Ho saputo del terribile attacco agli impiegati di Charlie Hebdo da mia madre. Guardava i sottotitoli in televisione, telefono in mano, e cercava di mettersi in contatto con mio padre, che in quel momento era in viaggio in Europa. Ho sentito un’ondata di panico; è scomparsa la sensazione di essere completamente estraneo agli eventi.
Mio padre stava bene. Lo stesso non può dirsi dei poveri diavoli che quel giorno hanno perso la vita. E, come sempre, ecco arrivare i soliti commentatori da poltrona dei social media a dire la loro sull’evento. “Je suis Charlie” è diventato subito un simbolo della solidarietà tra sostenitori della libertà di parola, ma quando gli assalti “vendicativi” contro la comunità musulmana francese si sono intensificati, ecco che accanto a chi manifestava per la libertà di parola è comparso il lato oscuro spesso ignorato.
Certo la libertà di parola, per un anarchico di mercato, non prevede l’intervento dello stato a censurare eventuali dichiarazioni offensive o polemiche; anche quando ci sono minacce credibili. Ma c’è un numero preoccupante di libertari e liberali che allo stesso tempo lotta per questo genere di libertà di parola e chiude gli occhi su questa “satira” probabilmente razzista. C’è chi rifiuta nettamente quest’accusa di razzismo. Ma anche chi l’accetta cerca spesso di giustificarsi con argomenti sintomatici di un libertarismo dogmatico. Una vignetta incendiaria che raffigura stereotipi razziali, o qualunque altro atteggiamento che mira ad offendere, è vista come qualcosa di necessario ad allargare i confini della libertà di parola. Questo è sintomatico di un altro fenomeno: la provocazione intesa come liberale o libertaria.
Se Scott Sayre su The Atlantic fa notare che Hebdo spesso prende di mira il razzismo dell’estrema destra, Jordan Weissmann su Slate concentra l’attenzione sul fatto che il giornale si serve di immagini razziste “in un paese in cui i musulmani sono una minoranza povera e oppressa, perseguitata da uno stato sempre più nazionalista che usa valori liberali come il secolarismo e la libertà di parola per coprire una volgare xenofobia.” Lo stato francese inasprisce l’ostilità con misure come il divieto di coprire la faccia e il divieto di indossare simboli religiosi nelle scuole pubbliche.
La natura autodistruttiva e contorta di questi atteggiamenti si rivela da sola. A parte l’impressione che molti dei suoi proponenti stiano cercando di giustificare a posteriori il loro desiderio di angariare qualcuno, è come se la libertà di stampa si sparasse ad un piede. Il “si può dire” non implica il “si deve dire”. Scott Alexander spiega il danno causato a qualunque movimento da queste tattiche choc citando la campagna di Peta (un’associazione di animalisti, es) volta a promuovere il veganismo: “Peta si è fatta conoscere ma ad un prezzo. Tutti parlano di Peta, che grossomodo equivale a dire che tutti parlano del trattamento etico degli animali, il che è una sorta di vittoria. Ma la maggior parte delle discussioni è del tipo ‘sono odiosi, mi fanno andare in bestia’. E c’è chi arriva a ‘adesso mangio ancora più carne così gli animalisti diventano furiosi’.”
I sostenitori della libertà di parola e di Charlie Hebdo si fanno notare, ma la reazione delle persone ragionevoli è simile alla reazione ricevuta dagli animalisti: “Li odio, mi fanno incavolare.” Ad esacerbare il contrasto il fatto che questi sostenitori dogmatici della libertà di parola accusano chi li critica di essere finti. Criticateli e sarete accusati di essere “contro la libertà di parola” o “giustificatori degli assassini di Hebdo”. Queste evidenti falsità sono facili e infantili. Questo genere di sostegno alla libertà di parola danneggia la coscienza della stessa libertà di parola, e getta benzina sul fuoco dell’atteggiamento islamofobico largamente prevalente in Francia. Non è compito dello stato censurare Charlie Hebdo, ma il nostro atteggiamento come individui dev’essere comunque di condanna.
Je ne suis pas Charlie.