Di Kevin Carson. Originale pubblicato il 30 giugno 2021 con il titolo The Status Quo is a Government-Contrived Labor Surplus. Traduzione di Enrico Sanna.
Se non è che vivete nelle caverne o praticate l’astinenza totale dai media, vi sarà capitato di sentire la voce di chi, portavoce del peggio, si lamenta dicendo che “nessuno vuole più lavorare!” Lo sdegno è così grande che c’è chi lo esprime affiggendo cartelli rabbiosi alle vetrine.
Io non so quanto questi cartelli possano attirare chi cerca un lavoro, è certo però che la rabbia è un’enorme fonte di divertimento per chi, come me, bazzica Twitter e Facebook.
Ora ad aiutarli c’è Richard Ebeling, dell’American Institute for Economic Research. Non che sia una sorpresa, visto che la promozione del peggio è proprio la missione dell’AIER. Ma per Ebeling è anche una questione personale. Come spiega lui stesso nell’articolo “The Labor Shortage Is a Government-Contrived Scarcity,” del 14 giugno scorso. Voleva andare in ristorante con la moglie, ma ha dovuto rinunciare per colpa di certi sfaticati che non vogliono lavorare alle condizioni offerte dai datori.
Son sicuro che non solo Ebeling, ma anche il proprietario del ristorante tailandese in questione – erede di chissà quanti padroni oltraggiati dal canagliume spadronato fin dai tempi dei Tudor – condividerebbero quello che dice Hines, il proprietario di cinquanta acri che in Furore (John Steinbeck) dice: “I rossi sono figli di puttana, gli dai venticinque centesimi e ne vogliono trenta!”
Quanto a Ebeling, secondo lui la mancanza di personale ai tavoli non è casuale, ma voluta! E dallo stato! La cena di Ebeling non è morta, è stata uccisa. E chi l’ha uccisa ha nome e indirizzo.
Apparentemente, tutta questa difficoltà a trovare personale è un mistero. “Le proposte sono tante, ma solo pochi sono interessati all’offerta. Perché?”
Qualcuno dice che i datori di lavoro sono avari, non pagano abbastanza da convincere un disoccupato a rientrare nella forza lavoro attiva. Questo però non spiega perché il salario “x” che questi lavoratori accettavano quindici mesi fa, oggi, poco più di un anno dopo, è inaccettabile, soprattutto data la perdita di reddito che si è avuta nel frattempo.
La verità, dice Ebeling, è che le indennità di disoccupazione sono state artificialmente estese e aumentate, e i lavoratori guadagnano altrettanto, se non di più, stando a casa piuttosto che andando a lavorare.
Ebeling vede le cose al contrario. Ad essere artificiale è l’attuale condizione capitalista. Avrebbe fatto meglio a chiedersi come mai prima, in una situazione che lui considera normale, la gente si costringeva a fare un lavoro che odiava profondamente. La risposta, ovviamente, è perché l’unica alternativa erano la fame e la strada.
Ma era il passato, quello a cui Ebeling vorrebbe tanto tornare, l’anomalia creata dallo stato. Artificiale era la piena occupazione del passato, creata dallo stato rendendo difficile l’accesso dei lavoratori ai mezzi di produzione.
Quello stato delle cose che per Ebeling rappresenta la normalità capitalista è stato reso possibile solo da secoli di violenza dello stato. Nasce ad opera dello stato e vive finché lo stato continua a fare violenza.
In Inghilterra tutto cominciò tra il tardo Medio Evo e l’incipiente modernità con l’esproprio delle terre coltivabili nei fondi indivisi, terre che venivano recintate e usate come pascolo per le pecore. I contadini furono privati del tradizionale diritto di accedere alla terra, sfrattati e costretti a pagare affitti salati. I padroni potevano farlo perché c’era la forza dello stato che costringeva i lavoratori, ora senza terra, a lavorare a salario alle condizioni offerte; per chi rifiutava c’era la tortura, la violenza o il bracciantato. Il furto delle terre prosegue nel diciottesimo e diciannovesimo secolo con l’esproprio decretato dal parlamento dei pascoli comuni e delle terre incolte.
