Di Trevor Hauge. Originale: Anti-Zionism Isn’t Enough, del 4 dicembre 2023. Tradotto da Enrico Sanna.
Contro il nazionalismo in tutte le sue forme.
In questo clima politico cinico e disonesto, ogni critica del sionismo viene tacciata di antisemitismo dai media moderati e di destra. La deputata statunitense Ilhan Omar, che più volte ha chiesto scusa e ha precisato la portata delle sue dichiarazioni sui crimini di guerra di Israele, viene ciononostante etichettata continuamente come simpatizzante dei terroristi o antisemita. Ma criticare il colonialismo, israeliano e no, non è più antisemita di quanto una critica al Partito Comunista Cinese non sia anticinese. Pensare il contrario è in sé razzista: come dire che popolo e stato sono la stessa cosa. Popolo e stato sono invece cose diverse. Rudolph Rocker, nel suo libro Nationalism and Culture, così delinea la questione:
Il popolo è il risultato di una unione sociale, un’associazione mutua di persone contraddistinta da una certa condivisione del modo di vivere, della lingua e di alcune caratteristiche particolari date dal clima e l’ambiente. Sorgono così quei tratti comuni a tutti i componenti dell’unione su cui si basa la coesistenza sociale. Si tratta di una relazione che non può essere né creata né distrutta artificialmente. Al contrario, la nazione è il risultato di una lotta per il potere politico, e il nazionalismo è sempre stato unicamente la religione politica dello stato moderno. L’appartenenza ad una nazione, a differenza dell’appartenenza ad un popolo, non è mai determinata da cause naturali profonde: è sempre soggetta a considerazioni politiche; si basa su quella ragione di stato dietro la quale si nascondono gli interessi delle minoranze privilegiate. Un gruppo ristretto di diplomatici, che semplicemente rappresenta le caste o le classi privilegiate, decide arbitrariamente l’appartenenza o meno alla nazione di persone alle quali non viene neanche chiesto il consenso, ma che devono sottomettersi al potere perché non hanno alternative.
Un “popolo”, nella sua forma essenziale, è un gruppo di individui che istituiscono un’associazione e che col tempo sviluppano tratti comuni. È una rete organica di gruppi basati su affinità, con una cultura sviluppata liberamente e spontaneamente che si evolve e cambia col tempo. Un popolo non possiede una “essenza” innata esistente nel vuoto, né è tenuto assieme da una costrizione. Uno stato nazionale, per contro, è un gruppo elitario che costringe una moltitudine di persone a far parte di un regime militare dispotico con l’obiettivo di creare e tenere in vita un’identità artificiale unica. Più lo stato è nazionalista, e più tende a vedere nei propri soggetti una massa informe a cui imporre un concetto idealizzato di cultura. Lo stato nazionale non si limita a non riconoscere le persone per quello che sono, né accetta la possibilità che si evolvano e cambino col tempo. Vuole plasmarle, dar loro una forma, evitare che crescano e si sviluppino. Può essere laico o teocratico, il risultato non cambia molto. Non vuole una mente aperta e disponibile, impone il proprio volere con un pugno di ferro. Lo stato nazionale è impresa autoritaria e collettivista per natura.
Possiamo andare avanti separando l’individuo dal popolo. Se le persone a cui ci associamo e l’ambiente in cui viviamo influenzano la nostra esistenza, è però vero che in fin dei conti siamo tutti individui, non possiamo essere ridotti a masse omogenee o a semplici parti di una comunità. L’uomo non è un semplice prodotto di una particolare etnia, né appartiene biologicamente ad una “razza”. Ogni persona ha un suo modo di pensare e sentire, ci sono divisioni anche all’interno di gruppi che dall’esterno appaiono uniti. I nazionalisti bianchi interpretano spesso ogni critica al colonialismo americano come un attacco contro le persone dalla pelle chiara, perché nella loro mente lo stato colonialista è la “volontà del popolo”. Il che è una sciocchezza di genere razzista. Quello che tanti forse non colgono è che i sostenitori della politica israeliana usano la stessa logica quando dicono che criticare Israele è antisemitismo. Paradossalmente, proprio questo atteggiamento finisce per essere antisemita perché sottintende che tutti gli ebrei, anche chi non è cittadino israeliano, vengono in qualche modo ricondotti ad Israele.
Credo però che usare l’etichetta dell’antisionismo in Occidente sia controproducente. Senza volerlo, si finisce per facilitare molto il gioco dei sionisti occidentali. Altro effetto collaterale è il fatto che l’etichetta dell’antisionismo può fare da copertura dei fascisti. Sarebbe pratica più sicura ed efficace criticare il sionismo in un’ottica più genericamente antinazionalistica. In fondo il sionismo non è molto diverso dal nazionalismo bianco o da altre forme di statalismo etnico. Tutti i programmi etnonazionalisti sono pericolosi, aggressivi, xenofobici e oppressivi. In tutto il mondo, sono tante le guerre originate da un’aggressione nazionalista: la guerra russo-ucraina, quella tra l’Azerbaijan e l’Armenia, il tentativo di pulizia etnica dei curdi nel nord e nell’est della Siria da parte dello stato turco. La critica di Israele dovrebbe ricadere in un generico anti-nazionalismo. Non servono etichette particolari per combattere queste forme specifiche di nazionalismo. Ci sono diverse ragioni per adottare un approccio diverso.
