Kevin Carson. Articolo originale: Cuban Urban Farming, and Special Periods Old and New, dell’otto maggio 2023. Traduzione italiana di Enrico Sanna.
Molto accomuna la novecentesca grandeur statunitense e l’Unione Sovietica, ognuna con le rispettive culture istituzionali. Soprattutto se parliamo di industria agricola. In entrambi i casi abbiamo enormi aziende altamente meccanizzate che fanno ampio uso di fertilizzanti chimici.
In agricoltura, Cuba ha seguito l’esempio sovietico dai tempi della rivoluzione fino al collasso dell’Unione Sovietica. “Principale esportatore di zucchero, Cuba faceva largo uso di pesticidi, fertilizzanti e meccanizzazione diffusa per produrre 8,4 milioni di tonnellate di zucchero (produzione massima toccata nel 1990), quasi tutto esportato nel blocco sovietico.”[1] Spiega Federica Bono, docente di geografia umana presso la Christopher Newport University della Virginia: “Cuba aveva un settore agricolo fortemente meccanizzato, paragonabile a quello californiano, stesso livello di meccanizzazione e stesso uso di prodotti chimici.”[2]
Parliamo di un sistema finalizzato all’esportazione di tipo neocoloniale elevato al quadrato. Al posto della sostituzione delle importazioni, l’esportazione di prodotti agricoli finalizzata a pagare prodotti importati:
durante la guerra fredda [Cuba] smise di produrre alimenti per uso interno e utilizzò gran parte delle terre coltivabili per produrre canna da zucchero da esportare in Unione Sovietica. In cambio, Mosca esportava a Cuba generi alimentari, fertilizzanti di sintesi e combustibile per le auto e i trattori.[3]
Tutto finì con il crollo del blocco sovietico e la fine dell’Unione Sovietica. Cuba perse l’ottanta per cento del commercio con l’estero e andò in deficit alimentare; Castro lo definì il “periodo speciale”.[4]
Per Cuba fu la crisi alimentare. I cubani persero in media l’equivalente di un terzo delle calorie giornaliere necessarie. Il governo varò un piano di razionamento degli alimenti, per tanti la conseguenza inevitabile fu la fame.
Senza esportazioni di alimenti, Cuba non poté più accedere a mangimi, fertilizzanti e carburante, indispensabili per la produzione agricola. Il carburante diventò così raro che intaccò la produzione di pesticidi e fertilizzanti e limitò l’utilizzo di trattori e altre attrezzature meccaniche agricole, fino a bloccare l’intero sistema di trasporti e refrigerazione indispensabile a far giungere ortaggi, carni e frutta sulle tavole dei cubani. Privata dei mangimi, dei fertilizzanti e dei carburanti che un tempo tenevano in piedi la nazione, Cuba diede vita a una vera rivoluzione verde.[5]
La reazione della popolazione fu in fondo eroica. La terapia d’urto cominciò nei primi anni Novanta. La produzione alimentare fu riportata a livello locale e ampliata, al posto delle vecchie aziende meccanizzate avide di risorse sorsero produzioni biologiche intensive.
All’inizio, date le scarse conoscenze in materia e l’assenza di fertilizzanti, i raccolti erano scarsi. I primi miglioramenti arrivarono con l’irrigazione a goccia, i concimi biologici e le tecniche colturali naturali…
La resa della terra fu migliorata con concimi e emendanti ricavati da scarti del raccolto, rifiuti umidi e letame animale. L’aumento della produzione di ortaggi e frutta fresca contribuì a migliorare l’apporto calorico degli abitanti delle città, molti dei quali scamparono alla denutrizione.
Nel 2008, l’entità degli orti urbani era ancora minima: appena l’otto percento del territorio dell’Avana e il 3,4 percento di tutto il territorio urbano cubano, che però produceva il 90 percento di tutti gli ortaggi e la frutta consumata.[6]
Il risultato è un sorprendente esempio di capacità di ripresa alimentare:
L’agricoltura urbana nella citta dell’Avana si dispiega è composta di vari livelli: si va dall’orticello ricavato in un balcone ai campi di diversi ettari che formano la cintura verde della città. Gli orti urbani solitamente producono alimenti per uso umano e mangimi, ma senza cambiare la struttura orticola contribuiscono anche alla produzione di terriccio e biocarburanti, e mangimi per gli allevamenti. Molti di questi orti sorgono, molto opportunamente, in aree abbandonate e degradate della città, di cui ci si è appropriati sfruttando i diritti di usufrutto, il che significa che le terre sono cedute gratuitamente dallo stato.