I padroni capitalisti confidavano sul controllo sociale totalitario e sulla forza dello stato per imporre e disciplinare la forza lavoro. Le Leggi sulla Residenza istituirono un sistema di passaporti interni. Con le Leggi sulle Associazioni lo stato proibì anche la libera associazione tra lavoratori, e criminalizzò le associazioni di mutuo soccorso temendo che rappresentassero un terreno fertile per il radicalismo, temendo che i fondi potessero essere usati per finanziare gli scioperi. Come spiegano J.L. e Barbara Hammond, la società inglese fu “fatta a pezzi… e rimessa assieme come un dittatore rifà uno stato libero.”
Col diffondersi del capitalismo, i tradizionali diritti terrieri dei contadini furono abrogati, prima in Europa e poi in altre parti del mondo colonizzate dagli europei. Un caso dopo l’altro (l’insediamento permanente di Hastings in Bengala, le haciendas in America Latina e così via in tutto il mondo colonizzato) le persone furono private del loro diritto di lavorare autonomamente la terra e costrette a lavorare per i padroni capitalisti.
E quanto al periodo del cosiddetto “laissez-faire”, i rigidi controlli sociali, la schiavitù, i dazi e altre cose non furono abrogati perché improvvisamente ci si rese conto che erano brutte idee, perché finalmente si ebbe una migliore comprensione dell’economia. Al contrario, lo stato capitalista li eliminò perché non servivano più. Non servivano più ai sistemi di potere perché questi erano consolidati. Che bisogno c’era di imporre dazi commerciali, ad esempio, quando la Gran Bretagna con l’impero controllava metà delle risorse mondiali, quando i suoi mercanti avevano il monopolio dei trasporti al suo interno e soffocavano qualunque minaccia concorrenziale da parte dell’industria tessile indiana?
E poi nonostante le pretese di laissez-faire, lo stato continuò a tutelare scarsità artificiale e diritti di proprietà artificiali, due pilastri del capitalismo. Ancora oggi, lo stato tutela i diritti di proprietà assenteista di eredi e assegnatari dei ladri di cui ho parlato più su. Lo stato americano e i suoi alleati tengono in piedi un impero mondiale con il fine di mantenere al potere quegli stati che tutelano il diritto alle terre e alle risorse razziate sotto il colonialimso e tengono basso il costo del lavoro. Lo stato tutela il monopolio dei brevetti che permette ad aziende mondiali di racchiudere la produzione in appalto in un guscio legale, mantenendo il monopolio legale delle vendite, una forma di protezionismo da cui il capitalismo dipende così come il capitalismo nazionale dipendeva dai dazi un secolo fa.
Lo stato esclusivizza i credit commons, dando così a chi ha accumulato ricchezze il monopolio sul diritto di finanziare le aziende, e dunque il diritto di organizzare l’attività produttiva. È così che Elon Musk diventa un “genio” anche se personalmente non ha mai progettato o inventato nulla. Grazie al controllo degli aspetti finanziari, può appropriarsi del lavoro cooperativo e dell’intelletto sociale altrui, appropriarsi del credito e ricavarne una rendita.
Una persona in polemica con gli interessi dei lavoratori – nell’universo specchiato di Ebeling sarebbe una sorta di malvagio Spock – avrebbe potuto rivoltare così la sua domanda: perché i lavoratori dopo gli espropri delle terre erano più disposti a lavorare a salario, nonostante i salari offerti non fossero cresciuti rispetto a prima né il prezzo del pane fosse calato?
Anche qui, la risposta è semplice: finché potevano accedere a strumenti indipendenti di sussistenza grazie al tradizionale lotto di terra coltivabile che gli spettava, finché avevano diritto di pascolare, fare legnatico e cacciare nelle terre incolte, finché avevano tutto ciò non erano disposti a lavorare per i salari offerti dai datori di lavoro. Una volta privati dei loro mezzi indipendenti di sussistenza, la scelta obbligata fu l’accettazione di qualunque salario offerto, per quanto basso fosse, per non morire di fame.
Un problema di fondo dell’economia politica capitalista, fin dai tempi della Favola delle api di Mandeville, era come far sì che il lavoratore fosse costretto a scegliere tra il lavoro ai termini imposti dal datore e la fame.
