Di Frank Miroslav. Originale pubblicato il 2 aprile 2022 con il titolo Why Collective Action Problems Are Not a Capitalist Plot. Traduzione di Enrico Sanna.
Perché dalla ragione individuale a quella collettiva non è un passo
Un vecchio chiodo fisso dell’estrema sinistra è che l’assenza di attività radicali è colpa di qualche soggetto collettivo che, a loro dire, trama a favore del capitalismo. Si offrono le spiegazioni più svariate, che però in genere danno per scontato che una parte della popolazione, che in altre condizioni si ribellerebbe contro il sistema, sia stata fuorviata e/o sottomessa con la propaganda.
Certo la propaganda influisce, e la cooptazione dei movimenti è una costante della storia. Ma secondo me sono le teorizzazioni sul presente che ignorano il punto principale che fare azione collettiva è difficile.
Tanto per fare un esempio (spesso citato come introduzione alla teoria dei giochi), immaginiamo un semplice schema rivoluzionario. Se la partecipazione è sufficiente, il governo oppressivo viene rovesciato, qualche rivoluzionario muore ma la maggior parte ricava dei benefici. Se la partecipazione è scarsa, i rivoluzionari finiscono uccisi o in carcere, e chi non ha preso parte alla rivoluzione non perde nulla (è uno schema semplificato). Dunque, più sale la partecipazione e più cala la probabilità che ognuno ne soffra.
A chi odia il regime dovrebbe apparire ovvio. Si verifica se ci sono i numeri, e solo allora si inizia una rivoluzione. Ma basta introdurre qualche incertezza di fondo nello schema e improvvisamente tutto diventa molto più difficile. Se la gente non sa che anche tanti altri sono determinati ad ottenere un cambiamento radicale, o se ha dubbi sulla loro determinazione, può accadere che, pur in presenza di un gran numero di persone che odia il regime ed è disposto personalmente a combatterlo, nessuno si fa avanti perché pensa che gli altri non siano sufficientemente determinati. Anche gli altruisti più decisi rimangono bloccati perché nulla possono fare se muoiono o finiscono in carcere.
Questo certo è uno schema semplificato di cambiamento sociale. Ma evidenzia un punto fondamentale dei problemi inerenti l’azione collettiva: il fatto che sia un vantaggio netto in aggregato non significa che porti vantaggi ai singoli individui che formano l’aggregato e che sono gli attori del cambiamento sociale.
Cambiando schemi vediamo come anche questi mostrino lo stesso contrasto tra le ragioni dell’individuo e quelle della collettività. Prendiamo uno schema di cambiamento sociale di tipo marxista. Poniamo che la maggior parte degli individui sia spinta da interessi personali, che le proprie condizioni peggiorino a causa di uno sfruttamento crescente. Raggiunta una certa soglia di negatività, scatta la rivolta (vincente, perché sono numericamente superiori), che porta ad una società più equa o più produttiva con miglioramenti materiali per tutti.
Certo le cose non sono mai andate così. La vera storia dei veri movimenti dei lavoratori è molto più complessa di un semplice schema (il quale a sua volta rappresenta un marxismo semplificato). Un imprevisto può essere rappresentato dalle varie svolte riformistiche volute da grossi movimenti sedicenti radicali.
Ma anche la vera storia dei riformismi è complessa, pur avendo tra i fattori l’interesse dei lavoratori. Quando poi aggiungiamo al nostro semplice schema la lotta per le riforme, vediamo cosa può succedere. Se pensiamo che per fare le riforme il coinvolgimento della popolazione è meno necessario rispetto alle rivoluzioni, i risultati non sono altrettanto validi ma ci sono meno rischi per i partecipanti, capiamo perché si preferisce la via delle riforme.
Visto che occorre minore partecipazione e comportano meno rischi, le riforme dovrebbero essere la via preferita di chi ha interessi personali. Si arriva così ad un punto di equilibrio: chi lotta per le riforme si ferma quando i costi le rendono svantaggiose. Dato che molti lavoratori agiscono seguendo un bisogno immediato, raggiunto un certo livello di benessere smettono di lottare. I capitalisti, d’altro canto, per raggiungere un punto di equilibrio non hanno bisogno di spremere ogni lavoratore se non quel tanto che basta ad impedire che le persone motivate raggiungano la soglia che fa scattare l’azione collettiva.
Qualcuno dirà che la caduta del saggio di profitto finirà per rendere impossibile lo sfruttamento del lavoratore, ma questo non richiede alcuna attività da parte del lavoratore. Nessun marxista ha mai spiegato quanto lentamente cala il saggio di profitto, fare previsioni sulla fine del capitalismo è chiaramente fallimentare, pertanto l’individuo può benissimo ignorare la questione perché è impossibile dire quando accadrà.
