Atti Rivoluzionari

Di Karl Hess. Originale pubblicato il 2 gennaio 2015 con il titolo The Acts of Revolution. Tradotto in italiano da Enrico Sanna.

L’articolo originale di Karl Hess, comparso su Libertarian Connection nº 2 del 10 febbraio 1969, è oggi di pubblico dominio nei limiti stabiliti dal Fair Use Repository.

Sono due gli atteggiamenti che, più di ogni altro a mia conoscenza, confondono l’attuale azione rivoluzionaria negli Stati Uniti.

Primo, si vuole che l’atto rivoluzionario abbia “un obiettivo”, con l’assunto che, mancando tale obiettivo, manca anche la passione e perfino la possibilità pratica.

Secondo, esiste una mentalità per cui la rivoluzione deve nascere dal fermento della solidarietà di classe, soprattutto dalla radicalizzazione della classe lavoratrice.

Qual è oggi l’obiettivo della rivoluzione? Immagino che non sia lo stesso dei rivoluzionari del passato. Il mondo cambia. Perché non anche le idee e gli obiettivi? Le rivoluzioni del passato, rivoluzioni di un mondo diverso, avevano un loro obiettivo. Che era l’istituzione di un governo democratico da realizzare con la rivoluzione violenta contro un governo meno democratico. Pertanto tutte le rivoluzioni del passato avevano come obiettivo comune la natura del governo. L’obiettivo era dunque il governo. Era la natura del governo a definire la rivoluzione. O la controrivoluzione.

Oggi tante persone interessate alla rivoluzione sono sconcertate dal fatto che tra chi sostiene l’atto rivoluzionario c’è chi si pone obiettivi diversi dalle altre rivoluzioni.

Max Eastman, intervistato il nove gennaio 1969 dal New York Times, spiega così la differenza tra il suo modo di intendere la rivoluzione e quello attuale:

Vogliono fare la rivoluzione ma non hanno un fine ultimo. Nutro qualche simpatia per loro, ma sono molto patetici perché non hanno un programma. Vogliono la rivoluzione per la rivoluzione. Noi avevamo un progetto: trasformare il capitalismo in socialismo. Un progetto basato su un ideale e un’ideologia.

Quella di Eastman è l’idea costituita di rivoluzione che copre tutta la gamma di dispotismi, dal capitalismo di stato, o socialismo, al liberalismo riformistico, fino al tradizionale conservatorismo e al conservatorismo teologico.

Il fatto è che oggi, dopo una lunga tradizione di governo democratico, la rivoluzione non ha bisogno di un obiettivo nel senso classico, non lo accetta. Un tale obiettivo, ovvero rendere lo stato più democratico, sarebbe controrivoluzionario, non rivoluzionario.

Oggi la rivoluzione va contro questi obiettivi. Oggi la rivoluzione è contro lo stato, non per una certa forma di stato. Oggi la rivoluzione deve avere come obiettivo l’abolizione di tutte le istituzioni di potere che possono imporre o vogliono imporre standard, obiettivi o norme arbitrarie a chi non li vuole. Chi rientra in questo concetto non rinuncia all’autodifesa o al controllo di sé, ma solo alla costrizione.

Chi vorrebbe bloccare l’atto rivoluzionario perché privo di obiettivi, intendendo con ciò il cambiamento della “forma di governo”, più che fare un’analisi politica si crea problemi mentali.

Oggi l’atto rivoluzionario non solo non deve, ma non può avere un obiettivo nel senso comunemente inteso. Non c’è più spazio per le vecchie rivoluzioni. Sono state provate tutte. Neanche la proposta più estrema esce dal quadro riformista. Forse i vari ideali di “uomo nuovo” tipici di istituzioni rivoluzionarie antiquate come quella cubana o cinese, hanno qualcosa di effettivamente nuovo, non semplici riformismi, ma si tratta di istituzioni talmente legate alla forma statuale che non ci si può aspettare un granché di progresso dai loro ideali. I Castro badano alla bottega e fanno la riforma dello stato e dei cittadini (che sono sempre cittadini, come ai tempi di Batista) mentre gli ideologi dell’uomo nuovo languiscono incatenati sempre da gestori dello stato ma di tipo diverso!