Giungere a questo stato di cose era l’obiettivo conscio del capitalista agrario che chiedeva e realizzava le enclosure. Sapeva, e lo diceva apertamente, che finché le persone avrebbero potuto trovare sostentamento nelle terre comuni, si sarebbero rifiutate di lavorare per i possidenti terrieri che chiedevano orari lunghi, lavoro duro e paghe basse. Sapeva, e lo diceva chiaro e forte, che avrebbe potuto sfruttare a piacimento i lavoratori quando l’unica alternativa al salario sarebbe stata la fame.
E tanti lo dicevano a chiare lettere. Ecco qui alcuni esempi tratti da scritti polemici di possidenti inglesi ai tempi delle enclosure volute dal parlamento:
Nel 1739 un panflettista sosteneva: “per rendere attive e obbedienti le classi inferiori… non c’è che ‘porle nella necessità di lavorare per tutto il tempo che non dedicano al riposo e al sonno se vogliono avere ciò che gli occorre per vivere’.”
Un pamphlet del 1770 dal titolo “Saggio sul Commercio e gli Affari” avvertiva che “[i] lavoratori non dovrebbero mai considerarsi indipendenti dai loro superiori… La cura non sarà perfetta finché gli operai poveri non si accontenteranno di lavorare sei giorni per la stessa somma che ora guadagnano in quattro.”
Arbuthnot nel 1773 denunciava i common (comunità basate sulla proprietà terriera collettiva, ndt) come “un pretesto per fare pigrizia; perché, tolto qualcuno, se gli offri un lavoro loro ti dicono che devono accudire le pecore, tagliare il ginestrone, togliere le mucche dal pantano, o magari anche ferrare il cavallo per la corsa dei cavalli o la gara di cricket.”
John Billingsley, nel suo Rapporto sul Somerset presentato nel 1795 al Comitato Agrario, parla di effetti dannosi causati dal common al carattere del contadino: “A furia di passeggiare dietro al bestiame al pascolo, diventa pigro. Perde così un quarto, metà e talvolta anche una giornata intera. Il lavoro giornaliero lo disgusta e più indulge nelle sue pratiche e più cresce il disgusto; poi gli basta vendere un vitello o un maiale male in arnese e alla pigrizia aggiunge l’intemperanza.”
Bishton, nel suo Rapporto sullo Shropshire del 1794, era tra i più onesti nel dichiarare gli obiettivi delle enclosure. “L’utilizzo della terra comune genera nei contadini una sorta di senso d’indipendenza.” le enclosure dovrebbero servire a far sì che “i lavoratori lavorino tutti i giorni dell’anno, e che i anche i loro figli vengano messi a lavorare quanto prima, … così da assicurare quella subordinazione dei ceti inferiori oggi così necessaria.”
John Clark, dell’Herefordshire, scriveva nel 1807 che i coltivatori della sua contea erano “spesso a corto di manovalanza: recintare le terre incolte aumenterebbe le braccia disponibili ed eliminerebbe lo strumento che permette loro di campare pigramente.”
Non somiglia a quei ristoranti che mettono cartelli con la scritta “Nessuno vuole più lavorare”?
I sacrosanti “diritti di proprietà”, alla cui difesa pensatoi libertari di destra come l’AIER dedicano la propria esistenza, le proprie fortune e il sacro onore, sono i diritti di proprietà degli eredi e degli assegnatari dei ladri che realizzarono gli espropri. Ciò contro cui lottano è la richiesta dei discendenti dei derubati di riavere indietro ciò che era loro.
250 anni fa in Inghilterra i portavoce delle classi possidenti sostenevano che “la nazione” avrebbe tratto un beneficio se i lavoratori fossero stati strappati all’indolenza con la disciplina, e se i salari fossero stati così bassi da costringerli a lavorare sei giorni per guadagnare quel sostentamento che prima avevano con meno. Peccato che per la stragrande maggioranza della popolazione costretta al lavoro salariato tutto ciò non portasse nessun beneficio.