Questo perché, ai fini dell’azione, è importante la velocità con cui cala il profitto. Per capire perché prendiamo una semplice funzione di decadimento come e-t*C. Ci si può sbizzarrire con il tasso di declino (C) e aumentare di qualche ordine di grandezza il tempo necessario a portarlo a zero. Se il tasso di profitto impiega secoli o millenni ad azzerarsi, il lavoratore non ha dubbi e accetta l’attuale lenta spoliazione capitalista.
Si tratta di esempi che ovviamente non illustrano le complessità del marxismo (e tanto meno della realtà). Ma spiegano perché non basta l’oppressione a spingere a quell’azione drastica che produce un vero cambiamento della società.
Tutto ciò sembra una tesi a favore dell’avanguardismo, di un partito di professionisti, o di rivoluzionari disciplinati capaci di guidare le masse verso simili incentivi trappola. Ma tutte le strutture centralizzate create per dirigere le masse rendono difficile l’azione collettiva.
Per capire perché, vediamo un semplice schema di azione collettiva che nasce dalla domanda: “quando è ragionevole che l’individuo agisca per gli interessi collettivi?”
Gli individui ovviamente hanno ragioni diverse per agire. Chi è mosso solo dall’interesse personale agisce soltanto se i vantaggi dell’azione collettiva superano i costi.
I più altruistici sono più disposti a sacrificarsi per gli altri. Ma il fatto che esistano persone altruistiche non significa che siano capaci di azione collettiva. Dopotutto, un ragionevole altruista che vuole davvero aiutare gli altri non è disposto a sacrificare tutto obbedendo alla prima persona che arriva (contrariamente all’immagine popolare dell’altruista ingenuo, un vero altruista agisce in maniera razionale e calcolata, se non altro perché i potenziali aspetti positivi sono molto più forti dati i rendimenti decrescenti del consumo individuale).
Allora la soluzione sarebbe un’avanguardia di altruisti razionali? No.
A parte che è difficile capire se una persona è veramente un altruista razionale, ed è anche difficile cogliere gli effetti psicologici del modo in cui il potere plasma l’individuo, una unione di tutti gli altruisti razionali non assicura un’azione collettiva altrettanto razionale. Nel mondo ci sono molti problemi urgenti e non c’è un modo per stabilire quale problema abbia la priorità e come debba essere affrontato. Ogni piano d’azione, imponendo una procedura comune ai singoli, impone anche costi significativi in termini di discussione su ciò che è importante e su cosa si deve fare.
Teoricamente, le grandi associazioni di volontari impiegano grandi risorse per arrivare ad un’intesa, ma è poi nella pratica che si arenano (da notare poi che un’intesa non vale una volta per tutte ma dev’essere costantemente rivista col mutare delle condizioni). Al contrario, e non si direbbe, i piccoli in certi ambiti sono più efficienti dei grandi nel realizzare i propri interessi, dato che è più facile accordarsi sul da fare.
Ma se sono più efficienti nel realizzare i propri interessi è solo perché possono ignorare o minimizzare gli interessi di chi sta fuori dal gruppo. La realtà e gli interessi particolari possono essere configurati in innumerevoli modi. Questo non significa che non si possono prendere in considerazione anche gli altri, ma più semplicemente che nell’azione collettiva a subire i più sacrificati sono i piccoli.
Per questo ogni avanguardia che cerchi davvero di rappresentare gli interessi di una “classe” resta intrappolata in una gabbia di incentivi molto più pericolosa di quella in cui si è ritrovato il nostro sottoproletariato. Perché l’azione sia efficace quest’avanguardia dovrebbe mettere in secondo piano gli interessi delle persone che dice di rappresentare. Questo accade a prescindere dalle ragioni di base, che riesca ad agire cinicamente sfruttando le masse a proprio vantaggio o che sia spinta da puro altruismo. A prescindere dai moventi, però, ci sono forti ragioni per voler semplificare il problema e renderlo gestibile.
Un semplice esempio pratico. Immaginiamo un rivoluzionario improvvisato che riesce a rovesciare lo stato promettendo riforme agrarie. È un cambiamento relativamente facile (come dimostra la storia, i contadini sono molto bravi a prendere la terra dei padroni). Ma così facendo dà vita ad una classe che non ha relazioni di dipendenza, che può produrre per sé, e che pertanto può opporsi alla legge. Se questi contadini liberati non vengono tenuti a freno, ad ogni passo si dovrà tener conto di loro data la loro accresciuta capacità di opporsi.