Insomma, l’azione rivoluzionaria deve evitare di avere obiettivi, non cercarli. Quando si tratta di abbattere l’idea di stato e cittadinanza, o di schiavitù nei confronti di un qualunque “sistema” (magari voluto da qualcuno) in cui l’energia vitale si trasforma in una vita di dolori, è molto appropriato parlare di rivoluzione fine a se stessa. Ogni altro concetto è semplicemente ripetitivo, riformista e controrivoluzionario.

E arriviamo così al nocciolo. L’estremismo di classe è essenziale alla rivoluzione? Un tempo sì. Ma tutte le rivoluzioni del passato erano sostanzialmente contro qualcuno al potere di un apparato statale.

Questo qualcuno rappresentava persone di una o più classi, e dunque la rivoluzione metteva materialmente una classe contro l’altra: persone contro persone; e il risultato dipendeva più o meno dalla consistenza delle parti.

Gli stati prodotti da queste rivoluzioni del tipo uomo contro uomo sono diventati stati marcatamente del tipo macchina contro uomo. Le loro burocrazie, nei casi più progrediti, data la sproporzione crescente tra controllati e controllori, hanno finito per ricorrere alla tecnologia, all’interposizione di uno strato consistente di tecnologia tra lo stato e i governati.

Gli Stati Uniti, di gran lunga l’esempio più progredito di controllo, proprio ora sta andando a integrare le tecnologie di controllo con un ampliamento del personale addetto. È possibile che già con l’amministrazione di Richard Nixon il concetto bismarckiano di popolo “libero” al servizio dello stato giunga alla perfezione o quasi.

Lo strumento sarà quello della cooptazione: invitare un numero crescente di persone a diventare, volontariamente, membri della classe di governo, componenti di diritto della classe burocratica. Richard Cornuelle, definendo l’apparato di Nixon come List avrebbe potuto definire quello bismarckiano, istituisce i parametri economici dello strumento: “invitare” le aziende private ad assorbire il maggior numero possibile di posti di lavoro governativi. Per chi non riesce a vedere, si tratterebbe di una liberazione delle aziende dalla morsa dello stato. In realtà succede esattamente il contrario: si trasformano le aziende in una parte dello stato. Lo stesso avviene col concetto di “capitalismo nero”. Che non libera i neri. Li arruola in pianta stabile nella società costituita. Potrebbe non esserci niente di male in queste azioni. Molti, direbbe qualcuno, ne sarebbero ben lieti. Ma attenzione: l’effetto è il potenziamento e la crescita d’importanza dello stato, non il contrario.

Un ulteriore affinamento del processo cooptativo è evidente nella nuova amministrazione. Che sta appaltando le funzioni dello stato, come si può vedere, tra le altre cose, nella proposta di aziendalizzare la politica sociale dandola in gestione all’industria privata. Lo stesso concetto sta alla base dell’attuale complesso militare-industriale.

Lo strumento è molto pratico. Funziona. E istituisce il capitalismo di stato come forma dell’organizzazione sociale degli Stati Uniti. I sovietici ci sono già arrivati, ma hanno dovuto farlo con una rivoluzione di vecchio tipo, uomo contro uomo. Il capitalismo di stato americano si sviluppa su nuove linee e comporta fino in fondo l’istituzione di una burocrazia tecnologica.

Il nuovo modo di fare rivoluzione deve tener conto del nuovo modo di esercitare l’autorità. Quest’ultima non si affida più alla forza delle braccia e alla violenza. Negli Stati Uniti ad esempio la violenza è relativamente diffusa, mentre quella concentrata ha un fine limitato: soffocare la rivolta.

Il controllo dipende sempre più dalle macchine e dalle modalità e sempre meno dall’azione dell’uomo. Il fisco non potrebbe controllare tutto il paese col solo aiuto del personale. La situazione è talmente fuori controllo che uno dei principali contributi alle democrazie latino-americane è la formazione di task force di fiscalisti che insegnano agli esattori locali ad imporre ad una popolazione riottosa le pratiche fiscali e di controllo inventate dagli yankee.

Che questo possa portare a “scovare” qualche riccone evasore è un ridicolo mito che qui non è possibile esaminare a fondo. Basti dire che i ricconi sono scovati più facilmente col lavoro manuale mentre per le masse le macchine sono più efficienti. Hitler, per dire, lo sapeva bene. Gli bastò comprare gli industriali e far fuori i libertari. E dopotutto, per sterminare gli ebrei approntò un sistema industriale.