Se si critica il sionismo in un’ottica genericamente anti-nazionalista, chi è antisemita ha difficoltà ad infiltrarsi tra le file degli antisionisti. Pensiamo ai nazionalisti autonomi, che tendono a nascondersi dietro un neofascismo sostenitore di una terza posizione e che si servono dell’antisionismo ed altri simboli della sinistra per infiltrare, confondere e sovvertire la sinistra stessa. Così scrive Alexander Reid in Against the Fascist Creep:
I nazionalisti autonomi ancora operanti rappresentano un’ulteriore imitazione, o un’evoluzione corrotta, di tanti movimenti sociali sorti in Europa prima, dopo e tra le due guerre mondiali. I primi tentativi di mettere assieme sindacalismo rivoluzionario e ultranazionalismo, che negli anni Dieci avevano dato vita al fascismo, originarono uno strambo miscuglio di maoismo, anarchismo e terrorismo caratteristico della “Terza posizione” durante la Guerra Fredda, salvo poi trasformarsi una seconda volta incorporando contraddittorie tendenze reazionarie e autonomiste. Keffià in testa, abbigliati da black bloc, i nazionalisti autonomi potevano quasi passare per militanti di sinistra. Ma dietro la loro solidarietà per i palestinesi si nascondeva spesso un antisemitismo mascherato da “antisionismo”, se non la ben più grassa retorica del differenzialismo nazionalista sviluppato dall’ex attivista del FAP Christian Worch. Le loro azioni si esprimono solitamente con atti vandalici e campagne “antifasciste” che prendono di mira e attaccano attivisti antifascisti veri, appropriandosi dei simboli dell’antifascismo.
Io stesso sono stato purtroppo testimone, sul posto di lavoro, del tentativo, da parte di un infiltrato fascista, di appropriarsi delle retorica antisionista per farne una copertura. E, e lo dico con dispiacere, una volta ho fatto a urla con un collega di lavoro che faceva discorsi antisemiti spacciandosi per antisionista. Una persona che ben presto si è però rivelata essere un esponente della Terza Posizione di cui sopra, più che un antisionista. Era convinto che gli ebrei governassero il mondo e arrivò a citare i Protocolli degli anziani di Sion. Era chiaramente un fascista. Faceva discorsi socialisteggianti sul posto di lavoro e intanto diffondeva valori culturali tipicamente di destra, come l’odio verso chi non è eterosessuale. Arrivò anche a dire che la xenofobia avrebbe dovuto unire i lavoratori americani contro i capitali stranieri. Non a caso è stato licenziato dopo essersi attirato l’odio generale. Un atteggiamento per niente insolito, comunque. In Occidente, l’etichetta dell’antisionismo finisce spesso, senza volerlo, per dare copertura a questo genere di persone. Non voglio dire che la maggior parte degli antisionisti che dicono di essere di sinistra sono in realtà velati antisemiti, certo che no; ma perché facilitare la vita degli infiltrati fascisti? Soprattutto quando non c’è da guadagnare granché. Non esistono strategie o inquadramenti retorici che mettano assolutamente al riparo dalle infiltrazioni, ma fare una critica generale del nazionalismo nell’ottica della solidarietà universale e dell’internazionalismo impedisce drasticamente la possibilità che i fascisti facciano cooptazione, se non altro perché il fascismo è un movimento nazionalistico, xenofobico e razzista.
E sarebbe molto più difficile per la destra filoisraeliana e i liberali accusare cinicamente le voci critiche di Israele di fare antisemitismo velato. “Dunque sei antisemita”, è la risposta data dagli avversari politici a chi si autodefinisce antisionista. Un problema esasperato dalle infiltrazioni fasciste. A chi conosce solo superficialmente le complessità delle frange politiche estreme, l’accusa può apparire giustificabile: molti antisionisti sono in effetti antisemiti nascosti. Non impedirà agli sionisti occidentali, soprattutto quelli cristiani, di continuare a servirsi di certe tattiche disoneste, ma se la critica viene fatta in un’ottica generalmente antinazionalista le possibilità che vengano presi sul serio calano drasticamente.
Occorre infine considerare che quello israelo-palestinese non è un vero e proprio conflitto. È più una lenta campagna di sterminio, un fatto storicamente tutt’altro che unico. Nel suo On Palestine, Ilan Pappé scrive: “Insediandosi in terra straniera, i coloni europei o praticavano il genocidio o espellevano le popolazioni indigene. In questo senso, i sionisti non hanno inventato niente di nuovo.” Questo non per relativizzare ciò che sta accadendo al popolo palestinese. Il genocidio lento dei palestinesi è indubbiamente uno dei peggiori crimini moderni contro l’umanità. Ma è importante ricordare anche la plurisecolare storia del colonialismo europeo. Ed è altrettanto importante notare, se non si vuole far decadere la critica ad un miope campismo, che il colonialismo non è solo europeo. Anche l’impero giapponese il secolo scorso adottò un genere di imperialismo comparabile per barbarie con le sue controparti europee del tempo. L’imperialismo non è esclusiva di un qualche blocco geopolitico, qualunque stato nazionale, da solo o alleato con altri, può accendere imperialismi. Ed è importantissimo tenere in mente che alla base dei conflitti e delle campagne di sterminio citati c’è soprattutto il nazionalismo. Il nazionalismo è una delle minacce più gravi, non solo alla libertà e alla dignità, ma anche alla stessa sopravvivenza dell’uomo. La questione nazionalistica nel senso più ampio sta alla base del conflitto israelo-palestinese che minaccia di trascinare il mondo in una guerra mondiale. È bene ricordare che il sionismo, per quanto abietto, è solo una tessera di quel gigantesco puzzle sporco di sangue e antiindividualistico che è il nazionalismo.
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