Di Dawie Coetzee. Originale pubblicato il 6 luglio 2022 con il titolo The Modern Urban Form as a Capitalist Construct. Traduzione di Enrico Sanna.
In un quarto d’ora su internet non son riuscito a trovare quando l’espressione “andare in città” ha finito per significare (secondo un modo di dire inglese, ndt) fare qualcosa con grande energia e esuberanza. Non sorprende che molte fonti la facciano risalire agli Stati Uniti ottocenteschi, dato che è la metafora di un reale andare in città in un contesto e con un’ordinarietà relativamente recenti e molto più diffusi nel nuovo mondo di allora piuttosto che altrove dove prevalevano forme urbane ereditate dal passato. Nessuna spiegazione etimologica, tra le tante falsità che si trovano su Facebook, potrebbe convincere un serio studioso di storia urbana che si tratta di un’espressione più antica, dato che in questo contesto la parola “città” indicava probabilmente tanto il luogo di partenza quanto quello di arrivo.
Oggi si va “in città” per lavorare, fare acquisti, fare tutto tranne dormire. Il concetto prevalente di città esclude specificamente la funzione abitativa per tutti, tranne pochi eccentrici e i poveri che non si vedono. La città appare composta da isolati di uffici, un’immagine dominante ancora oggi, mezzo secolo dopo l’avvento dei centri commerciali, i centri direzionali e i campus. La città è lì, dove sono gli edifici più alti, non qui tra le case. Noi diamo per scontato che sia sempre stato così. Ma la caratteristica forma urbana costituita da un concentrato di luoghi di lavoro circondato da una fascia dormitorio (un concentrato di capitale circondato da una nuvola di lavoratori) è relativamente recente.
Significativamente, l’affermazione di questa forma urbana segue strettamente l’emergere del capitalismo, così come la percezione popolare della prima rispecchia quella del secondo. La storia è complessa, fatta di improvvisazioni e forme intermedie in risposta alla logistica spaziale delle prime fabbriche. Queste in origine erano spesso un’estensione delle case di campagna dei capitalisti, che così rivelavano la necessità di impiegare i lavoratori gradualmente espulsi dalle campagne dal processo di privatizzazione delle terre. Il risultato erano città come la dickensiana “Coketown”. Più di rado accadeva che i capitalisti delle città acquistavano prepotentemente i quartieri poveri per espandere le loro fabbriche, creando quelli che in seguito divennero, grazie ai piani di urbanizzazione progressisti, i distretti industriali. In genere comunque le fabbriche erano vicine o confinavano con le case in cui vivevano i capitalisti: erano i lavoratori a dover andare tutti i giorni dai capitalisti, non il contrario.
Nell’attuale panorama urbano, la villa confinante col mulino satanico appare una stranezza, ma era comune nelle opere di finzione fino all’inizio della seconda guerra mondiale. Si trattava però di un residuo di vecchie forme urbane, che rendevano particolarmente aspra e inquietante l’imposizione del sistema di produzione capitalistico. Ben presto si cominciò a cercare soluzioni urbanistiche al problema.
I sobborghi dormitorio collegati con la ferrovia permisero ai colletti bianchi della classe media di evadere le città, un tempo vivibili e ora sempre più industriali, facendo i pendolari tra l’abitazione e l’ufficio. Fu l’inizio di un fenomeno che portò a quell’urbanizzazione motorizzata selvaggia che oggi caratterizza praticamente ogni città del nord e sud America, gli antipodi e l’Africa subsahariana, e stranamente anche molte città dell’Europa e dell’Asia. Le industrie hanno abbandonato il centro cittadino grazie a piani regolatori che inizialmente sembravano avere perlomeno intenzioni umanitarie, ma che presto diventarono uno degli strumenti più potenti per l’imposizione della forma urbana capitalista ad esclusione di ogni altra soluzione. L’unica residua qualità spaziale di quella che oggi chiamiamo “città” è la disumanità.