Tutto ciò ovviamente si applica razionalmente solo ai paesi altamente sviluppati. Nei paesi sottosviluppati, le rivoluzioni contro i regimi oppressivi non solo sono condotte alla vecchia maniera uomo contro uomo, ma in genere anche il loro obiettivo è del vecchio tipo: caccia via questo e metti quello al suo posto.

Oggi nei paesi sviluppati la rivoluzione necessita di un’avanguardia rivoluzionaria. Un’avanguardia che però, almeno all’inizio, non ha bisogno di una massa radicalizzata. Occorre una rivoluzione che non punti all’autorità di massa o alle barricate, ma che vada contro la tecnologia di massa, la burocrazia, i sistemi, i moduli da compilare, le circolari, i faldoni, le norme, i computer, gli scanner e tutto l’ambaradàn elettronico.

Un atto rivoluzionario che prenda di mira le tecnologie sensibili degli apparati di controllo avrebbe effetti paralizzanti sulla burocrazia. Non è assurdo ipotizzare che un simile atto rivoluzionario possa paralizzare tutto l’apparato. D’altro canto bisogna però capire che la reazione alla paralisi sarebbe molto probabilmente fisicamente molto violenta. C’è da aspettarsi che una burocrazia altamente sviluppata reagisca con la repressione fisica all’assalto contro le sue tecnologie.

Negli Stati Uniti, forse ancor più che in Unione Sovietica, questa repressione potrebbe ricevere un ampio sostegno popolare a causa del processo di cooptazione che raccoglie collaboratori, soprattutto tra gli uomini d’affari e i neri.

Dunque è in un secondo momento, e non subito, che il processo di radicalizzazione popolare deve diventare un importante compito rivoluzionario, semplicemente perché più fattibile e produttivo, mentre oggi, data l’attuale cooptazione in corso, sarebbe uno spreco di tempo, di energie, e soprattutto di materia grigia.

La lotta contro il sistema può anche prendere una strada alternativa, ovvero la resistenza, che tende all’atto rivoluzionario ma senza arrivarci mai. Strategia del ripiego, resistenza passiva, l’innocente persuasione del potere dei fiori, ognuna di queste è riuscita a ricavare importanti spazi alternativi in un ambiente statalistico ostile. Gli attivisti sono convinti che la loro pura, incorrotta buona volonta, che a volte convince anche la polizia, finirà per convincere anche il mondo. Dategli il tempo, e un’opportunità post-rivoluzionaria, e son sicuro che non solo ci proverebbero, ma ci riuscirebbero. Ma questo è il punto. Che intanto rischia la stessa repressione che colpisce le azioni rivoluzionarie. Anche le azioni più benevole e caute possono far perdere la pazienza all’ordine costituito. Tolto l’attacco frontale, la minaccia più ovvia è costituita dal comportamento e dalla morale anticonvenzionali. Questo non per scoraggiare la ricerca di stili di vita alternativi. Tutt’altro. È solo per far capire che il successo, così come una radicalizzazione diffusa, arriveranno solo come conseguenza dell’atto rivoluzionario, non prima.

Lo stesso vale, negli Stati Uniti, per la coscienza nera (o della nerezza). Si può immaginare oggi un futuro senza rivolte?

L’azione rivoluzionaria oggi dovrebbe cercare innanzitutto di radicalizzare quei singoli specialisti e attivisti che possono più di altri sfidare e/o mettere a soqquadro le comunicazioni e la tecnologia dello stato e del sistema di supporto dello stato.

Se lo fanno, e se lo fanno bene, il potere burocratico e i suoi sostenitori o i beneficiari saranno costretti a ricorrere a forme di controllo della popolazione evidenti e drastiche, spingendo tanti verso l’estremismo. I lacciuoli burocratici sono duri da tagliare. Quelli elettronici sono ancora più duri. Il primo atto rivoluzionario deve colpire qui. Altrimenti finiranno per imbrigliare tutto.

Con lo stato in disfacimento, è il momento di una più ampia radicalizzazione e, infine, di una coscienza, la più ampia possibile, della rivoluzione priva di obiettivi: una rivoluzione che finalmente avvii il processo della libertà in un mondo dedicato alla vita dell’uomo.

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