Di Vishal Wilde. Originale pubblicato l’undici luglio 2017 con il titolo Copyright Law Helps Perpetuate Neo-Colonial Knowledge-Oligarchies. Traduzione di Enrico Sanna.
Analizzando il ruolo che ha il copyright nel perpetuare le oligarchie che controllano il sapere e ne soffocano la diffusione capillare, appare chiaro che si sta perpetuando una forma di “neocolonialismo”. Il copyright è un “diritto legale, creato dalle leggi di un paese, che dà all’autore di un’opera originale il diritto esclusivo di usarla e distribuirla”; per quanto riguarda gli autori, spessissimo questo diritto è in qualche modo nelle mani dell’autore. Il termine “oligarchia del sapere” deriva dal concetto di struttura (di mercato) detto “oligarchia”. Le oligarchie sono strutture il cui potere è concentrato nelle mani di un gruppo particolare (élite o altro). Se è vero che, storicamente, “sapere è potere”, allora una “oligarchia di potere” è la forma più pericolosa di oligarchia. Questa oligarchia agisce in vari modi, ma prevale la forma del complesso accademico-industriale dovuta alla posizione dominante delle università nei paesi sviluppati (soprattutto gli Stati Uniti, ma anche Europa e Asia).
I ricercatori universitari (compresi molti che stanno in paesi sviluppati) non particolarmente ricchi di risorse non possono accedere alla ricerca sottoposta a valutazione paritaria perché non possono permettersi di pagare gli abbonamenti o perché le loro istituzioni si rifiutano di pagare per impiegare le risorse in altri campi. Alla lunga, questo soffoca la ricerca, se non la blocca del tutto, nella maggior parte delle istituzioni dei paesi in via di sviluppo. Come si fa a fare “ricerca al grado più alto” se è negato l’accesso alle “ultime” conoscenze? Il fatto che esista sci-hub.io e sia largamente usato è prova del fatto che molti vogliono accedere alle conoscenze ma allo stato attuale non possono permetterselo. Ed è il copyright a gonfiare i costi associati alla distribuzione, la riproduzione e l’articolazione del sapere. In assenza di copyright, esistono altri modi per ricompensare l’attività intellettuale di chi produce opere (creative) originali.
Quando si inibisce la possibilità di attingere alla ricerca, gli effetti si trasferiscono in basso fino a colpire la qualità dell’istruzione ricevuta dagli studenti degli insegnanti a cui viene impedito l’accesso al sapere più recente. Ovviamente, c’è differenza tra uno studente che impara da un professore che ha semplicemente ingurgitato libri e uno che impara da chi ama la materia al punto da tenersi informato, applicare le nuove teorie ed espandere i limiti della conoscenza. Ad ingurgitare testi e prescrizioni sono solitamente le persone servili che derivano benefici e privilegi dagli oligarchi del sapere. Questa è una delle ragioni principali per cui gli studenti delle università in cui l’attività e la produzione di ricerca è “superiore”, a livello nazionale e internazionale, sono non solo valutati di più dai datori di lavoro, ma anche circondati nella vita quotidiana da un’incredibile aura di credibilità e autorità che li pone sopra i loro pari “normali”. E anche quando la via accademica è bloccata, e si è costretti a ricorrere alla via autodidattica, le restrizioni imposte dal copyright restano un impedimento.
In termini assoluti, le economie cinese e indiana sono più grandi di quella americana (l’economia cinese è la prima al mondo, mentre quella indiana è la terza in termini di parità di potere d’acquisto del pil), e hanno anche un superiore tasso di crescita. Ma prevale ancora il desiderio, in una porzione significativa delle classi benestanti, di far studiare i propri figli all’estero, soprattutto in Nord America, Europa o paesi asiatici ad alto reddito. Per le classi medie e alte di Cina e India sono poche le università dei loro paesi che reggono il confronto con le migliori, o anche le mediocri, controparti americane o europee.