Anche ora che criticare la politica urbanistica non è più un tabù, molto spesso ci si sente dire che il piano regolatore serve a evitare che nasca un impianto chimico vicino a un asilo, e che quindi è giusto vietare parimenti una merceria vicino alle abitazioni. Ancora però non ho trovato una critica del fatto che in realtà le norme urbanistiche creano e mantengono le condizioni spaziali favorevoli al capitalismo. Per “norme urbanistiche” qui intendo non solo le restrizioni imposte a certe funzioni urbane in certe zone, ma anche tutte quelle norme sulle distanze, i volumi, le altezze, i parcheggi e così via. Tutte cose che generano una mappa del territorio su misura per le necessità del capitale.
Brevemente, per “capitalismo” intendo un sistema caratterizzato da un mercato formato appositamente a cui corrisponde un modello imprenditoriale che risponde alla storica creazione, grazie a strumenti politici, di un’artificiale sovrabbondanza di manodopera disponibile e della concentrazione di capitali nelle mani di un’élite, la quale poi interviene sui processi dello sviluppo tecnologico al fine di sfruttare tali condizioni e escludere alternative. Tutto ciò implica non solo un sistema salariale, ma un sistema salariale di massa caratterizzato da masse di lavoratori alle dipendenze di una minoranza di imprenditori; tale sistema viene reso non solo possibile ma anche indispensabile dall’adozione di tecniche produttive possibili solo su grande scala. Per questo servono norme che rendano i prodotti economicamente fattibili soltanto con certe tecnologie, e in un volume che supera di gran lunga qualsiasi domanda che non sia espressamente indotta. Per questo rapporto di lavoro, tecnologie, design del prodotto e consumo della produzione industriale sono tutti fattori intrecciati tra loro, una condizione tipica di tutte le politiche industriali da quando Mussolini cominciò a organizzare in corporazioni i settori industriali analogamente a quanto avviene nelle forze armate.
Tutti i governi mondiali cercano di coreografare la propria società così che i promessi “posti di lavoro” combacino con la promessa “produttività” in un contesto in cui è indiscutibile che tutti questi dispositivi sono assolutamente indispensabili. Si tratta perlopiù di fuffa politica, leggi che rafforzano uno strato burocratico che rafforza un altro strato che ne rafforza altri, ma che hanno le zanne soprattutto nella pianificazione urbana. È lì che la brutalità si esprime.
Due sono gli aspetti della prevalente forma urbana moderna, imposta dalle norme urbanistiche al servizio dei bisogni del capitale. Primo, sostiene il sistema salariale creando scarsità di proprietà economicamente sfruttabili. Il valore di quella piccolissima porzione di proprietà urbana adatta ad una qualunque attività economica cresce enormemente di prezzo, tanto che il semplice possesso diventa una fonte di guadagno. Un caso esemplare di mercificazione originata dagli effetti strutturali delle normative. È qui la politica, la legge, che stabilisce che la proprietà di qualcuno può costituire capitale e quella di altri no. Si tratta di un sostegno dichiarato, diretto, del capitalismo.
Il problema non è che un uso economico è permesso qua e vietato altrove, per cui basta cambiare le norme per eliminare il torto. È che la legge impone che la proprietà occupata dai lavoratori sia fisicamente inadatta alle attività economiche. Nella visione finto bucolica dei sobborghi, tutto serve a garantire che sia così. Le distanze sono lunghe; il disegno stradale è noioso e fatto in modo da dare l’impressione di un modo di comunicare lento e faticoso; le strade sono nemiche dei pedoni; le costruzioni, arretrate rispetto alla strada, non favoriscono le piccole attività commerciali; le costruzioni basse aumentano le distanze scoraggiando possibili clienti a piedi; i parcheggi obbligatori mangiano il territorio e creano ambienti inospitali; e così via. Anche abolendo le norme, per risolvere il problema gli abitanti dovrebbero fare uno sforzo enorme in termini di riordino catastale, con complessi scambi fondiari, possibili implicazioni legali dall’esito incerto e sempre col rischio che una delle parti mandi all’aria tutto quanto, senza considerare le enormi cifre che verrebbero spese direttamente in opere edilizie. Se l’impressione è che i sobborghi dormitorio sono i luoghi peggiori per le piccole attività è perché sono stati specificamente progettati proprio per essere così. La caratteristica principale dei sobborghi dormitorio a bassa densità è che come capitale non servono.