Come a significare che non è cambiato nulla, e che i “libertari” di destra di oggi hanno preso il testimone delle succitate classi possidenti settecentesche, Reason pubblica oggi un commento dal titolo “La California e New York hanno tutto da guadagnare dall’abolizione dei sussidi di disoccupazione”. Il quale articolo non fa che spiegare raggiante quante persone sono state costrette ad accettare un posto alle condizioni dei padroni laddove gli extra sono stati abrogati. Da notare che soltanto ora i lavoratori hanno dei benefici perché le aziende sono state costrette ad alzare i salari o a rendere comunque più attraente il lavoro, e che i lavoratori rappresentano la stragrande maggioranza della popolazione sia in California che a New York. Ma quando i “libertari” di destra dicono che ci guadagneranno la California e New York, vogliono dire che a guadagnarci saranno possidenti e padroni; insomma, dicono esattamente quello che dicevano i loro antenati spirituali 250 anni fa quando parlavano della “nazione”.
Ebeling dice che certe cose come i sussidi di disoccupazione creano “un falso ‘costo di opportunità’ per i lavoratori in termini di compromesso tra lavoro e non-lavoro.”
Dico che è “falso” perché se non ci fossero questi programmi ridistributivi i lavoratori poco qualificati valuterebbero diversamente il guadagno perso non accettando un impiego lucroso rispetto magari al nulla. Questi programmi, invece, finché restano in vigore non fanno altro che rappresentare un “livello minimo”, per cui accettando un posto sotto questo livello si va in perdita.
La verità è il contrario di quello che sostiene Ebeling. È lo stato, in combutta con i padroni capitalisti, a distorcere il calcolo del costo di opportunità distruggendo il livello minimo sotto il quale lavorare non conviene.
Ebeling continua la sua predica spiegando che “in un mercato competitivo”, in un mondo senza “scarsità creata” o “ricchezza creata” dallo stato, tutto procederebbe in maniera naturale. Secondo lui, è l’attuale riluttanza dei lavoratori ad accettare un posto al salario corrente che costituisce “scarsità creata”, a cui si oppone la succitata naturale competizione nel “libero mercato”, in cui il lavoratore accetta il lavoro offerto e ringrazia. A distorcere il tutto sarebbe dunque il trasferimento di ricchezza dai ricchi ai poveri, perché se non si accrescesse artificialmente il potere contrattuale del lavoratore a spese del capitale le cose andrebbero altrimenti. Se non fosse per l’intervento socialisteggiante dello stato a favore dei lavoratori, potremmo tornare a un “libero mercato” naturale e competitivo, dove i padroni stanno meglio e i lavoratori peggio.
Il ragionamento di Ebeling è sostanzialmente una versione un po’ più intellettuale di “Quick as Hell Full Employment Theory” (Teoria del pieno impiego immediato, ndt) di Robert J. Ringer: eliminiamo i benefici, i buoni alimentari e le indennità di disoccupazione, e tutti troveranno subito un lavoro.
Ma la verità è l’esatto opposto. Il compito dello stato sotto il capitalismo è di creare, artificialmente, un di più di lavoratori in competizione tra loro per i posti disponibili. Lo stato interviene principalmente per rendere artificialmente inaccessibili le alternative al lavoro salariato, per rendere artificialmente scarsi i mezzi di produzione. Lo stato interviene principalmente per imporre la rendita della terra, del capitale e del credito con la scarsità artificiale, per aiutare la classe padronale a vivere di rendita. Lo stato alimenta un flusso di ricchezza che va principalmente dai poveri verso i ricchi.
Quel poco di reddito che va in direzione contraria, sotto forma di benefici sociali, salario minimo e simili, è del tutto secondario, e riflette il compito dello stato di salvaguardare l’esistenza del capitalismo.
La realtà è l’opposto esatto di quello che dicono i libertari di destra, la “normalità” è un sistema in cui il capitale si accumula in poche mani, i mezzi di produzione sono di proprietà assenteista e quasi tutti sono lavoratori salariati, a cui si aggiunge lo stato che occasionalmente limita le pretese dei padroni e rende la vita un po’ meno schifosa per i lavoratori.