E però accedere certe istituzioni indiane e cinesi, come gli istituti tecnici indiani, quelli tecnico-commerciali, l’Università di Pechino, Tsinghua University, e la Renmin University, all’atto pratico è spesso più difficile, statisticamente, che accedere alle migliori università europee e americane. E ciononostante continuano ad essere giudicate molto inferiori rispetto alle loro controparti dei paesi “sviluppati”. Questo perché le classifiche (di cui teniamo un conto eccessivo) solitamente includono la produzione scientifica come fattore significativo (vedi le classifiche di Quacquarelli Sysmonds, Times Higher Education e U.S. News). Da qui il dominio accademico dei paesi sviluppati. Quando le università più ricche possono permettersi di pagare i prezzi gonfiati del materiale protetto da copyright, mentre le controparti dei paesi in via di sviluppo restano indietro, le disparità in termini di formazione si estremizzano. In Nigeria, le istituzioni accademiche hanno espresso più volte le loro frustrazioni riguardo lo stato della ricerca accademica.
Le limitazioni che i costi gonfiati del copyright impongono alla possibilità di fare ricerca portano ad un rafforzamento delle reti di ricercatori nei paesi “sviluppati” e allo stesso tempo spingono il talento intellettuale dei paesi in via di sviluppo ad emigrare, fenomeno conosciuto come “fuga di cervelli”. Questi emigrati, a loro volta, provano sulla loro pelle xenofobia e razzismo, cose che rafforzano ulteriormente l’oppressione nelle società e tra le società. In pratica, poche istituzioni di ricerca eccellenti in un dato paese significano molte meno possibilità di collaborazione a livello nazionale e internazionale; e dunque meno investimenti nella ricerca e minore collaborazione e scambio di idee tra studiosi. È così che il copyright aiuta a perpetuare la povertà intellettuale generata dalle oligarchie del sapere. Ne deriva una spirale autodistruttiva e autorafforzante difficile da contrastare. In termini assoluti, la situazione sta migliorando, ma è innegabile che le limitazioni alle opportunità di studio e all’autonomia intellettuale accrescono le disuguaglianze, almeno in termini relativi.
E queste disuguaglianze intellettuali le ritroviamo poi riflesse nelle relazioni sul posto di lavoro. Il fatto che il copyright neghi l’accesso alla conoscenza a persone e istituzioni più povere si traduce in disparità di sapere tra studenti e tra lavoratori di diversa estrazione. Come a chi ha studiato presso un’università d’eccellenza del paese viene accordato, esplicitamente o meno, un certo status e una certa “deferenza”, così nei paesi in via di sviluppo si attribuisce a priori una maggiore competenza a chi si è laureato all’estero. Molti aspiranti alla laurea vogliono andare in America o in Europa proprio per questo: per acquisire un certo vantaggio rispetto a chi è rimasto in patria, vantaggio che poi sfruttano quando tornano nel loro paese per lavorare.
Questa nefasta riproduzione delle relazioni di potere è tanto più preoccupante in quanto sono solo le famiglie con un certo reddito a mandare all’estero i propri figli. E quando questi tornano, le loro famiglie ricche sfruttano gli effetti neocoloniali delle oligarchie del sapere, analogamente a quanto avviene nei paesi sviluppati anche se in grado minore.
Più in generale, il copyright deprime l’accesso al sapere da parte della popolazione mondiale a meno che non si riesca a pagare le rette o i costi d’accesso. L’accesso al sapere non deve essere ristretto. Mettere a guardia del sapere persone o istituzioni come i dipartimenti, le università, gli editori, lo stato o altri, genera scarsità di sapere, in particolare nei paesi in via di sviluppo ma anche in quelli sviluppati. Ed è questa scarsità di sapere, favorita dal copyright, che genera sfruttamento. Se l’intento è di “decolonizzare la mente”, bisogna guardare soprattutto al ruolo che ha il copyright nel perpetuare le gerarchie e le oligarchie del sapere.