nelle società industriali emergenti per impedire che i produttori esteri abbassino i prezzi con la concorrenza (ovviamente ci sono anche fattori politici dietro l’imperialismo).
Oggi i libertari di sinistra si sentono vendicati. La conflittualità americana ha invischiato il paese in una serie di guerre palesi e occulte, che costano sangue e denaro, in paesi ricchi di risorse in Medio Oriente e Asia Centrale. Torture, detenzioni a tempo indefinito, a cui si aggiunge il controllo delle libertà civili in patria. E continua l’alleanza storica Washington-Wall Street, in cui le pazzie fatte coi soldi altrui, alimentate da garanzie, salvataggi e liquidità della Federal Reserve mascherate da deregolamentazione, hanno prodotto un’altra crisi finanziaria a carico dell’americano medio, con un aumento dell’insicurezza del lavoro e una maggiore influenza di Wall Street.
Questa scelleratezza ci avvicina al giorno in cui la gente scoprirà l’alternativa dei libertari di sinistra. È un’aspettativa realistica? Forse. Molti americani sentono che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel loro paese. Sentono che le loro vite sono controllate dalle grandi aziende e da burocrazie aziendali che bruciano le loro ricchezze e li trattano come sottoposti. Allo stesso tempo, però, sono tiepidi con le socialdemocrazie di tipo europeo, e freddi con il socialismo di stato. Il libertarismo di sinistra potrebbe essere ciò che cercano. Scrive il mutualista Carson: “Vista la nostra simpatia per il libero mercato, capita che i mutualisti se la prendano con chi mostra affinità estetica con il collettivismo, o con chi pensa che ‘piccola borghesia’ sia una parolaccia. Ma sono proprio le nostre tendenze piccolo borghesi a metterci nel solco della principale tradizione populista/radicale americana, a guidare il nostro interesse verso i bisogni del lavoratore medio americano.”
Secondo Carson, la gente comune “si sta stancando delle organizzazioni burocratiche che controllano la comunità e la vita dei lavoratori, vuole più voce sulle decisioni che li riguardano. La gente è disponibile ad alternative che siano decentrate e dal basso.” Speriamo che abbia ragione.