E questo significa che il potere sugli altri non è moneta universale. Chi lo ha è facile che agisca egoisticamente. Aggiungiamo a ciò che per un piccolo gruppo di persone è più facile raggiungere un’intesa, basta questo semplice esempio a spiegare perché le differenze di classe nascono in quelle società che possiedono istituzioni che offrono un potere significativo, anche quando le relazioni di proprietà sono drasticamente cambiate. La difficoltà a soppesare le questioni rende difficile l’attività di chiunque, persona o istituzione, voglia guidare gli altri verso un “interesse di classe”, che si tratti di condurli alla lotta contro un oppressore o mettere su un’organizzazione egalitaria dopo che l’oppressore è stato sconfitto.
Può sembrare disfattista. E in effetti, se uno proviene da quella tradizione di sinistra che pensa che dalla ragione individuale a quella collettiva sia solo un passo, è come dare un calcio alle sue grandi teorie “scientifiche” (in realtà, chi proviene da quella tradizione probabilmente ha smesso di leggere quando ho cominciato a parlare di incentivi individuali, accusandomi di essere un sostenitore dell’ideologia borghese o qualche altra cosa simile). Il fatto che un’élite riesca facilmente a coordinare l’azione non significa però che abbia successo. Sono i loro stessi meccanismi di controllo ad essere impediti dalla limitatezza dei processi o dai flussi informativi che bloccano le grosse organizzazioni. Le riflessioni che servono a cambiare la realtà delle masse richiedono proprio quelle decisioni che impediscono l’azione collettiva nelle grandi organizzazioni. Nel tentativo di influire sulla società nel suo insieme, queste sono necessariamente impedite dalle loro armi spuntate.
Questa tensione tra una classe di potere di una società che ha la possibilità di mettere in atto un cambiamento e il fatto che sia impedita dall’inadeguatezza dei suoi strumenti è una “contraddizione” molto più profonda di qualunque teoria sull’origine del valore di scambio delle merci o altro. I limiti al controllo possono venire direttamente da limiti fisici ai processi e ai flussi informativi. E non si tratta di un fatto contingente proprio di un particolare arrangiamento sociale, ma di qualcosa di fondamentale o quasi. Ha modellato le relazioni di potere di tutte le società conosciute, e continuerà a fare così anche in futuro (anche le menti artificiali hanno chiari limiti definiti, tra l’altro, dalla teoria informatica).
Queste dinamiche hanno un’importanza enorme che vanno oltre questo scritto. Preferisco continuare con le mie osservazioni di carattere generale così da portare alla luce informazioni strategiche derivanti da una migliore conoscenza dei problemi relativi all’azione collettiva.
La prima è che i sistemi utilizzati per risolvere i problemi dell’azione collettiva non sono ovvi e generano compromessi. La cosa potrebbe non importare quando si ha a che fare con piani dai risultati immediati in cui gli obiettivi sono chiari e ognuno conosce perfettamente la propria posizione. Ma quando si prendono decisioni per il lungo termine, i sistemi utilizzati presentano grossi costi di opportunità in fatto di distribuzione delle risorse e tendono a bloccarsi in quanto certi modi di risolvere i problemi entrano in conflitto con altri.
Pensiamo, ad esempio, a un partito di massa gestito gerarchicamente opposto ad un rete diffusa di individui con la mediazione di istituzioni policentriche, infrastrutture tecniche decentrate e norme sociali che permettono un’organizzazione più fluida. Nessuno di questi sistemi opera in modo diametralmente opposto all’altro, ma presenta forti incentivi individuali che impediscono le alternative. Durante la fase organizzativa, è difficile convincere la gente che occorre un partito di massa per facilitare il coordinamento e il dialogo. Per contro, chi ha accesso ad una struttura centralizzata può vedere in una struttura di relazioni a rete qualcosa di inutile, visto che gli è più facile rivolgersi alla struttura centralizzata.
Il compromesso è ulteriormente esacerbato dal fatto che non esiste un modo efficace di superare tutte le difficoltà dell’azione collettiva: centralismi e decentralismi hanno ognuno punti forti e punti deboli.
È molto importante allora capire quali sono i punti deboli e vulnerabili di un approccio decentrato. Il fatto che io ammetta che potere il gerarchico e centralizzato ha un vantaggio relativo in alcuni ambiti non significa affatto che ci veda una soluzione di lungo termine. La centralizzazione può andar bene in casi specifici, ma poi c’è il serio problema di come riorganizzarsi a livello individuale. Il cambiamento sociale è un processo aperto, continuo. Una maggiore libertà dell’individuo comporta necessariamente nuove dinamiche, e questo significa dover risolvere nuovi problemi legati all’azione collettiva e possibilmente una forte ristrutturazione. Il problema non può essere ridotto ai soli termini tecnici.