Quella che Ebeling chiama normalità, quell’equilibrio di potere tra lavoratore e padrone che vigeva prima dell’estensione dei sussidi di disoccupazione, non è che una condizione artificiale. La situazione che lui lamenta, così come l’estensione dei sussidi che ne risulta, non è che una pallida imitazione della situazione che prevaleva spontaneamente prima delle enclosure.
Arriviamo così al cuore, alla vera natura del programma dei libertari di destra: presentare come “naturale” o “volontario” un sistema che nasce costrittivo e rimane costrittivo nella sua logica di base. Facciamo un piccolo esperimento mentale. Leggete I, Pencil, un libercolo che celebra le magie dello “scambio volontario” nel mettere assieme le varie parti che costituiscono una matita facendole venire da tutto il mondo. Mentre lo leggete, fermatevi ogni tanto e chiedetevi da dove vengono i vari materiali citati. Sono risorse che provengono da zone colonizzate da uno stato creato da coloni, come gli Stati Uniti, o da qualche impero coloniale europeo, ai tempi di Leonard Read, o poco prima.
Ora, quando dico che i libertari di destra cercano di far passare come “volontario” un sistema creato con la violenza e la costrizione, non parlo a casaccio. Bisogna sempre tenere a mente che tutto ciò è al cuore del programma ideologico capitalista. L’ideologia capitalista è piena di favole, robinsonate e storie preconfezionate, che dicono che la proprietà privata è nata con l’appropriazione pacifica separando la terra dai beni comuni con l’unione del proprio lavoro, o che le economie dominate dalla produzione di merci sul nesso di cassa sono il risultato della “tendenza a commerciare, barattare e scambiare”, o ancora che il dominio della moneta metallica è la risposta spontanea al problema della “doppia coincidenza del bisogno”, e così via.
Per tutti i libertari genuini – ovvero quelli che vogliono dare forza alla capacità d’agire dell’individuuo contro istituzioni autoritarie come lo stato e il capitale, non quel genere di “libertario” che difende d’istinto la ricchezza dei ladri e un modello artificiale di “proprietà privata” imposto dai primi stati moderni – dare più possibilità ai lavoratori di dire no a un lavoro finché non ha una paga migliore, o di vivere bene lavorando meno o senza lavoro salariato, è l’obiettivo.
Cose come la sospensione degli sfratti, l’estensione dei sussidi di disoccupazione, i benefici sociali, i salari minimi e altre cose simili rappresentano fenomeni che nascono quando i privilegi imposti dallo stato capitalista diventano destabilizzanti e lo stato (in quanto comitato esecutivo degli interessi del capitale) deve intervenire per evitare che la gente finisca per strada o che muoia di fame facendo collassare la domanda aggregata e distruggendo il capitalismo. Sono interventi secondari che certo migliorano la situazione dei lavoratori, ma che non riparano affatto il furto perpetrato ai danni dei lavoratori dall’intervento primario dello stato quando impose i privilegi di capitalisti e possidenti.
Non fraintendetemi: non mi agito per chiedere l’eliminazione degli interventi secondari fino ad eliminare anche quelli primari, perché i primi non sono altro che un limite che lo stato impone all’abuso della concessione del potere che esso stesso fa. Finché restano in piedi le concessioni di potere e i privilegi, resto favorevole a qualunque sotterfugio che accresca il potere dei lavoratori.
Come ho già detto, però, quel poco potere fornito da quei benefici che Ebeling odia tanto non sono che un pallido, esile ricordo del potere che avevano i lavoratori prima di essere derubati dal duo stato-capitale. Il nostro obiettivo è la fine del furto: invalidare la proprietà assenteista non fondata sull’occupazione e l’uso, distruggere le barriere al bene comune credito che danno ai ricchi il monopolio della fornitura della liquidità necessaria a finanziare le attività produttive, e infine rendere ai lavoratori il possesso di se stessi.
In breve, il nostro obiettivo è arrivare a quella condizione tanto disprezzata da Ebeling e dai padroni rabbiosi: una condizione per cui i lavoratori impongono i termini e possono astenersi dal prestare lavoro finché i loro termini non vengono rispettati. Tutto questo e anche di più, ovunque e sempre.