Perché “Riformare” il Copyright Significa Ucciderlo

[Di Kevin Carson. Originale pubblicato su Center for a Stateless Society il 21 agosto 2016 con il titolo Why “Reforming” Copyright Will Kill It. Traduzione di Enrico Sanna.]

Electronic Frontier Foundation ha recentemente presentato un esposto contro la sezione 1201 della Digital Millennial Copyright Act (DMCA) su basi costituzionali. Secondo l’esposto, la sezione, che criminalizza non solo chi aggira la protezione della Gestione dei Diritti Digitali (o DRM) ma anche chi condivide informazioni su come fare, va contro il diritto di espressione riconosciuto dal Primo Emendamento. Su Defective by Design, Zag Rogoff sostiene (“This lawsuit could be the beginning of the end for DRM,” 17 agosto) che l’abolizione della sezione 1201 potrebbe significare la fine del DRM. “Quando la 1201 non esisterà più, si spera, gli strumenti per aggirare il DRM si diffonderanno a macchia d’olio, e bloccare gli utenti sarà così difficile che le aziende smetteranno di provarci.”

Questo significa eliminare il modello capitalistico, in campo informatico, basato sulla “barriera DRM”, un sistema di sfruttamento economico e di potere di classe che, affidandosi alla soppressione del libero flusso informativo, ricorda i privilegi burocratici della vecchia Unione Sovietica. Significa anche distruggere il fulcro dell’attuale concetto di copyright: i raid, le leggi che alla terza infrazione tolgono la connessione a chi scarica illegalmente, e il sequestro del dominio dei siti di condivisione.

Ma come nota Cory Doctorow (Courtney Nash, “Cory Doctorow on legally disabling DRM (for good),” O’Reilly Media, 17 agosto), tutto ciò non distruggerà soltanto il regime draconiano di quella che è solitamente considerata l’industria informatica (musica, cinema, software, ecc.) ma anche l’uso sempre più invasivo del software protetto da copyright per imporre schemi proprietari e modelli aziendali a beni fisici. Per imporre, per esempio, pezzi di ricambio e accessori originali (come le cartucce di stampa) ricorrendo a software che scarta prodotti di terze parti.

“È un problema sentito in molti ambiti. Lo si ritrova nelle pompe di insulina, nelle macchine per votare, nei trattori… Diversi ricercatori nel campo della sicurezza hanno inoltrato un dossier in cui si parla di difetti gravi in prodotti che vanno dalle macchine per votare alle pompe insuliniche alle automobili, difetti non rivelati, su consiglio dei loro legali, perché così facendo potrebbero aiutare qualcuno a bypassare le protezioni DRM incorrendo così in denunce civili e penali.”

In breve, eliminare l’imposizione legale dei DRM (imposizione ottenuta, badate bene, ricorrendo a leggi criminali, non civili) distruggerebbe l’intero modello aziendale basato sull’informatica proprietaria, sia nella “industria digitale” vera e propria che nella produzione di beni fisici. Da notare che proprio queste sono le fonti primarie di profitto dell’attuale industria corporativa mondiale.

È interessante notare che intellettuali come Doctorow e Lawrence Lessig dichiarano di non essere contro il copyright: vogliono soltanto riformarlo e renderlo più giusto. Considerato quanto detto sopra, però, se il copyright sopravviverà in qualche forma, anche minima, dipenderà da interventi polizieschi come il DMCA e le clausole sulla “proprietà intellettuale” contenute in trattati sul “libero commercio” come il TTIP.

Questo non significa che il copyright cesserebbe di esistere o che non sarebbe più applicabile in alcuna forma. Ma ciò che resterebbe, tolta la possibilità di arrestare o denunciare per il reato di condivisione, sarebbe il copyright d’antan degli anni settanta. Il suo principale effetto concreto sarebbe impedire la stampa su larga scala di versioni non autorizzate di libri coperti da copyright, o di registrazioni acquistate in negozio. E questo sarebbe molto meno significativo, per lettori e ascoltatori, di quanto non lo fosse negli anni settanta, quando l’inconveniente della bassa qualità delle fotocopie e delle cassette era la minaccia principale per le industrie editoriali e discografiche. A quei tempi l’importanza del copyright come strumento per estrarre rendita era relativamente marginale rispetto alle altre fonti di profitto del capitalismo.

Il modello capitalistico che conosciamo noi, basato sul software proprietario alla base della rendita delle multinazionali, dipende completamente dall’azione dello stato di polizia come la criminalizzazione di chiunque cerchi di aggirare il DRM, l’arresto (senza processo di alcun genere) per violazione presunta dei contenuti online e il blocco di domini web e relativi server senza dovuto processo. Senza questi poteri, il copyright semplicemente collassa.

Ma fortunatamente questo modello capitalistico è condannato, a prescindere dal risultato dell’azione legale della EFF (e mi auguro che passi!). Anche allo stato attuale le tecnologie progrediscono così rapidamente che film e canzoni private del DRM solitamente compaiono sui siti torrent lo stesso giorno in cui escono sul mercato, mentre la condivisione dei file per i più giovani è una cosa scontata. L’idea che le protezioni si debbano aggirare si sta ora allargando all’editoria accademica grazie a SciHub. Quanto passerà prima che si diffonda ai ricambi originali e ai software di diagnostica?

Come sempre, come dice l’amico Charles Johnson del C4SS (“Counter-Economic optimism,” Rad Geek People’s Daily, 7 febbraio 2009), un’oncia di aggiramento vale una libbra di lobby.

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