È vero, nella nostra società esistono numerosi processi inutili che servono solo a trasferire risorse verso i gruppi elitari o a soffocare l’autonomia dell’individuo, e una loro eliminazione semplificherebbe le cose. Ma in ultima analisi, nuove possibilità significano nuove opportunità ma anche nuovi problemi. Dopotutto, un mondo più libero è un mondo con più possibilità, un mondo in cui l’individuo ha più possibilità di configurare se stesso, il suo mondo e le sue relazioni. Questo è indubbiamente un bene, ma non possiamo pretendere che non crei nuovi problemi.
Che un cambiamento radicale porti a conseguenze inattese è un argomento di fondo dei conservatori. Ma il mondo può essere cambiato in tanti modi. Un cambiamento dal basso, con i singoli individui che trattano tra loro invece di attendere che il cambiamento gli piova dall’alto, è fondamentalmente diverso proprio perché permette un approccio più fine in una discussione tra pari (anche qui le cose possono non andare bene, ma almeno si evita quel genere di orrori che spesso un approccio dall’alto genera). Fare sperimentazione dal basso, inoltre, permette di mappare le possibilità future, le persone possono capire in anticipo cosa può non funzionare e quali invece possono essere i benefici.
Adeguare i fini agli strumenti, dunque, non solo è virtuoso, ma ha anche un valore strumentale perché permette di sondare, valutare e mettere su meccanismi in grado di ovviare ai problemi dell’azione collettiva in modi più dinamici e aperti.
Con un approccio dal basso, inoltre, si riducono al minimo opportunismi e spinte reazionarie. Uno dei vantaggi delle relazioni gerarchiche è che nascono molto più rapidamente. Relazioni di potere dietro la spinta di incentivi di forza possono essere imposte facilmente sulla popolazione. Un modo di relazione più organico richiede soluzioni complesse, che per diffondersi e diventare popolari richiedono tempo. Quando tutto crolla e il futuro è incerto è perfettamente ragionevole che si cerchino soluzioni piramidali a problemi collettivi per sopravvivere, anche se questo riduce le possibilità per il futuro.
Tutto ciò è buonsenso anarchico a vario grado. Ma è bene non fermarsi a contemplare l’evidenza, occorre anche spiegare l’aiuto che può venire da un quadro teoretico formale. La capacità di formalizzare le proprie intuizioni permette di farsi capire da chi non condivide il proprio pensiero, ma rappresenta anche la capacità di estendere le intuizioni oltre l’immediato, di identificarne i punti deboli.
Perché, per quanto i limiti dell’azione collettiva possano essere ampiamente ammessi, vengono penosamente sottovalutati quando si cerca di comprendere il capitalismo e le strutture di dominio. (Kevin Carson ha il merito particolare di aver descritto accuratamente le difficoltà dell’azione collettiva che stanno al centro del capitalismo). Un aspetto particolarmente frustrante: abbiamo visto nel corso della storia, più e più volte, come i controlli limitativi influiscano sull’operato della società e sullo sviluppo tecnologico, dai primi stati che imponevano ai contadini l’uso di colture facilmente controllabili a spese della nutrizione del lavoratore, alla borghesia capitalista che opta per tecnologie produttive che favoriscono il controllo dei lavoratori a discapito dell’efficienza.
Qualcuno a sinistra ammetterà che è così, ma tolto Carson quasi nessuno cerca di formulare una teoria del capitalismo che contenga queste intuizioni. David Graeber, ad esempio, nel 2015 ammetteva: “La destra perlomeno fa una critica della burocrazia. Non è molto sensata, ma almeno la fa. La sinistra nulla.” Un’ammissione di questo genere la dice lunga sul fallimento dell’anticapitalismo su questo fronte.
La mancata diffusione e integrazione di queste strutture di pensiero comporta costi di opportunità enormi. Credo seriamente che la sinistra non abbia capito che le difficoltà dell’azione collettiva sono un ostacolo tanto quanto gli eserciti, le infrastrutture di potere, le istituzioni e la propaganda che giustifica la realtà. Anzi, la questione è ancora più seria perché anche il sistema di potere ha problemi interni legati alle difficoltà della sua azione collettiva. Difficoltà che hanno due facce, e questo complica l’azione di chi vuole allargare ma anche di chi vuole schiacciare la libertà.
Se i movimenti anticapitalisti di quest’ultimo secolo hanno fallito (pubblicità, lavoro post-fordista, filiere globali, pensatoi neoliberali, consumismo e così via) è per milioni di ragioni. Certo, hanno lasciato un’impronta, ma spiegare il fallimento o la vacuità del cambiamento imputandolo alle difficoltà dell’azione collettiva non ha senso (anche i regimi e i movimenti autoritari fanno errori gravi, ad esempio!). Cercare di cambiare la realtà è difficile già di per sé, ma è ancora più difficile quando ci si dà la zappa ai piedi adottando una visione delle cose che promette cose che non accadono mai.