Secondo, la forma urbana prevalente è un ambiente ad alto consumo. Questo non solo perché il grosso del patrimonio immobiliare, come abbiamo visto, è costretto dai vincoli a consumare, più che produrre, ricchezza. Nei sobborghi si spendono, non si fanno, soldi, e questo non solo perché ci sono leggi che rendono difficile o vietano il far soldi, ma anche perché tutto ciò che riguarda il funzionamento dei sobborghi è progettato in modo da far spendere il più possibile. Andare dal punto A al punto B, e soprattutto andare a fare un lavoro salariato, significa acquistare, mantenere e alimentare un’auto, che costa soldi. Lasciare la casa incustodita durante la giornata crea notevoli problemi di sicurezza, la cui risoluzione è più complessa di quanto appare a prima vista, e costa denaro. Lasciare i piccoli senza custodia crea la necessità di strutture altrimenti inutili, con problemi di relativa scarsità, e anche questo costa. Comunicare, date le condizioni scarsamente favorevoli al contatto e la prossimità, anche questo costa. Anche procurarsi ciò che serve per vivere potrebbe risultare più caro in un ambiente simile. La manutenzione degli edifici costa, cosa che non sarebbe un grosso problema se generassero un reddito. Mantenere servizi pubblici a queste distanze costa soldi, che l’amministrazione esige dai propri abitanti. Fare qualcosa dove non è permesso costruire, se non altro per prevenire il degrado, costa denaro. Anche le terre inutilizzate costano denaro, ed è il danno minore.
Tutto questo denaro va a mantenere tutto l’insieme di dispositivi che l’industria capitalista deve continuare a pompare dai propri milioni se vuole andare avanti. Questi dispositivi tra l’altro non sono voluti: se non fosse per l’ambiente in cui vengono consumati molto probabilmente non verrebbero consumati affatto. E se già va male per quei salariati che hanno la possibilità di mantenere questo livello dei consumi, figuriamoci per gli altri. E per quelli che camminano ai bordi di quelle enormi stroad a quattro corsie perché non possono permettersi l’auto per cui sono state fatte. Questi sono doppiamente esclusi, primo perché costretti a negoziare l’ambiente se vogliono accedervi, e secondo perché non hanno i mezzi per farlo.
Ecco quindi che la forma urbana crea una sua povertà, una povertà che senza la forma urbana non esisterebbe. La forma urbana contribuisce materialmente alla povertà di fondo su cui si basa il rapporto di lavoro capitalista. Sostiene il sistema salariale in vari modi.
Qui è importante capire che la forma urbana moderna non è determinata storicamente e organicamente ma è un programma strutturale del capitalismo. Le leggi che la guidano non sono una semplice codificazione di una volontà popolare rivelata; non sono la codificazione legale di ciò che il popolo farebbe comunque (a cosa servirebbe?) ma l’imposizione di un uso del territorio in contrasto netto con l’uso spontaneo che ne farebbe la popolazione, ovunque e sempre. Un popolo libero non costruisce città come quelle che noi oggi consideriamo la norma.
Certo quel furbastro di Cronos rivendica a sé le origini del capitalismo, vorrebbe darci ad intendere che la forma urbana capitalistica è nata spontaneamente, indipendentemente dal capitalismo, nel 1849 o 1949 o chissà quando, così come c’è chi vorrebbe farci credere che anche la fabbrica capitalista, incarnazione del sistema salariale capitalista di massa, è nata spontaneamente. E per non fare offesa a messer Cronos ci si potrebbe benissimo accontentare di sovrapporre uno strato cooperativo alla struttura di base dell’industria capitalista, la quale sarebbe stata decretata dalla “storia” con la sua autorità spirituale, invece di fare una critica profonda della struttura funzionale dei suoi processi.
Lo stesso vale per l’attuale dominante forma urbana. Se ci vediamo un processo strutturale specifico del capitalismo e non un fatto storico inevitabile, basta una riflessione alternativa che critichi la forma urbana per arrivare a chiedersi: cosa potrebbe esserci al posto della realtà capitalista? Con questa riflessione abbiamo una base di partenza, uno schema delle cose che è umano, applicabile ovunque e sempre, uno schema che nasce dalla realtà della storia e delle possibilità dell’uomo, non “un salto nel vuoto”. Non c’è ragione per credere che in una futura città anarchica, assenti forze contrarie, persisterebbe l’attuale forma capitalista.