Sul tetto di una casa nel quartiere di El Cerro un allevatore da solo alleva quaranta porcellini d’india, sei galline, due tacchini e oltre un centinaio di conigli. 68 metri quadri racchiudono un condensato a ciclo chiuso dei principi della permacoltura: si coltivano ortaggi, si riciclano gli scarti animali, si conserva l’acqua e si sfrutta tutta una serie di sinergie tra specie diverse. Ci sono impianti autocostruiti per l’essiccamento e la conservazione del foraggio, grazie ai quali i rifiuti provenienti dai vicini mercati e negozi diventano concime da stoccare per i periodi di magra. Il proprietario di questa fattoria aerea riesce così a rifornire di carne ristoranti e mercati della zona. Aziende di questo genere all’Avana ce ne sono più di mille.[7]
Questo efficientismo accomuna tutti gli orti urbani. Secondo Colin Ward, nei giardini dei quartieri nuovi in Gran Bretagna si produce più di quanto non si producesse quando sulle stesse terre esistevano aziende agricole.
Come avviene in genere nel mondo capitalista, anche negli Stati Uniti l’agricoltura meccanizzata convenzionale si è sviluppata seguendo uno schema basato sull’aumento di input artificialmente a buon prezzo.
Le aziende americane sono così estese che una parte, col contributo economico dello stato, viene solitamente tenuta incolta. Una “azienda agricola” è tanto un produttore di alimenti quanto un investimento immobiliare garantito.
In California, il principale stato agricolo, alle grandi aziende i bacini gestiti dallo stato forniscono quantità enormi di acqua a prezzo politico, anche quando invece le amministrazioni cittadine razionano l’acqua potabile.
La necessità di trasportare gli alimenti per centinaia o migliaia di chilometri, dalle grandi aziende produttrici ai consumatori, fa sì che gli Stati Uniti dipendano fortemente dai trasporti a lunga distanza.
Quanto alle sementi ad “alta resa”, proprie della rivoluzione verde, sono più produttive solo a patto che si disponga di enormi quantità di input come i fertilizzanti sintetici e l’acqua a prezzo politico. Non a caso Frances Lappe parla di “varietà a forte contributo”.
Il capitalismo americano, e quindi anche il settore agricolo, è un sistema di potere statale tanto quanto il vecchio “socialismo” sovietico.
L’inefficienza di questo sistema è un male di per sé, anche a prescindere dalla sua vulnerabilità. Ma soprattutto, dovesse crollare tutto il castello di input da cui dipende l’agricoltura americana, il paese si ritroverebbe probabilmente a vivere un suo “periodo speciale”. Un crollo tutt’altro che improbabile.
Gli stati occidentali vanno verso il razionamento dell’acqua, una siccità record sta prosciugando i fiumi da cui dipende l’irrigazione. Alla minaccia a medio-lungo termine rappresentata dal picco della produzione petrolifera si aggiungono la pandemia e il blocco dell’importazione di petrolio russo, a dimostrazione di quanto la situazione nel breve termine sia sensibile alle interruzioni delle forniture. Aggiungiamo a ciò gli effetti terribili dei fertilizzanti sintetici e dei pesticidi. L’uso massiccio di fertilizzanti chimici non solo trasforma la terra in una crosta senza vita, ma genera anche un proliferare di alghe tossiche nei corsi d’acqua e nei mari. I pesticidi eliminano i nemici naturali dei parassiti e rafforzano la resistenza ai pesticidi stessi, così che con dosi dieci o più volte maggiori si ottengono effetti minori. Le monocolture estensive, l’aratura e i diserbanti impoveriscono fortemente il suolo.
Il risultato è un sistema agricolo fragilissimo. Se non siamo ai livelli di Cuba nel 1990, ci stiamo arrivando.
Per affrontare le crisi di sostenibilità del tardo capitalismo si dovrà ripensare il sistema di produzione degli alimenti riportandolo a livello locale, ricorrendo al compostaggio per riciclare le sostanze nutritive, ridisegnando il territorio secondo i principi della permacoltura al fine di raccogliere e conservare l’acqua, e tant’altro. Si potrebbe, ad esempio, guardare quello che fanno i cubani.
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Note
1. Roger Atwood, “Organic or starve: can Cuba’s new farming model provide food security?” The Guardian, October 28, 2017 <https://www.theguardian.com/environment/2017/oct/28/organic-or-starve-can-cubas-new-farming-model-provide-food-security>.
2. “Cuba’s Farming Cooperatives: An Interview with Federica Bono,” Grassroots Economic Organizing, March 20, 2023 <https://geo.coop/articles/cubas-farming-cooperatives>.
3. “Cuba’s Urban Farming Shows Way to Avoid Hunger,” EcoWatch, November 19, 2019 <https://www.ecowatch.com/urban-farming-cuba-2641320251.html>.
4. Atwood, op. cit.
5. Carey Clouse, “Cuba’s Urban Farming Revolution: How to Create Self-Sufficient Cities,” Architectural Review, March 17, 2014 <https://www.architectural-review.com/essays/cubas-urban-farming-revolution-how-to-create-self-sufficient-cities>.
6. “Cuba’s Urban Farming Shows Way to Avoid Hunger,” op. cit.
7. Clouse, op. cit.